domenica 31 maggio 2009

VARIE 264

1.Fà carne 'e puorco...
Ad litteram: far carne di porco; id est:trarre il massimo del profitto, lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale, è noto, non si butta via nulla...

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2.Fà 'o paro e 'o sparo....
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer responsabilità, all'alea della sorte.

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3.Lassàte 'e penziere miéje e pigliateve 'e vuoste!
Ad litteram: Lasciate stare i miei problemi e prendetevi i vostri! Id est: Impicciatevi dei fatti vostri ed evitate di darmi consigli (non richiesti)!

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4. È fernuta 'a zezzenella!
Ad litteram: È finita (id est:si è svuotata) la piccola mammella. Sorta di ammonimento che vuol significare: è terminata la pacchia,si appresano tempi difficili, oppure - con diversa valenza -(ragazzo!,) la mammella è ormai vuota, è tempo di crescere!

Zezzenella s.f. = piccola mammella il sostantivo a margine è quale diminutivo (con doppio suffisso (ina + ella→nella)) , una forma collaterelale di zezzella e cioè di piccola zizza=mammella dal lat.: titta(m); rammento che in napoletano esiste anche la voce zezzeniello che è un s. m.le ed è una sorta di maschilizzazione della voce a margine, ma indica cosa assolutamente diversa e cioè la parte alta del collo, quella che, nei maschi, insiste sul pomo di adamo e che proprio per la sua forma blandamente pizzuta può richiamare alla mente la forma di una piccola tetta, una zezzella appunto di cui maschilizzato riprende il nome.

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5. Fà ascí ‘e ssòvere ‘a culo.
Letteralmente: fare uscire le sorbe dal culo; iperbolica furbesca espressione che sta per: percuotere qualcuno, torchiarlo fino allo spasimo, quasi strizzandolo fino a che non dica o confessi ciò che sa o abbia fatto, costringendolo iperbolicamente ad emettere le emorroidi (eufemisticamente dette sovere (s.vo f.le che indica in realtà i frutti del sorbo, deverbale dal lat.: sorbere→sobere in quanto frutti succosi e maturi, quasi da suggere).

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6. Fà tremmà ‘o strunzo ‘nculo.
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso.
Tremmà = tremare, essere scosso da una serie di rapide contrazioni muscolari causate dal freddo, dalla paura, da una malattia e sim.; la voce è dal lat. tremere con cambio di coniugazione e raddoppiamento espressivo della labiale: tremere→tremare→tremmare.
Strunzo = s.vo m.le = escremento solido di forma cilindrica; voce derivata dal tedesco strunz.
‘nculo =(i)n+culo id est: nel culo; quest’ultima voce è dal lat. culu(m) probabilmente marcata sul greco kòlon= intestino.
brak

ZEPPOLA E DINTORNI.

ZEPPOLA E DINTORNI.
La voce zeppola, che in italiano, (con ogni probabilità con derivazione dal napoletano) indica esclusivamente quale sost. femm. (spec. pl.) una ciambella o frittella dolce tipica di alcune regioni dell'Italia meridionale, è presente nel lessico della parlata napoletana dove indica oltre che una tipica ciambella o frittella dolce (zeppola di san Giuseppe), anche una frittella rustica (‘a zeppulella) ed estensivamente un particolare difetto di pronuncia, una sorta di balbuzie che impedisce di esprimersi correttamente e chiaramente (tené ‘a zeppula ‘mmocca= avere la zeppola in bocca, come chi parlasse masticando un pezzo di quella frittella(zeppola) dolce o rustica che sia.
Chiarito però che con l’originaria voce zeppola deve intendersi la ciambella dolce, e che, a mio sommesso, ma deciso avviso, l’uso di zeppola per la frittella rustica è un semplice adattamento di comodo, e che per tale frittella rustica sarebbe piú esatto (come vedremo trattando della preparazione di tale frittella) parlare di pasta cresciuta o pastacrisciuta come mi sembra piú acconcio scrivere agglutinando sostantivo ed aggettivo, dirò che quanto all’etimologia di zeppola (ciambella dolce) una non confermata scuola di pensiero fa riferimento ad un tardo latino *zipula(m) peraltro(si noti l’asterisco) non attestato, laddove io reputo invece che zeppula (letteralmente zeppola) sia voce che abbia una derivazione dal latino serpula e debba indicare innanzi tutto e quasi esclusivamente un caratteristico dolce partenopeo, in uso per la festività di san Giuseppe(19 marzo) , di pasta bigné disposta, con un sac a poche, a mo’ di ciambella, poi fritta o (meno spesso) cotta al forno, spolverizzata di zucchero e variamente guarnita con crema pasticciera ed amarene candite; il dolce à origini antichissime quando intorno al 500 a.C. si celebravano a Roma le Liberalia, che erano le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e spezie e si friggevano nel grasso di maiale, profumate frittelle di frumento; le origini del dolce dicevo furon dunque antichissime , anche se pare che la ricetta attuale delle napoletane zeppole di san Giuseppe sia opera di quel tal Pasquale Pintauro(1815 ca) che fu anche, come vedemmo alibi,il continuatore della sfogliatella ( dolce nato nel convento di Santa Rosa a Furore (Amalfi)); Pasquale Pintauro rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento, diede vita alle attuali zeppole arricchendo l’impasto di uova, sugna ed aromi varî e procedendo poi ad una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto; la tipica forma a ciambella della zeppola rammenta – ò detto - la forma di un serpentello (serpula) quando si attorciglia su se stesso da ciò è quasi certo che sia derivato il nome di zeppola
(morfologicamente è normale il passaggio di s a z e l’assimilazione regressiva rp→pp).
E passiamo alla frittella rustica popolarmente, ma impropriamente détta pur’essa zeppola.
Ne do dapprima la ricetta:
dosi per 4 persone
400 g di farina, 300 g di acqua meglio se gasata, sale fino q. s. , 2 cubetti di lievito di birra.
abbondante olio per friggere
ingredienti facoltativi
4 fiori di zucca lavati, asciugati e tagliati a pezzetti;
oppure 8 filetti di acciughe sott’olio tagliati a pezzetti.

Sciogliere il lievito nell'acqua tiepida(mai bollente).In un’ampia ciotola mettere la farina e aggiungervi l'acqua e il sale lavorando l'impasto a lungo.( l'impasto è abbastanza liquido)
Se vi piace potete aggiungervi pezzettini di fiori di zucca oppure delle acciughe sott’olio tritate in pezzetti.
Lasciar lievitare per circa 1 ora, indi con un cucchiaio bagnato in acqua calda prendete l'impasto e friggetelo in olio bollente, oppure strappate a mano bagnata piccoli quantitativi di pasta e trasferiteli nell’olio bollente; a fine cottura, quando le pastecresciute avranno preso un bel colore dorato, prelevatele con una schiumarola, trasferitele su di piatto di portata coperta con carta assorbente e salate. A chiosa della ricetta rammenterò che mentre le zeppole dolci son preparazioni da pasticciere ed in pasticceria si vendono, le pastecrisciute son preparazioni da friggitoria dove vengon vendute per esser consumati rapidamente all’impiedi, assieme ai fiori di zucca, fette di melanzane e di zucchine impastellati/e e fritti/e, piccoli panzarotti fritti di patate lesse
Come si evince la frittella rustica non à la tipica forma di serpentello attorcigliato, ma potrebbe somigliare piuttosto ad un ciottolo informe; di talché non si comprende il motivo di attribuirgli il nome di zeppola e mi pare piú esatto e confacente, con riferimento agli ingredienti principali di questa frittella rustica : farina, acqua e lievito chiamarla pasta crisciuta (pasta cresciuta) anzi ancor piú acconciamente (come ò detto sopra) pastacrisciuta – pastecrisciute con agglutinazione funzionale tra il sostantivo pasta e l’agg.vo crisciuta part. pass. femm. dell’infinito crescere dal lat. crescere, affine a creare 'creare'; infine per ciò che riguarda la zeppola come balbuzie va da sé che ci troviamo difronte ad un accostamento divertente e furbesco con la frittella dolce che se mangiata avidamente (come merita!) occupa cosí tanto la bocca da risultare nociva al corretto parlare; ugualmente risulterebbe nocivo al corretto parlare il cibarsi voracemente di zeppole rustiche, magari ancóra bollenti di frittura, al segno che di chi balbutisce si può ben dire che tène ‘a zeppula ‘mmocca (à la zeppola in bocca). Raffaele Bracale

VARIE 263

1 Paré 'o marchese d''o Mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
2 Ncarisce, fierro, ca tengo n'aco 'a vennere!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grossi beni o sostanziose capacità operative da conferire in qualsivoglia contrattazione.
3 Chianu chiano 'e ccoglio e senza pressa, 'e vvengo.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
4 Fà comme ê funare.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari
5 Dà zizza pe gghionta.
Letteralmente: dar carne di mammella per aggiunta di derrata, un di piú generosamente concesso, ma trattandosi di vile mammella la concessione non è poi veramente positiva e tutta l'espressione è da intendere in senso ironico ed antifrastico equivalente ad accrescere un danno, conciar male qualcuno, cagionandogli ulteriori danni.
6 Ma addó t'abbíe senza 'mbrello?
Letteralmente: Ma dove ti dirigi senza ombrello (se già piove?)? La domanda traduce sarcasticamente l'avvertimento di non affrontare qualsivoglia situazione se non si è preparati e pronti, armati cioè oltre che della buona volontà, degli strumenti atti alla bisogna e a farti da scudo ove ne occorra il caso.
7 Meglio essere cap' 'alice ca coda 'e cefaro.
Letteralmente: meglio (esser) testa di alice che coda di cefalo. Id est: meglio comandare, esser primo sia pure in un ristretto consesso, che ultimo in un'imponente accolta.
8 Se pigliano cchiú mosche cu 'na goccia 'e mèle, ca cu 'na votta 'acito.
Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre.
9 A pavà e a murí, quanno cchiú tarde se po’.
A pagare e a morire quando piú tardi sia possibile. Trattandosi di due faccende dolorose, la filosofia popolare le à accomunate, consigliando di procrastinarle ambedue sine die.
10 Si 'o ciuccio nun vo’ vevere aje voglia d''o siscà.
Letteralmente: se l'asino non vuol bere, puoi fischiare quanto vuoi per indurlo a bere, non otterrai nulla. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare la testarda mancanza di volontà di qualcuno, stante la quale tutte le esortazioni sono vane...
11 Aria scura e fète 'e caso!
Letteralmente: Aria torbida che puzza di formaggio. Lo si dice a salace commento di errate affermazioni di qualcuno che abbia confuso situazioni diverse tra di loro e le abbia messe in relazione incorrendo in certo errore come accadde a Pulcinella che, confondendo la porta della dispensa con la finestra, si espresse con la frase in epigrafe...
12 Chi tène cchiú ssante va 'mparaviso.
Letteralmente: Chi à piú santi va in Paradiso; ma è chiaro che la locuzione non si riferisce al premio eterno, ma molto piú prosaicamente ai beni terreni,a prebende e posti di comando e ben remunerati; e i santi - manco a dirlo - non sono quelli che ànno praticato in maniera eroica le virtú cristiane, ma molto piú semplicemente coloro che son capaci di dare una spinta, di raccomandare o - come eufemisticamente si dice oggi, di segnalare qualcuno a chi gli possa giovare nel senso suaccennato.
13 I' te cunosco piro a ll' uorto mio.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni: perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero, tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe, volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe tributato onori di sorta.
14 Essere fetente dint' a ll' ossa.
Letteralmente: essere fetente fin dentro le ossa. Id est: appalesarsi perfido, spregevole, di animo cattivo, ma non solo esteriormente quanto fin dentro la quintessenza dell'essere.
15 'O Pataterno dà 'o ppane a chi nun tène 'e diente e 'e viscuotte a chi nun s''e ppo’ rusecà...
Letteralmente: Il Signore concede il pane a chi non tiene i denti e i biscotti a chi non può sgranocchiarli... Id est: Spesso nella vita accade di esser premiati oltre i propri meriti o di venire in possesso di fortune che si è incapaci di gestire.
16 'Acarcioffola s'ammonna a 'na fronna â vota.
Letteralmente: il carciofo va mondato brattea a brattea. Id est: le cose vanno fatte con calma e pazienza, se si vogliono ottenere risultati certi bisogna procedere lentamente e con giudizio.
17 Acqua santa e Terra santa, pure lota fanno.
Letteralmente: acqua santa e terra santa pure fango fanno. Id est: l'unione di due cose di per sè buone, non è detto che non possano produrre effetti spiacevoli. Lo si dice con riferimento alla società di due individui che, presi singolarmente, mai farebbero sospettare esser capaci di produrre danno e che invece, uniti, producono grave nocumento ai terzi.
18 Chi se mette paura, nun se cocca cu 'e ffemmene bbelle.
Letteralmente: chi à paura, non va a letto con le donne belle. È l'icastica trasposizione dell'algido toscano: chi non risica, non rosica. Nel napoletano è messo in relazione il comportamento coraggioso, con la possibilità di attingere la bellezza muliebre, che è un gran bello rosicchiare.
19 Essere 'o rre cummanna a scoppole.
Letteralmente. essere il re comanda a scappellotti. Cosí è detto chi voglia comandare o decretare maniere comportamentali altrui senza averne né l'autorità certificata, né il carisma derivante da doti morali o conclamate esperienze, un essere insomma che potrebbe comandare giusto ai ragazzini, magari assestando loro qualche scappellotto, per essre ubbidito.
20 Cca sotto nun ce chiove!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disoposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
21 'A cera se struje e 'a prucessiona nun cammina.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto.

22 Tutto po’ essere, fora ca ll'ommo priéno.
Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile.
23 Abbiarse a curalle.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo.
24 Aggiu visto 'a morte cu ll' uocchie.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
25 Vulé piscià e gghí 'ncarrozza.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.
26 Ve dico 'na buscía.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e allora si avverte l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
27 Fà 'o francese.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
28 'O pesce fète d''a capa.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
29 'O purpo s' à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo va fatto cuocere con la sola acqua di cui è pieno. La locuzione si usa quando si voglia commentare l'inutilità degli ammonimenti, dei consigli et similia, che non vengono accolti perché il loro destinatario, è di dura cervice e non intende collaborare a recepire moniti e o consigli che allora verranno da lui accolti quando il soggetto si sarà autoconvinto della opportunità di accoglierli.
30 Acqua 'a 'nnanze e vviento 'a reto...
Letteralmente: Acqua da davanti e vento da dietro. È il malevolo augurio con cui viene congedato una persona importuna e fastidiosa cui viene indirizzato l'augurio di essere attinto di faccia da un violento temporale e di spalle da un impetuoso vento che lo spingano il piú lontano possibile.
31 Abbuffà 'a guallera.
Letteralmente: gonfiare l'ernia. Id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno al punto di procurargli una metaforica enfiagione di un'ipotetica ernia. Si consideri però che in napoletano con il termine "guallera" si indica oltre che l'ernia anche il sacco scrotale, ed è ad esso che con ogni probabilità fa riferimento questa locuzione.
32 Quanno 'a femmena Vo’ filà, l'abbasta 'nu spruoccolo.
Letteralmente: quando una donna vuol filare le basta uno stecco - non à bisogno di aspo o di fuso.Id est: la donna che vuole raggiungere uno scopo, una donna che voglia qualcosa, è pronta ad usare tutti i mezzi pur di centrare l'obbiettivo, non si ferma cioè davanti a nulla...
33 Tené 'e gghiorde.
Letteralmente: essere affetto da giarda, malattia che colpisce giunture ed estremità di taluni animali; le parti colpite si gonfiano impedendo una corretta andatura. La locuzione è usata nei confronti di chi appare pigro, indolente e scansafatiche quasi avesse difficoltà motorie causate da enfiagione delle gambe che appaiono come contratte ed attanagliate da nodi. In turco, con il termine jord si indica il tipico doppio nodo dei tappeti - da jord a gghiorde il passo è breve.

34 Farse chiovere 'ncuollo.
Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze.
35 Fà 'o calavrese.
Fare il calabrese, ossia non mantenere la parola data, esser mendace e spergiuro...
36 Farse 'a passiata d''o rraú.
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale.
37 Stà sempe 'ntridice.
Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo, e poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che viene fuori l'espressione con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti...
38 Aspettà cu ll'ove 'mpietto.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
39'A sciorta 'e Cazzette:jette a piscià e se ne cadette.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
40 Attacca 'o ciuccio addò vò 'o patrone
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
41 'E maccarune se magnano teniente teniente
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
42 Si 'o dicesse 'a mòra, 'e ffemmene jarriano cu 'o culo 'a fora...
Letteralmente: se lo dettasse la moda, le donne andrebbero col sedere scoperto. Ma al di là del significato letterale che in tempi recenti à avuto pratica attuazione, la locuzione viene usata quando si voglia sottolineare lo scorretto comportamento di taluni, che agiscono non secondo logica o raziocinio, ma seguendo il vento del momento o la moda imposta dall'alto.
43 'Nu maccarone, vale ciento vermicielle.

Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce alla pietanza in sè. Il maccherone della locuzione adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità.
44 Acrus est!
Letteralmente: È acre! Cosí esclama un napoletano davanti ad una situazione ineludibile pur essendo difficile da sopportare. Un vecchio sacrestano, per far dispetto al suo parroco, aveva messo dell'aceto nell'ampollina del vino. Giunto al momento di comunicarsi il prete si adontò dicendo, appunto, acrus est - è acre - ed il sacrista replicò: te ll'he 'a vevere (lo devi bere) controreplica del prete: Dopp''a messa t'aspetto dinto a 'a sacrestia - dopo la messa ti attendo in sacrestia... - il sacrista: He 'a vedé si me truove... - È probabile che non mi troverai... -
45 Alesio, Alè, 'stu lucigno quanno se stuta?
Letteralmente: Alessio, Alessio, questo lucignolo quando si spenge? La locuzione viene usata nei confronti di chi fa discorsi lunghi, noiosi, oziosi e ripetitivi nella speranza, il piú delle volte vana, che costui punto dal richiamo, zittisca e la pianti. È da rammentare che in napoletano la parola cantilena si traduce, appunto, cantalesia.
46 Agge pacienza e fatte jí 'nculo so' 'a stessa cosa...
Porta pazienza e fregati son la medesima cosa!L'invito proposto dalla prima parte della locuzione a sopportare, ad aver pazienza, viene dalla saggezza popolare equiparato a quello ben piú doloroso di lasciarsi sodomizzare!
47 Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna...
Letteralmente: Non sputare verso il cielo, perché ti ritorna in viso. Id est: chi si pone contro la divinità, ne subisce le pronte conseguenze.
48 'E fodere cumbattono e 'e sciabbole stanno appese.
Letteralmente: I foderi combattono e le sciabole stanno appese. La locuzione viene usata per commentare l'inettitudine di taluni che demandano, per indolenza o incapacità, il loro compito ad altri, cercando di esimersi dal lavoro.
49 Stà 'ncappella.
Letteralmente: stare in cappella Id est: essere male in arnese, stare mal combinati, anzi stare alla fine della vita , al punto di aver necessità degli ultimi sacramenti. La locuzione fa riferimento ai condannati al patibolo della fine del 1600, che, a Napoli, prima dell'esecuzione venivano condotti in una cappella della Chiesa del Carmine Maggiore, adiacente la piazza Mercato, dove era innalzato il patibolo e nella cappella ricevevano l'estremo conforto religioso.
50 Ll' avimmo fatto 'e stramacchio.
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione di stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
51 Chisto è chillo ca tagliaie 'a recchia a Marco.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare un attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione; segnatamente p. es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
52 'o cummannà è mmeglio d''o fottere.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è piú soddisfazione nel comandare che nel coitare. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
53 Mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more.
Letteralmente: Mentre il medico studia, il malato se ne muore. La locuzione è usata per sottolineare e redarguire il lento improduttivo agire di chi predilige il vacuo pensiero alla piú proficua, se rapida, opera.
54 M' he dato 'o llardo 'int' a 'a fijura
Letteralmente: Mi ài dato il lardo nel santino. L'espressione si usa nei confronti di chi usi eccessiva parsimonia nel conferire qualcosa a qualcuno e prende l'avvio dall'uso che avevano i monaci di Sant'Antonio Abate a Napoli che gestivano in piazza Carlo III un ospedale per cure dermatologiche ed usavano il lardo dei maiali con il quale producevano unguenti curativi. Allorché poi dimettevano un infermo erano soliti consegnare al medesimo, per il prosieguo della cura, una piccolissima quantità di lardo benedetto, avvolto in un santino raffigurante Sant'Antonio abate. Pur se benedetto la quantità del lardo era veramente irrisoria e pertanto assai poco bastevole alla bisogna.
55 Fà cuofeno saglie e cuofeno scenne.
Letteralmente: far cesto sale e cesto scende - Il Cuofeno (dal latino cophinus) è un particolare cesto di vimini piú stretto alla base e provvisto di manici, per il trasporto delle merci piú varie. La locuzione significa: lasciare che le cose vadano secondo la loro naturale inclinazione, evitare di interessarsi di qualche cosa, non curarsi di nulla.
56 Se pava niente? E sedúgneme da capa a 'o pede!
Letteralmente: Si paga niente? Ed ungimi da capo al piede. Cosí si dice di chi voglia ottenere il massimo da qualsivoglia operazione che sia gratuita ed eccede a quel fine nelle sue richieste come quel cresimando che, saputo che l'unzione sacramentale era gratuita, apostrofò il vescovo con le parole in epigrafe chiedendo di essere unto completamente.
57 'A ch' è mmuorto 'o cumpariello, nun simmo cchiú cumpare.
Letteralmente: Da quando è morto il figlioccio, non siamo piú compari. Id est: da quando non c'è piú chi ci aveva uniti, è finito anche il legame. La locuzione viene usata con senso di disappunto davanti ad incomprensibili e repentini mutamenti di atteggiamento o davanti ad inattesi raffredamenti di rapporti un tempo saldi e cordiali, quasi che la scomparsa del figlioccio potesse far cessare del tutto le pregresse buone relazioni intercorrenti tra il padrino e i parenti del defunto figlioccio.
58 Ll' ammore da luntano è comme a ll' acqua 'int' a 'o panaro.
L'amore di lontano è come acqua nel cestino di vimini Id est: è un lavorio inutile che si tramuta in tormento.
59 Santa Chiara: dopp'arrubbato, 'e pporte 'e fierro!
Letteralmente - Santa Chiara: dopo subíto il furto, apposero le porte di ferro. La locuzione è usata per redarguire chi è tardo nel porre rimedi o aspetti di subire un danno per correre ai ripari, mentre sarebbe stato opportuno il prevenire che è sempre meglio del curare.
60 'Mbarcarse senza viscuotte.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche. Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua naturalmente marina non ancora inquinata.
61 'O sparagno nun è maje guadagno...
Il risparmio non è mai un guadagno... Id est:non bisogna mai fidarsi dell’apparente facile guadagno, perché nasconde sempre la fregatura
62 S'à dda fà 'o pireto pe quanto è gruosso 'o culo.
Letteralmente: occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati.
63 Chi se mette cu 'e criature, cacato se trova.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto piú giovani di lui è destinato a fine ingloriosa, come chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, che derivano dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini.
64 'A gallina fa ll'uovo e a 'o gallo ll'abbruscia 'o mazzo.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora e un altro si lamenta della fatica che non à fatto. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o che si voglia convincere qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non à compiute, e di cui invece fa le viste di portare il peso.
65 Mo abbrusciale purÈa barba e po' dice ca so' stat' io!
Letteralmente: Adesso ardigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa. Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdí santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e cosí via. Nell'agitazione dell'eloquio finí per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
66 Quanno 'a gallina scacatea, è signo ca à fatto ll'uovo.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.
67 Quanno si 'ncunia statte e quanno si martiello vatte
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
68 Miettele nomme penna!
Letteralmente: Chiamala penna! La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi piuma d'uccello. La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, come sparisce un oggetto prestato a qualcuno che per solito non restituisce ciò che à ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che se il prestito fosse una cosa buona, si impresterebbe la moglie...
69 Quann'è pe vizzio, nun è peccato!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto, si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
70 Passasse ll'ngelo e dicesse: Ammenne!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
71 Va truvanno: 'mbruoglio, aiutame.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
72 Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.
73 Paré 'o pastore d''a meraviglia.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.

74 Fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica
75 À fatto 'o pireto 'o cardillo.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienznon può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
76 Pigliarse 'o Ppusilleco.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.
77 Nun lassà 'a via vecchia p''a via nova, ca saje chello ca lasse e nun saje chello ca truove!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se cosí si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
78 Petrusino, ogne menesta.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Cosí è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee.
79 Acqua ca nun cammina, fa pantano e fète.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
80 'Nfila 'nu spruoccolo dinto a 'nu purtuso!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
81 Astipate 'o milo pe quanno te vène sete.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
82 Puozz'avé mez'ora 'e petriata dinto a 'nu vicolo astritto e ca nun sponta, farmacie 'nchiuse e miedece guallaruse!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.

83 Aje voglia 'e mettere rumma, 'nu strunzo nun addiventa maje babbà.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...

79 Si 'a morte tenesse crianza, abbiasse a chi sta 'nnanze.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
80 Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
81 'O purpo se coce cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
82 'A gatta, pe gghí 'e pressa, facette 'e figlie cecate.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
83 Fà 'e ccose a capa 'e 'mbrello.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
84 Chi nun sente a mmamma e ppate, va a murí addò nun è nato...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
85 È gghiuta 'a mosca dint' a 'o Viscuvato...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
86 Cu 'nu sí te 'mpicce e cu 'nu no te spicce.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
87 Tené'a salute d' 'a carrafa d’’a zecca.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
88 Tengo 'e lappese a quadrigliè, ca m'abballano pe capa.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadrellata, seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, piccole piramidi di tufo o altra pietra, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo et similia.
89 Paré 'a sporta d''o tarallaro.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
90 Lasseme stà ca stongo'nquartato!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
91 Se fruscia Pintauro, d''e sfugliatelle jute 'acito.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
92 Carcere, malatia e necissità, se scanaglia 'o core 'e ll'amice.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
93 Murí cu 'e guarnemiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
94 Nisciuno te dice: Lavate 'a faccia ca pare cchiú bbello 'e me.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
95 Quann' uno s'à dda 'mbriancà, è mmeglio ca 'o ffa cu 'o vino bbuono.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.
96 Sciorta e cauce 'nculo, viato a cchi 'e ttène!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni
97 Ancappa pe primmo, fossero pure mazzate!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche rischiando le percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
98 A pavà e a murí, quanno cchiú ttarde se po’.
A pagare e morire, quando piú tardio sia possibile! È la filosofia e strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
99'Na vota è prena, 'na vota allatte, nun 'a pozzo maje vattÈ
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
100 Lèvate 'a miezo, famme fà 'o spezziale.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo speziale era il farmacista, l'erborista, non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi in farmacopea non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
101 Articolo quinto:chi tène 'mmano à vinto!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titoloInfatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
102 Cu muonece, prievete e ccane, he 'a stà sempe cu 'a mazza 'mmano.
Con monaci, preti e cani devi tener sempre un bastone fra le mani. Id est: ti devi sempre difendere.
103 Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi in senso antifrastico, si usa a commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
104 'A sciorta d' 'o piecoro: nascette curnuto e murette scannato...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
105 È fernuta 'a zezzenella!
Letteralmente: è terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami!
106 È mmuorto 'alifante!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussieguo, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussieguo , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...
107Chi se fa puntone, 'o cane 'o piscia 'ncuollo...
Letteralmente: chi si fa cantonata di strada, spigolo di muro, il cane gli minge addosso. Èl'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere
108 Tròvate chiuso e piérdete chist' accunto...
Letteralmente: Tròvati chiuso e perditi questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si sta per compiere, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
109 È mmeglio a essere parente a 'o fazzuletto ca a 'a coppola.
Conviene esser parente della donna piuttosto che dell' uomo. In effetti, formandosi una nuova famiglia, è tenuta maggiormente in considerazione la famiglia d'origine della sposa che quella dello sposo.
110 Ogne strunzo tene 'o fummo suio.
Letteralmente: Ogni stronzo sprigiona un fumo. Id est:ogni sciocco à modo di farsi notare
111 Cunsiglio 'e vorpe, rammaggio 'e galline.
Lett.:consiglio di volpi, danno di galline. Id est: Quando confabulano furbi o maleintenzionati, ne deriva certamente un danno per i piú sciocchi o piú buoni. Per traslato: se parlottano tra di loro i superiori, gli inferiori ne subiranno le conseguenze.
112 Chiacchiere e tabbacchere 'e lignammo, 'o bbanco nun ne 'mpegna.
Letteralmente: chiacchiere e tabacchiere di legno non sono prese in pegno dal banco. Il banco in questione era il Monte dei Pegni sorto a Napoli nel 1539 per combattere la piaga dell'usura. Da esso prese vita il Banco di Napoli, fiore all'occhiello di tutta l'economia meridionale, Banco che è durato sino all'anno 2000 quando, a completamento dell'opera iniziata nel 1860 da Cavour e Garibaldi e da casa Savoia, non è stato fagocitato dal piemontese Istituto bancario San Paolo di Torino. La locuzione proclama la necessaria concretezza dei beni offerti in pegno, beni che non possono essere evanescenti come le parole o oggetti non preziosi. Per traslato l'espressione si usa nei confronti di chi vorrebbe offrirci in luogo di serie e conclamate azioni, improbabili e vacue promesse.
113 Femmene e gravune: stutate tégnono e appicciate còceno.
Letteralmente: donne e carboni: spenti tingono e accesi bruciano. Id est: quale che sia il loro stato, donne e carboni sono ugulmente deleterii.
114 Vení armato 'e pietra pommece, cuglie cugli e fierre 'e cazette.
Letteralmente: giungere munito di pietra pomice, aghi sottili e ferri(piú doppi)da calze ossia di tutto il necessario ed occorrente per portare a termine qualsivoglia operazione cui si sia stati chiamati. Id est: esser pronti alla bisogna, essere in condizione di attendere al richiesto in quanto armati degli strumenti adatti.
115 Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andare stoccafisso e ritornare baccalà. La locuzione viene usata quando si voglia commentare negativamente un'azione compiuta senza che abbia prodotto risultati apprezzabiliIn effetti sia che lo si secchi-stoccafisso-, sia che lo si sali-baccalà- il merluzzo rimane la povera cosa che è.
116 Essere ll'urdemu lampione 'e Forerotta.
Letteralmente:essere l'ultimo fanale di Fuorigrotta. Id est: Non contare nulla, non servire a niente. La locuzione prese piede verso la fine dell' '800 quando l'illuminazione stradale napoletana era fornita da fanali a gas in numero di 666; l'ultimo lampione (fanale) contraddistinto appunto col numero 666 era situato nel quartiere di Fuorigrotta, zona limitrofa di Napoli, per cui il fanale veniva acceso per ultimo, quando già splendevano le prime luci dell' alba e la di lui utilità veniva ad essere molto limitata.
117 Jí truvanno a Cristo dinto a la pina.
Letteralmente: cercare Cristo nella pigna. Id est:impegnarsi in una azione difficoltosa,lunga e faticosa destinata a non aver sempre successo. Anticamente il piccolo ciuffetto a cinque punte che si trova sui pinoli freschi era detto manina di Cristo, andarne alla ricerca comportava un lungo lavorio consistente in primis nell'arrostimento della pigna per poi cavarne gli involucri contenenti i pinoli, procedere alla loro frantumazione e giungere infine all'estrazione dei pinoli contenuti;spesso però i singoli contenitori risultavano vuoti e di conseguenza la fatica sprecata.
118 Quanno te miette 'ncopp' a ddoje selle, primma o poie vaje cu 'o culo 'nterra.
Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio
119 'E fatte d' 'a tiana 'e ssape 'a cucchiara.
Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza.
120 Senza 'e fesse nun caparriano 'e deritte
Senza gli sciocchi, non vivrebbero i dritti. Id est: i furbi prosperano perché c'è chi glielo permette, non per loro forza intrinseca.
121 Nun fà pírete a chi tene culo...
Non fare scorregge contro chi à sedere. Id est: Non metterti contro chi à mezzi adeguati e sufficienti per risponderti per le rime...
122 Quanno 'o piro è ammaturo, cade senza turceturo.
Quando la pera è matura, cade senza il bastone. IL turceturo è un bastone uncinato atto a pigare il ramo al fine di scuoterlo per far cadere il frutto.Id Est: Quando un'azione è compiuta fino alle sue ultime conseguenze queste non si lasciano attendere.
123 Jirsene a cascetta(te ne vaie a cascetta!.
Letteralmente: Andarsene a cassetta.(te ne vai a cassetta!). La cassetta in questione è quella del vespillone: il posto piú alto, ma anche il piú scomodoe il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la dispendiosità o la fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano.
124 A' casa d' 'o ferraro, 'o spito 'e lignamme...
Letteralmente: In casa del ferraio, lo spiedo è di legno. La locuzione è usata a commento sapido allorché ci si imbatta in persone dalle quali, per la loro supposta, vantata professionalità ci si attenderebbero nelle loro azioni, risultati adeguati ben diversi da quelli che invece sono sotto gli occhi di tutti.
125 Quanno 'a cunnimma è ppoca, se ne va p' 'a tiella.
Quando il condimento è poco, si disperde nel tegame, invece di attaccarsi alle pietanze; id est: chi non à mezzi sufficienti, facilmente li disperde e non riesce ad usarli per portare a compimento un'opera cominciata.
126 A lu frijere siente 'addore, allu cagno,siente 'o chianto.
Letteralmente: al momento di friggere sentirai l'odore, al momento del cambio, piangerai. Un disonesto pescivendolo aveva ceduto ad un povero prete un pesce tutt' altro che fresco e richiesto dall'avventore intorno alla bontà della merce si vantava di avergli dato una fregatura asserendo che l'odore del pesce fresco si sarebbe manifestato al momento di cucinarlo, ma il furbo sacerdote , che aveva capito tutto e lo aveva ripagato con danaro falso, gli replicò per rime dicendogli che al momento che avesse tentato di scambiare la moneta ricevuta, avrebbe avuto la cattiva ventura di doversene dolere in quanto si sarebbe accorto della falsità del danaro.La locuzione è usata nei confronti di chi pensa di aver furbescamente dato una fregatura a qualcuno e non intende di esser stato ripagato con medesima moneta...
127 Voca fora ca 'o mare è maretta...
Rema verso il largo ché il mare è agitato...Consiglio pressante, quasi ingiunzione ad allontanarsi, rivolto a chi chieda insistentemente qualcosa che non gli spetti.In effetti i marinai sanno che quando il mare è molto agitato è conveniente remare verso il largo piuttosto che bordeggiare a ridosso della riva contro cui ci si potrebbe infrangere
128 Mettere ll'uoglio 'a copp' a 'o peretto.
Letteralmente: aggiungere olio al contenitore del vino. Id est:colmare la misura. La locuzione viene usata sia per indicare che è impossibile procedere oltre in una situazione, perché la misura è colma, sia per dolersi di chi, richiesto d'aiuto, à invece completato un'azione distruttrice o contraria al richiedente. Un tempo sulle damigiane colme di vino veniva versato un piccolo strato d'olio a mo' di suggello e poi si procedeva alla tappatura, avvolgendo una tela di sacco intorno alla imboccatura del contenitore vitreo.
129 Quanno jesce 'a strazziona, ogne ffesso è prufessore...
Quando è avvenuta l'estrazione dei numeri del lotto, ogni sciocco diventa professore. la locuzione viene usata per sottolineare lo stupido comportamento di chi,incapace di fare qualsiasi previsione o di dare documentati consigli, s'ergono a profeti e professori, solo quando, verificatosi l'evento de quo, si vestono della pelle dell' orso...volendo lasciar intendere che avevano previsto l'esatto accadimento o le certe conseguenze...di un comportamento.
130 'A moneca 'e Chianura:muscio nun 'o vuleva ma tuosto le faceva paura...
La suora di Pianura:tenero non lo voleva, ma duro le incuoteva paura (si sottointende :il pane. La locuzione viene usata nei confronti degli incontentabili o degli eterni indecisi...
131 Fà 'e scarpe a uno e coserle 'nu vestito.
Letteralmente:confezionare scarpe ad uno e cucirgli un vestito.Id est: far grave danno a qualcuno o augurargli di decedere.Un tempo alla morte di qualcuno gli si metteva indosso un abito nuovo e gli si facevano calzare scarpe approntate a bella posta.
132 Tiene 'a casa a ddoje porte.
Letteralmente: Ài la casa con due porte d'ingresso.Locuzione ingiuriosa in cui si adombra l'infedeltà della moglie di colui cui la frase viene rivolta.In effetti la casa con due usci d'ingresso consentirebbe l'entrata e l'uscita del marito e dell'amante senza che i due venissero a contatto.
133 Fà acqua 'a pippa.
Letteralmente:La pipa versa acqua. Id est: la miseria è grande. la locuzione è usata a commento del grave stadio di indigenza di qualcuno.. La pipa in questione non è l'attrezzo per fumare, bensí la botticella spagnola oblunga chiamata pipa nella quale si usa conservare vino o liquore,qualora invece versasse acqua ivi contenuta indicherebbe che il prprietario è in uno stato di cosí grave miseria da non poter conservare vino, ma solo acqua.
134Abbaccà cu chi vence.
Colludere col vincitore - Schierarsi dalla parte del vincitore. Comportamento nel quale gli Italiani sono maestri: si racconta, ad esempio, che al tempo dell'ultima guerra, all'arrivo degli americani non fu possibile trovare un fascista. Tutti quelli che per un ventennio avevano indossato la camicia nera, salirono sul carro dei vincitori e i militari anglo-americani si chiedevano, riferendosi a Mussolini: Ma come à fatto quest’ uomo a resistere tanto tempo, se non aveva nessuno con lui?
135 Grannezza 'e Ddio: era monaco e pure pisciava.
Letteralmente: grandezza di Dio: era monaco eppure mingeva. La locuzione è usata per bollare chi fa le viste di meravigliarsi delle cose piú ovvie e naturali come qualcuno che si stupisse nel vedere un frate portare a compimento una sua funzione fisiologica.
136 'A soccia mano sta appesa dint' a 'e guantare.
Letteralmente: la medesima mano sta appesa nei guantai. La locuzione viene usata per connotare chiunque sia avaro o eccessivamente parsimonioso al punto da non elargire mai un'elemosina o ,peggio ancora, al punto da non concorrere mai fattivamente, con elargizione di danaro, ad un'opera comunitaria. La mano della locuzione ricorda quella enorme, ma immobile che, a fini di pubblicità, era esposta a Napoli nel quartiere dei Guantai dove aprivano bottega numerosi fabbricanti di guanti.
137 'Stu ventariello ca a tte t'arrecrea, a mme me va 'nculo!
Letteralmente: quel venticello che ti soddisfa, frega me. Non sempre da un'identica situazione scaturisce un medesimo effetto per chiunque. Nella fattispecie, un soffio di vento che magari è piacevole per uno, può essere deleterio per un altro, che per esempio è cagionevole di salute.
138 Ll'aurienza ca dette 'o papa a 'e curnute.
Letteralmente: l'udienza che il papa dette ai mariti traditi. Cosí viene definita un'istanza che venga disattesa completamente da parte del suo destinatario; ciò che venne allorché una accolita di mariti traditi si rivolse al pontefice affinchè autorizzasse lo scioglimento del loro matrimonio, ma il papa, opponendo la indissolubilità del vincolo matrimoniale quale sacramento della Chiesa, disattese completamente l'istanza. La locuzione è usata per sottolineare una situazione nella quale ci sia qualcuno che faccia orecchi da mercante...
139 'o perucchio è caduto dint' a' farina.
Letteralmente: il pidocchio è caduto nella farina. La locuzione viene usata per indicare coloro che a seguito di una calamità, o una guerra, si sono arricchiti e àn preso dimora nei luoghi piú chic della città e si danno l'aria di gran signori quasi fossero discendenti di antica, provata nobiltà, come un pidocchio che, caduto nella farina, si imbianca solo esteriormente pur restando, in sostanza, un vile insetto.
140 Paré 'o marchese d''o Mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
141 Ogni ccapa è 'nu tribbunale.
Letteralmente: ogni testa è un tribunale. Id est: ognuno decide secondo il proprio metro di giudizio, ognuno è pronto ad emanar sentenze.
142 Ncarisce, fierro, ca tengo n'aco 'a vennere!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grosse capacità da conferire in qualsivoglia contrattazione.
143 Chianu chiano 'e ccoglio e senza pressa, 'e vvengo.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
144 Fà comme a 'e funare.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari.
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VARIE 262

1.'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le piú o meno sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).
Chiancarelle s.vo f.le diminutivo pl. di chiancarella =pancocello, asse di legno (dal lat. planca + il suff. diminutivo ella ed epentesi di una erre eufonica; normale il passaggio in napoletano del gruppo lat. pl a chi come ad es. plus→cchiú – plangere→chiagnere – plumbeum→chiummo).
2. A 'stu nunno sulo 'o càntero/càntaro è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuscita dell'esistenza; la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola càntero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che le parolecàntero/càntaro non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il càntero/càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
càntaro o càntero s.vo m.le =alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntàru(m) a sua volta dal greco kàntàros; rammenterò ora di non confondere le voci a margine con un’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!

3.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
4.Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
5.Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
6.Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; renditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
7. A -Appennere 'a giacchetta.
B - Appennere 'o cazone.
A- Appendere la giacca B- Appendere il pantalone. Si tratta in fondo di due indumenti - per solito indossati dall'uomo, ma quanto diverso tra loro il significato sottinteso dalle due locuzioni. Quello sub A - fa riferimento alla giacca e sta a significare che si è smesso di lavorare e ci si è pensionati, rammentando che - normalmente - specie per lavori manuali l'uomo è solito liberarsi della giacca e lavorare in maniche di camicia; per cui disfarsi del tutto della giacca significa che non si è intenzionati a rimettersi al lavoro. Diverso e di significato piú grave la locuzione sub B;essa adombra il significato di decedere, lasciando una vedova, tenendo presente che della giacca ci si libera per lavore, mentre del calzone lo si fa per coricarsi anche definitivamente.
8. bbona 'e Ddio!
Letteralmente: Con il benvolere di Dio. Id est: ci assista Dio. È l'augurio che ci si autorivolge nel principiar qualsiasi cosa affinché la si possa portare a compimento senza noie o pericoli. Traduce ad litteram l'augurio “A la buena de Dios” che i naviganti spagnoli solevano rivolgersi scambievolmente al levar delle àncore.
9. Scuntà a ffierre 'e puteca.
Letteralmente: scontar con utensili di bottega. Id est: saldare un debito conferendo non il dovuto danaro, ma una prestazione di lavoro confacente al proprio mestiere, con l'uso dei ferri da lavoro usati nella propria bottega.
10.Paré 'o carro 'e Battaglino.
Letteralmente: sembrare il carro di Battaglino. Id est: essere simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino; sul carro che dal nobile prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musicio e cantori.In ricordo di detto carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino.
11. Fattélla cu chi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Frequenta chi è miglior di te e sopportane le spese. Il proverbio compendia la massima comportamentale secondo la quale le amicizie vanno scelte nell'ambito di persone che siano migliori di se stessi, soprattutto dal punto di vista morale... e bisogna coltivare questo tipo di amicizia anche se esso tipo comporta il doverci rimettere economicamente parlando.
12.I' faccio pertose e tu gaveglie.
Letteralmente: io faccio buchi e tu cavicchi; id est: io faccio buchi e tu sistematicamente li turi, ossia mi remi contro. La locuzione è usata anche profferendone la sola prima parte, lasciando sottointenderne la seconda quando si voglia redarguire qualcuno che si adoperi a distruggere o vanificare l'operato di un altro e lo faccia non per ottenerne vantaggio, ma per il solo gusto di porre il bastone tra le ruote altrui.
pertose = buchi; s.vo f.le pl. metafonetico del maschile pertuso (dal t. lat. *petrusu(m)); di pertuso esiste anche il normale pl. masch. pertusi/e ma viene usato per indicare i fori presenti sui capi di abbigliamento ( vestiti e/o scarpe) o segnatamente le narici: ‘e pertuse d’’o naso; invece con il pl. f.le pertose si indica qualsivoglia altro tipo di buco;
gaveglie= cavicchi, stecchi (di legno) s.vo f.le pl. di gaveglia (dal t. lat. *cavicla per il class. clavicula).
13. 'A musica giappunese.
La musica giapponese. Cosí i napoletani - abituati a ben altre armoniche melodie - sogliono definire quelle accozzaglie di suoni e rumori in cui vengon coivolti strumenti musicali, ma che con la musica ànno ben poco da spartire. Quando ancora esisteva la magnifica festa di Piedigrotta, spesso a Napoli per la strada si potevano incontrare gruppetti di ragazzi che producevano una dissonante musica ( che fu détta: musica giapponese) servendosi di particolari strumenti musicali quali: scetavajasse, triccabballacche, zerrizzerre e putipú.
14.Te faccio sentí Muntevergine cu tutt''e castagne spezzate.
Letteralmente: Ti faccio sentire Montevergine con accompagnamento delle castagne frante. Espressione minacciosa con la quale si promette una violenta reazione ad azioni ritenute lesive; è costruita sul ricordo della gita fuori porta fatta il lunedí dell' angelo allorché interi quartieri solevano recarsi al santuario di Montevergine su carrozze trainate da cavalli bardati a festa. Il ritorno verso la città avveniva in una sarabanda di suoni e di canti corali portati allo strepito anche per i fumi dei vini consumati in gran copia; il vino era consumato per accompagnare il consumo di castagne secche ed infornate che erano vendute confezionate come grani di collane di spago che ogni cavallo si portava al collo come abbellimento.
15.Fà scennere 'na cosa da 'e ccoglie 'Abramo.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stante la augusta provenienza.
16.Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
BRAK

VARIE 261

1 - S' È FATTA NOTTE Ô PAGLIARO.
Letteralmente: È calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che invece pretestuosamente procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; a tal proposito rammento che, in simili occasioni, si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...);
pagliaro = fienile, pagliaio, grande cumulo di paglia o fieno sorretto da un palo centrale, per lo piú di forma conica ' l’etimo della voce è dal lat. paleariu(m), deriv. di palea 'paglia'.
2 - QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era questa, in origine la frase che, a mo' di imbonimento, pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statuina di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione, oggi, ci si prende gioco di chi si pavoneggi, millantando una bellezza fisica e/o morale non corrispondenti in assoluto alla realtà.
quanto = quanto avverbio qui con valore esclamativo=come con derivazione dal lat. quantu(m), avv. da quantus;
bbello = bello aggettivo qual. masch. si dice di ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico con etimo dal lat. volgare bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono';
patrone= padrone, proprietario, chi à la proprietà di qualcosa l’etimo è dal lat. patronu(m) 'patrono';
venne = vende voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vénnere = vendere, cedere in vendita contro corrispettivo in danaro, l’etimo è dal lat. vendere, da vínum dare 'dare in vendita' con consueta assimilazione progressiva nd→nn.
3 - SI 'O VALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA.
Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione commenta sarcasticamente le parole o di chi si ostini a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti,(quali l’espletamento di necessità fisiologiche del gallo e la morte di un non meglio identificato individuo nominato Cocò, che sono accadimenti logicamente non relazionabili tra di loro) oppure di chi insomma continui a fare dei ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
vallo/gallo= gallo sostant. masch. uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; l’etimo è dal lat. gallu(m) con tipica alternanza partenopea g/v come alibi per volpe/golpe, vunnella/gonnella, vulio/gulio etc.
cacava= cacava, defecava voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito cacà = cacare, defecare, andar di corpo; l’etimo è dal lat. cacare;
mureva = moriva, decedeva voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito murí= morire, decedere cessare di vivere, detto di persone, animali, piante; ; l’etimo è dal lat. volgare morire per il class. mori.
4 - À PERZO 'E VUOJE E VA ASCIANNO'E CCORNA.
Letteralmente: À perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice sarcasticamente e con del risentimento di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, cercando di colpevolizzare altri completamente estranei, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
à perzo= à perso, à perduto voce verbale (3° pers. sing.passato prossimo ind.) dell’infinito perdere= perdere, smarrire non avere piú, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà l’etimo è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'; perzo è esattamente il part. pass. di perdere con normale variazione partenopea di rs→rz;
vuoje= buoi, sost. masch. plurale metafonetico di vojo, il maschio adulto castrato dei bovini domestici; vojo etimologicamente è dall’acc. lat. bove(m) con alternanza napoletana b/v (cfr. barca,varca etc.) della consonante d’avvio, sincope della v intervocalica sostituita dal suono di transizione intervocalico j;
va ascianno=va cercando, va in cerca locuzione verbale
formata dall’ ind. pres. (3° pers. sing.) va dell’infinito jí= andare dal latino ire piú il gerundio ascianno= cercando dell’infinito ascià/asciare= cercare con insistenza, ricercare, indagare, investigare; desiderare, agognare; tendere, , aspirare a con etimo forse da un lat. volgare *anxiare→assiare*asciare= ansimare, ma piú probabilmente dal tardo lat. adflare→afflare→asciare= annusare;
ccorna = corna, sost. femm. plur. del maschile sg. cuorno
prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏ→uo nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi rispettivamente dalla propria compagna, o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso usati come portafortuna;ugualmente con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati e talvolta tinti di rosso tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a precisi requisiti, dovendo necessariamente essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur.
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tostu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea della o→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tortu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della o→uo;
vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; a margine rammenterò che esiste un altro tipico cuorno quello de ‘o carnacuttaro (il girovago venditore di trippe bovine che lavate, sbiancate e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero; tale cuorno viene portato pendulo sul davanti del corpo, legato in vita con un lungo spago, in modo che nel suo pendere insista su di una bene identificata zona anatomica; ciò è rammentato nell’espressione: Mo t’’o ppiglio ‘a faccia ô cuorno d’’a carnacotta! (Adesso te lo procuro, prendendolo dal corno della trippa) nella quale ‘o cuorno è usato eufemisticamente in luogo d’altro termine becero, facilmente intuibile se si tiene presente la zona su cui insiste il pendulo corno del sale… l’espressione è usata con una sorta di risentimento da chi venga richiesto di azioni o cose che sia impossibilitato a portare a compimento o a procurare, non essendo le une o le altre nelle sue capacità e/o possibilità
5 - PURE LL'ONORE SO' CASTIGHE 'E DDIO.
Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
pure= pure, anche avv. con valore aggiuntivo derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' ed anche; nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
onore/i =onori sost. neutro plur. di onore = buona reputazione acquistata con l'onestà, la coerenza ai propri principi; dignità, prestigio; coscienza del valore sociale e morale di tale reputazione e quindi delle virtú che l'ànno procurata derivato dal lat.honore(m) con aferesi dell’aspirata d’avvio intesa inutile e pleonatica;
castighe = castighi sost. masch. plurale di castigo = castigo, punizione, sventura etc. deverbale di castigà che è dal lat. castigare, deriv. di castus 'puro'; in origine 'rendere puro';
Ddio = Dio, nelle religioni monoteiste, l'Essere supremo concepito come la causa creante di tutta la realtà o come il semplice ordinatore del caos primordiale, a cui si attribuisce il governo del mondo; in genere, costituisce anche il principio del bene e il fondamento della morale umana; l’etimo è dal lat. dìu(m), da una radice indoeuropea che significa 'luminoso'.
6 - MADONNA MIA FA' STÀ BBUONO A NIRONE
Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone. È l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico, oppure – con altra poco differente valenza - che esso popolo preferisce essere amministrato e/o guidato anche da un cattivo soggetto, temendo e paventando che un eventuale sostituto sia peggiore del sostituito!
Madonna/Maronna = Madonna, appellativo di cortesia con cui ci si rivolgeva alle donne di elevata condizione e che si premetteva al nome proprio, oggi usato in taluni paesi del Piemonte come segno di rispetto delle nuore verso le suocere, ma ovunque esclusivamente nei confronti della Madre di Dio; etimologicamente è voce forgiata sul francese madame=mia signora attraverso una composizione di ma (forma proclitica di mia) e donna/ronna=donna; la forma Maronna è d’uso piú popolano di Madonna e comporta la tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r;
Nirone= Nerone 37-68 d.C.), imperatore romano (54-68), ultimo della gente Giulio-Claudia. Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, cambiò il suo nome (Lucio Domizio Enobarbo) in Nerone Claudio Cesare dopo essere stato adottato dall'imperatore Claudio, che sua madre aveva sposato in seconde nozze. Nel 53 sposò la figlia di Claudio, Ottavia. Alla morte di Claudio, nel 54, i pretoriani, guidati dal prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro (fedele ad Agrippina) lo proclamarono imperatore. Sotto la guida di Burro e del filosofo Seneca, suo tutore, Nerone si mostrò inizialmente deferente nei confronti del senato, la cui autorità era notevolmente diminuita durante i regni degli ultimi imperatori.
Entrato in contrasto con la madre, che si opponeva alla sua relazione con Poppea Sabina e intendeva esercitare sempre maggiore influenza, Nerone fece uccidere Britannico, figlio di Claudio e di Messalina, considerato un possibile pretendente al trono e allontanò la madre da Roma, facendola uccidere nel 59. Con la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla vita pubblica, Nerone modificò radicalmente la propria politica: divenuto ostile al senato, iniziò a favorire i ceti popolari e militari e a esercitare un potere sempre piú dispotico. Quando, nel luglio del 64, Roma fu distrutta da un incendio, l'imperatore ne fu ritenuto responsabile e cercò invano di incolpare dell'incendio i cristiani. In seguito, fece costruire per sé la nuova residenza imperiale (la domus aurea).
Il contrasto con il senato si acuì in seguito alla riforma monetaria introdotta da Nerone (59-60), secondo cui veniva privilegiato il denarius (la moneta d'argento di cui si serviva soprattutto la plebe urbana) all'aureus (moneta dei ceti piú agiati). Nel 65 Caio Calpurnio Pisone ordì una congiura ai danni di Nerone, che tuttavia la represse e fece uccidere tra gli altri Seneca e il poeta Lucano, accusati di aver preso parte alla cospirazione. Nel 66-67 Nerone si recò in Grecia, alla quale rese la libertà, rendendo piú difficili i rapporti con le altre province dell'impero. Nel 68 le legioni stanziate in Gallia e in Spagna, guidate rispettivamente da Vindice e da Galba, si ribellarono all'imperatore, costringendolo a fuggire da Roma. Dichiarato nemico pubblico dal senato, Nerone si suicidò.Nerone fu molto noto anche a Napoli nel cui teatro ubicato nei pressi dell’acropoli cittadina (sita tra le attuali strade di Spaccanapoli, san Gregorio Armeno e piazza san Gaetano) si esibì numerose volte cantando sue composizioni ed accompagnando il canto con la cetra. Personaggio discusso e non ancòra compreso a fondo dagli addetti ai lavori che tuttora ne studiano la complessa personalità non riuscendo a dare un giudizio univoco finale, fu ed ancòra è nell’immaginario comune emblema del male e della crudele perfidia.


7- PE TTRECCALLE 'E SALE, SE PERDE 'A MENESTA.
Letteralmente: per tre cavalli (pochi soldi) di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. Il treccalle era una piccolissima moneta divisionale ( la piú piccola era il callo contrazione di cavallo che era effigiato sul dritto della moneta) napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di tre calli per acquistare il necessario sale.
sale= sale, nel linguaggio corrente, il cloruro di sodio, presente in natura come salgemma o disciolto nelle acque del mare, e usato spec. per dar sapore ai cibi o conservarli letimo è dal lat. sale(m);
perde= perde voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)dell’infinito pèrdere= non avere piú, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà; non trovare piú, smarrire, mandare a male con etimo dal latino pèrdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare';
menèsta = minestra genericamente ogni primo piatto, caratteristico della cucina italiana, a base di pasta o riso cotti in brodo o in acqua con legumi e verdure; piú particolarmente in napoletano la voce menèsta indica una portata di verdure lessate in brodo di carne, spesso addizionate (e si à la c.d. menesta mmaretata) di carni lesse bovine e suine e talvolta di pollame; l’etimo di menèsta è l’acc. lat. minestra(m) deverbale del lat. ministrare nel sign. di 'servire a mensa', deriv. di minister 'servo, servitore'con successivi metaplasmi popolari di apertura delle i→e e sincope della liquida r come alibi maesta ← magistra etc.
8 - S'È AUNITO 'O STRUMMOLO A TIRITEPPE E 'A FUNICELLA CORTA.
Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e lo spago corto. Id est: ànno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio.
s’è aunito = si è unito voce verbale rifless. (3° pers. sing. del pass. pross.) dell’infinito aunir(se)= unirsi, congiungersi con etimo dal basso lat. ad +unire, deriv. di unus 'uno': ad unu(m) ire;
strummolo = conica trottolina lignea azionata attraverso lo srotolamento con movimento secco e rapido di una cordicella arrotolata strettamente seguendo le scanalature parallele tracciate lungo la parete della trottolina che à una punta metallica infissa al vertice del cono; è un giuoco un tempo largamente diffuso, con varî nomi tra tutti i ragazzi della penisola; ed a Napoli fu detto strummolo con derivazione dal greco strombos che diede il latino strumbus→strummus→strummolo;
tiriteppe e talvolta tiriteppole intraducibile in quanto voce onomatopeica usata per indicare che la trottolina di fabbricazione non bilanciata e che abbia la punta scentrata , una volta le sia stato impresso il moto rotatorio, non prilla a dovere, ma ballonzola malamente, producendo un tipico rumore scorretto, toccando terra non con la punta, ma con le pareti laterali, fino a che – perduta la forza rotatoria – non crolli in terra e si fermi troppo presto dimostrando che la trottolina è ‘nu strummolo scacato (trottola senza forza e/o capacità) destinato a soccombere in ogni contesa ludica fino a subire l’estremo affronto d’essere scugnato (sbreccato se non spaccato da un colpo inferto con la punta acuminata dello strummolo vincitore…)
scugnato= sbreccato,spaccato part. pass. masch. dell’infinito scugnà= sbreccare, spaccare, percuotere, ma altrove anche dissodare, trebbiare, battere il grano con etimo dal lat. volg. *excuneare derivato di cuneus;
funicella= cordicella sost. femm. diminutivo (vedi suff. cella) di fune= corda, insieme di piú fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; fune, cavo con etimo dal lat. fune(m);
corta= corta, di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale; agg. femm. (il maschile è curto) con etimo dal lat. curtu(m) /curta(m)'accorciato/a, troncato/a'; anche l’italiano antico ebbe curto in luogo di corto.
9 - LL'AUCIELLE S'APPARONO 'NCIELO E 'E CHIÀVECHE 'NTERRA.
Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. È la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunione sulla terra. Il termine
chiàveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale (il sg. è chiaveco) il termine originario femm. sing. : chiàveca che è la cloaca, la fogna, da un acc. tardo lat. clavica(m) normale il passaggio di cl>chi come ad es. in clavus=chiuovo, chiodo- clarum=chiaro etc.; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano, per i napoletani, gli uomini detti chiàveche quasi via di trasporto di escrementi; linguisticamente rammenterò che il plurale femm. di chiàveca si distingue da quello maschile perché, pur essendo anch’esso come il maschile chiàveche, se preceduto da vocale a,o,e oppure dall’art. ‘e (le) va scritto con la geminazione iniziale ‘e cchiàveche mentre il maschile ‘e(i) chiàveche non comporta la geminazione;
aucielle= uccelli sost. masch. plurale di auciello=uccello derivato di un tardo latino aucellus doppio diminutivo di avis attraverso avicula→avicellus→aucellus con la v letta u, e successiva sincope della prima i e dittongazione popolare e→ie) della vocale implicata intesa breve (seguita da due consonanti)
‘nterra = in terra, sulla terra; ‘nterra= in(illativo)+terra (dal lat. terra(m).
10 - 'E CIUCCE S'APPICCECANO E 'E VARRILE SE SCASSANO.
Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sopportano i soldati. Così va il mondo: la peggio l'ànno sempre i piú deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana ha tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo piangano gli Achei...).
ciucce = asini, ciuchi sost. masch. plurale di ciuccio= asino, ciuco e figuratamente persona ignorante, ragazzo che non riesce negli studi; qui maliziosamente riferito ai capi, ai comandanti; per la voce ciuccio etimologicamente qualcuno sbrigativamente parla di un lemma espressivo, ma preferisco aderire all’idea di chi, forse piú acconciamente , pensa occorre riferirsi al lat. cillus sulla scia del greco kíllos= asino; il probabile tragitto seguìto è: cillus→ciccus→ciucco→ciuccio ,
appicecano= litigano voce verbale (3°pers. plur. ind. pres.) dell’infinito appiccecà= litigare, contrastarsi, venire alle mani intensivo di appiccià con etimo dal basso lat. adpiceare denominale di ad+piceus (riguardante la pece): chi litiga e viene alle mani si appiccica quasi all’avversario;
varrile= barili sost. masch. plur. di varrilo = recipiente simile a una piccola botte, fatto di doghe di legno tenute assieme da cerchi di ferro, impiegato per la conservazione di liquidi o altri prodotti | essere ‘nu varrilo, (fig.) essere molto grasso. con etimo dal basso latino barillus, ma attraverso il port., spagn, prov. barril con la tipica alternanza partenopea b/v come bocca/vocca, barca/varca etc. il basso latino barillus si forgiò su di una radice bhar=portare la medesima dello spagnolo barrica e franc. barrique= botte ed ancòra dello spagnolo barral= fiasco;
se scassano= si rompono, si infrangono voce verb. rifl. (3° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito scassare/arse/ scassà= romper(si), infrangere con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diverso; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto.
Raffaele Bracale