mercoledì 26 agosto 2009

VECCHIE VOCI NAPOLETANE

VECCHIE VOCI NAPOLETANE Questa volta il compitino me lo à assegnato l’amico carissimo il prof. Carlo Iandolo che mi à inviato un elenco di voci partenopee esortandomi ad illustrarle ed a fornirne, ove possibile, una eventuale ipotesi etimologica. Non mi sottrarrò all’invito, sperando di non dire troppe asinerie. Ecco qui di sèguito l’elenco delle voci: ammagliecà (ammagliechïà), , ammallà, arresedià, azzancà, jestariello, cataròzzola, chiuchiaro, cianculià (cianculïà), cernetura desfazzio, fecozza, felatiello, fesina, fúrgulo, mingria/mincria, ‘mpechera, ‘mperrarse, muniglia. Forza e coraggio e diamoci da fare, Rafè! Ma devo cominciare con il dire che non si tratterà di una passeggiata: ad un primo rapido esame a volo d’uccello m’accorgo che mi troverò a competere con voci per la maggior parte desuete e non piú riscontrabili nel linguaggio comune della gente, voci che ormai son solo nelle opere degli antichi scrittori (Cortese, Basile, Stigliola ed altri) e non si trovano neppure in tutti i calepini dell'idioma napoletano, ma solo in quelli d’antan; solo di due o tre delle voci elencate ò diretta memoria essendo voci che cinquant’anni or sono – quando fui ragazzo – erano ancóra in uso nel parlato familiare e/o popolare; tutte le altre le ò conosciute solo per averle incontrate in talune antiche opere napoletane e mai piú usate o ritrovate nel linguaggio comune della gente, cioè nel parlato familiare e/o popolare. Ciò precisato veniamo al dunque entrando in medias res. 1) ammagliecà (voce desueta) attestata pure come ammagliechïà (che à coniugazione diversa nella quale (per fare un esempio) all’ind. presente in luogo di ammaglieco- ammaglieche- ammaglieca etc che è l’ind. pres. di ammagliecà, dà ammagliechejo – ammagliechije – ammalgliecheja etc. cosí come impone l’infinito in chïà) voce che valse: ruminare,gramolare, masticare lentamente alla meglio e per traslato biascicare (come chi muova la bocca nell’atto di masticar lentamente). Ora atteso che la ruminazione non è altro che una rimasticazione con l’intento di assottigliare il piú possibile il cibo, come il gramolare è il far passare lino o canapa in una macchina allo scopo di separare le fibre tessili della canapa e del lino dalle fibre legnose, insomma di renderle il piú sottili possibile, il masticare lentamente allo scopo di assottigliare sia pure alla meglio il cibo è un’operazione che comporta il far sottostare il cibo ai ripetuti lenti colpi dei denti che assumono quasi la funzione di piccoli martelli/ magli e perciò per il verbo a margine reputo si possa tranquillamente pensare ad un denominale del latino malleus che nella bassa latinità fu mallius che poté dare magliecare/magliecà= mangiucchiare che rafforzato da una protesi ad diede ad-magliecà→ammagliecà e poi ammagliechïare/ ammagliechïà. 1) ammallà = ammollire (come càpita sui banchetti dei mercatini ortofrutticoli, per la frutta improvvidamente passata per le mani di avventori scostumati) , ammaccare, mantrugiare, sgualcire e (con significati però desueti) percuotere,bastonare, uccidere. anche per questo verbo etimologicamente reputo che si possa far riferimento ad un ad+malleus→ ammallare/ammallà quantunque da qualcuno ci si attenderebbe un ammalliare/ammallià sempre che il qualcuno non stesse pensando al pregresso mallius. 2) arresedià (voce abbondantemente desueta) che un tempo valse rassettare, mettere in ordine; oggi il verbo è sostituito da arricettà ( da un ad+ receptum)= dar sistemazione, raccogliere e riporre (arricettà ‘a casa, ‘a stanza= rassettare la casa, la stanza mentre arricettà ‘e fierre sta per raccogliere i ferri usati per lavorare, riporli nella borsa dando loro ricetto= pace,ricovero, calma, tranquillità. Torniamo al verbo a margine: arresedià che come ò detto valse rassettare, mettere in ordine, sistemare; non tranquilla la lettura etimologica del verbo; qualcuno si trincera dietro un pilatesco etimo ignoto o incerto qualche altro (ad es. il fu D’Ascoli) opta per un lat. asseditare donde l’italiano assettare= mettere in assetto, ordinare, sistemare convenientemente e con cura; chi si trincera dietro l’etimo ignoto o incerto mi dà l’orticara, ma D’Ascoli non mi convince: se semanticamente asseditare potrebbe accontentarmi, non lo può morfologicamente: v’è, a mio avviso, troppa differenza tra asseditare ed arresediare. Direi anzi con il molisano on. Di Pietro: “Nun ce azzecca niente asseditare con arresediare. A mio sommesso, ma deciso avviso, anche con riferimento ai concetti di dar sistemazione, raccogliere e riporre dando ricetto ossia ricovero, calma, pace, tranquillità espressi dal verbo arricettà che nel parlato comune à sostituito il verbo a margine conservandone il significato, quanto all’etimo di arresedià dico che si possa con somma tranquillità farlo risalire ad un lat. ad + resedare= calmare (composto da un re (part. intensiva) + sedare). 3) azzancà o pure azzangà anche per questo verbo voce antica attestata nello Stigliola, nel P.P. Volpe ed altri si deve parlare di voce abbondantemente desueta che un tempo valse, soprattutto nella forma riflessiva azzancarse/azzangarse, infangare/rsi, inzaccherare/rsi, lordare/rsi di fango, camminar nel fango; anche in questo caso occorre dire che è non tranquilla la lettura etimologica del verbo; qualcuno si trincera dietro il solito pilatesco etimo ignoto o incerto (cosa che come ò detto mi dà l’orticaria; qualche altro piú coraggiosamente (e sto parlando del fu D’Ascoli) opta, ma non mi pare lo faccia correttamente, per un longobardo zahhar= lacrima nell’idea semantica che a procurar la lordatura di chi si inzacchera siano gli schizzi (lacrime) di fango; siamo alle solite! Fatta salva la gran fantasia del defunto professore, mi pare proprio impercorribile il passaggio morfologico che porti da zahhar a zanco/go che à prodotto poi azzancà ←ad + zanco/go. Sommessamente azzardo che il napoletano zanco/go= fanghiglia che à dato il verbo a margine e che non à nulla a che spartire con l’omofono, omografo zanco del veneto e veneto-giuliano e triestino e dove da s(t)anco→zanco vale sinistro – mancino Penso che la voce napoletana possa esserci pervenuta forse attraverso una voce araba (ma quale sia, per ora non so) marcata sul sanscrito panka= lota, polvere intrisa d’acqua. 4) jestariello vocabolo ignoto sia nella forma a margine che in quella semplificata di iestariello, a tutti i calepini della lingua napoletana, che ò potuto consultare, da quelli piú antichi: R. D’Ambra, P.P. Volpe, Andreoli a quelli piú vicini D’Ascoli, Altamura etc. Penso che con ogni probabilità debba trattarsi di voce del passato, abbondantemente desueta e neppure originaria; la morfologia del termine con quel suffisso diminutivo di sapore spregiativo: riello mi induce a pensare che debba trattarsi di una voce coniata ad usum delphini da un qualche antico scrittore:Basile(?), Cortese(?), Stigliola(?), Sgruttendio (?) etc ricavandola come diminutivo maschilizzato sulla voce jesta che ò trovato attestata nel D’AMBRA nel significato di sfilza di fichi secchi, per cui il jestariello sarebbe o potrebbe essere un sostantivo o aggettivo da riferirsi ad un uomo piccolo, minuto e rinsecchito tal quale una sfilza di fichi secchi; quanto all’etimo di jesta che penso abbia suggerito jestariello reputo che si possa collegarlo al portoghese aresta→(ar)esta→jesta con la voce arèsta trasformazione neolatina del lat. àrista 5) catarozzola anche per questa voce antica attestata nello Stigliola, nel P.P. Volpe ed in pochi altri si deve parlare di voce abbondantemente desueta e resistente nel parlato comune solo nel significato estensivo giocoso di testa, cranio con riferimento soprattutto a quello sventanto dei/delle ragazzi/e; originariamente il vocabolo a margine indicò un cantuccio (estremità del filone) di pane raffermo, un grumolo, la parte piú interna del cavolo cappuccio, il suo torsolo e solo estensivamente o per traslato il cranio, la testa quei soli significati che oggi si attagliano (come ò detto) alla voce a margine. Di non tranquilla lettura l’etimo della parola. Oltre numerosi etimo ignoto o incerto trovo solo un’ipotesi dell’Altamura, fatta propria – peraltro – anche dal D’Ascoli, ipotesi che fa riferimento ad un ebraico chatharoth= cranio. Trovo ben strano che un significato secondario o traslato abbia potuto produrre una parola i cui significati primi sono altri:(tozzo, gromolo, torsolo). No, questo ebraico chatharoth non mi convince affatto. Penso di dover e poter seguire altra strada.Cominciamo col dire che nei significati primi qui detti(tozzo, gromolo, torsolo), il napoletano odierno registra tozzola quantunque segnatamente con riferimento ad un cantuccio di pane raffermo; questa tozzola un tempo fu pure catozzola nella quale è riconoscibile una protesi intensiva ca che per alcuni però può corrispondere alla part. greca kata=sopra e probabilmente potrebbe indicare cosa che sta al di sopra, cosa rotonda, sporgente: orbene il napoletano catozzolo/a corrisponde ed è chiaramente marcato su un catorzolo/a derivato dal lat. torsus p.p. di torqueo secondo un percorso morfologico che può essere stato torsus + suff. diminutivo olus/ola + protesi intensiva ca = catorsolo/a→catorzolo/a→ catozzolo/a da cui con epentesi di una sillaba rafforzativa ar si giunge a catarozzolo/a nei significati di tozzo, gromolo, torsolo e solo estensivamente di capo, cranio (cosa rotonda, sporgente che sta al di sopra. Il tutto con buona pace di Altamura e D’Ascoli e del loro ebraico chatharoth. 7) cernetura voce desueta, venuta meno con il venir meno di una tipica abitudine partenopea (quella di approntare nei mesi invernali il cosiddetto braciere(scaldino di fortuna) ormai sostituito in tutte le case napoletane da stufe e stufette elettriche, ad olio, a gas, talvolta a legna, quando non da eleganti camini alimentati con combustibili industriali o addirittura dai radiatori di un riscaldamento spesso centralizzato che massificando i bisogni toglie il gusto della autonoma indipendenza personale. Torniamo alla voce a margine che letteralmente fu un tipo di carbonella piuttosto spessa e consistente usata insieme alla cosiddetta muniglia ( vedi porro) per accendere quello scaldino di fortuna che con il nome di rasiere (braciere) occupò, nei mesi invernali un angolo della cucina (la stanza dove si preparavano i pasti, spesso sormontato dall’asciuttapanne (una cupola di listelli lignei intrecciati ad hoc) su cui era appoggiata la biancheria lavata, ma non ancora asciugata del tutto, nella speranza che succhiando il calore emanato dal braciere acceso i panni cedessero la loro umidità in eccesso. Ma sto divagando dilungandomi e perdendo di vista l’assunto. Torniamoci. Ordunque cernetura = tipo di carbonella piuttosto spessa e consistente usata per accendere il braciere; carbonella ricavata artigianalmente dalla combustione protratta fino a carbonizzazione dei tralci di vite potati negli ultimi mesi autunnali; questi tralci carbonizzati erano frantumati grossolanamente e posti, per essere con forza e velocemente agitati, in ampi stacci o crivi con tramatura di ferro piuttosto stretta; i pezzi di carbonella che restavano negli stacci al termine dell’operazione costituivano la cernetura i pezzetti di carbonella piú minuti, quasi polverosi che passavano i buchi della tramatura costituivano la muniglia. Va da sé che la voce cernetura è un deverbale di cernere dal lat. cernere 'vagliare, separare' mentre per la voce muniglia di cui avrei dovuto dire porro,ma che preferisco trattare ora trovandomi in argomento, chiarito che è voce pur’essa ormai desueta che un tempo serví per indicare un tipo carbonella piuttosto sottile e quasi inconsistente usata per accendere il braciere, trattandosi semanticamente quasi di una sorta di mondatura operata sui pezzi di tralci carbonizzati, si può ragionevolmente ipotizzare un *mundilia→mun(d)iglia (cfr. l’italiano mondiglia)deverbale del lat. mundare, deriv. dell'agg. mundus 'mondo, pulito'. 8)chiúchiaro ma meglio chiuchiàro (da non confondere comunque con chiòchiaro che è tutt’altra cosa e che con derivazione da chiòchia variante di ciocia vale zotico, villano (aduso a calzar le cioce) e per traslato sciocco, babbeo) è la voce usata per indicare un semplicissimo strumento a fiato d’uso pastorale, una sorta di zufolo bitonale il cui suono all’incirca riproduce il verso d’un uccello detto chiú o assiuolo (cfr. Pascoli Il chiú in Nuovi Poemetti ). Ed è questa – a mio avviso – la strada piú agevole e sicura per trovare l’etimo della voce a margine: si tratta abbastanza chiaramente, a mio modo di vedere, di una voce di tipo onomatopeico; ai due fonemi chiú e chià riproducenti il bitono dello strumentino si è aggiunto un consueto suffisso di attinenza aro

1 commento:

FRANCO ALTIMARI ha detto...

Complimenti vivissimi all'autore del blog per questo 'spazio' così interessate e dotto. Sono 'approdato' qui alla ricerca di alcune vecchie voci napoletane, inserite in un dizionario russo di fine Settecento. Tra queste anche 'zeffunno', su cui ho letto la buona riflessione contenute in 'Zeffunno e dintorni'. Avrei altri quesiti da porre al dr. Bracale, che hanno a che fare con lo stesso dizionario russo, in cui il napoletano è presente assieme al toscano: 1. è attestata nel napoletano anche la forma 'circio' accanto a chirchio? (così compare con caratteri cirillici); 2) è corretta la forma 'sprofunno' per profondità); 3) jerva è una variante per 'erva'?; 5) 'segale' si dice 'jermano' o 'germano'?; 6)'nguadio' per 'matrimonio' è attestato in qualche fonte napoletana dell'epoca? 7)'scafareja' significa solo 'piatto di creta'? (corrisponde in russo alla parola 'barile'!); 8) 'pisemo' significa solo 'peso' o anche 'giogo'?, 9) 'picciotto' per 'ragazzo' continua ad usarsi oggi in napoletano o è un arcaismo? 10)'picianillo' per 'peccerillo' denota una varietà dialettale diversa da quella dell'area napoletana o si tratta di una variante comunque di area campana? Grazie anticipatamente a Raffaele Bracale per le risposte che riuscirà a darmi. Cordialmente. F.Altimari, Rende (Cosenza)