mercoledì 29 luglio 2009

IL PANE

IL PANE

Tale comunissimo buonissimo (se ben lavorato!) alimento è venduto a Napoli nelle piú varie forme o pezzature, e si avrà perciò ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) ambedue: ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg.; avremo altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupava per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma diversa: un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata Abbiamo infine panini, marsigliesi e ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, quasi delle monoporzioni adatte ad essere consumate farcite di salumi o formaggi o gustose frittate per un rapido, contenuto asciolvere o quale pasto da asporto comunemente détto marenna (che etimologicamente è un gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressivo nd→nn) ed a cui rimando per una piú attenta trattazione.
Per ciò che attiene all’àmbito linguistico rammenterò che in napoletano ‘o ppane (etimologicamente dal latino pane(m) ) è un alimento e come tale di genere neutro, ciò comporta che, quando la parola è preceduta dall’articolo ‘o esige una grafia con la geminazione della consonante d’avvio: ‘o ppane cioè e non ‘o pane.
Raffaele Bracale

BIZZA – CAPRICCIO – STRAVAGANZA - IMPUNTATURA etc.

BIZZA – CAPRICCIO – STRAVAGANZA - IMPUNTATURA etc.
Questa volta per contentar l’amico Edoardo C. ( peraltro dettosi molto soddisfatto di quanto, su suo invito, ò spesso scritto) per contentar, dicevo, l’amico Edoardo C. che me ne à richiesto,autorizzandomi a fre il suo nome,ma non il cognome cercherò di illustrare le voci in epigrafe e quelle corrispondenti del napoletano; cominciamo dunque con
bizza s.vo f.le
1.Breve stizza, Capriccio stizzoso, ma di breve durata, senza serio motivo, anche fig.: il bimbo fa le bizze; il motore fa le bizze.
2.(per ampliamento semantico) Ira, collera; Etimologicamente molti dizionarii registrano la voce come d’etimo incerto, il D.E.I. ipotizza (ma a mio avviso poco convincentemente)una derivazione dal lat. vitiosus per il tramite dell’aggettivo bizz(i)oso; semanticamente non trovo molta corrispondenza tra il vizio(che in latino vale errore, mancanza) ed il capriccio o l’ira che son proprii della bizza; migliore m’appare la proposta di Ottorino Pianigiani che legge bizza come forma varia ed intensiva di izza battezzando ambedue come provenienti dall’antico sassone hittja→hizza = ardore): trovo l’ardore semanticamente molto piú vicino del vizio alla collera, ira o anche solo ad una breve stizza!
capriccio s.vo m.le
1 voglia improvvisa e stravagante; desiderio bizzarro, ghiribizzo; la cosa cosí desiderata: avere, levarsi un capriccio; agire a, per capriccio | bizza improvvisa caratteristica dei bambini: fare i capricci.
2 manifestazione, avvenimento stravagante, fuori del comune: i capricci della natura, della fortuna
3 (per traslato) amore leggero e incostante
Quanto all’etimo si sospetta (D.E.I.- GARZANTI) una derivazione da cap(o)riccio = capo con i capelli rizzati per la paura, quindi manifestazione stravagante; trovo però migliore un’adattamento del fr. caprice.
stravaganza s.vo f.le
1 atto che esce dai limiti prefissati o consueti | rime stravaganti, rimaste fuori dalla raccolta curata dall'autore
2. Atto, comportamento o discorso eccentrico, strano, bizzarro ...
3 (estens.) cosa fuori del comune, strana, bizzarra: uomo, discorso stravagante; idee stravaganti | tempo stravagante, instabilità, capricciosità ..
Quanto all’etimo è voce ricostruita sull’agg.vo stravagante che è dal lat. med. (e)xtravagante(m).
Impuntatura s.vo f.le
1 L'impuntarsi, l'ostinarsi caparbiamente in qualcosa: prendere un'impuntatura.
2 ostinazione improvvisa e duratura
3 Il rimanere nella propria idea con testardaggine e caparbietà: impuntarsi in, su un'opinione; si è impuntato a dire di no
Quanto all’etimo è voce ricostruita attraverso il verbo impuntare sul sostantivo punta (che è dal tardo lat.. puncta(m)) con la prostesi di un in illativo.
Esaminate le voci dell’italiano passiamo a quelle del napoletano che le rendono; in napoletano abbiamo numerosissime voci con significazioni per un verso simili alle pregresse dell’italiano, per altro piú estese e circostanziate. Premesso che molte delle voci che esaminerò, ànno in primis un significato affatto diverso e solo per traslato son riconducibili ai significati che si attagliano alle voci in epigrafe, abbiamo:
cerenfrúscolo s.vo m.le voce desueta, ma registrata da tutti i calepini d’antan nel significato primo di bagattella, minuzia, sciocchezza e per estensione ed ampliamento semantico, in quello di bizzarría, stranezza bizzosa, stravaganza. Quanto all’etimo si sospetta un incrocio tra i lat. caere(folium) e frustulum = bruscolo di cerfoglio; il cerfoglio in nap. cerefuoglio indica oltre che la pianta delle ombrellifere anche gli sgorbi fatti a caso con penne e/o matite sui fogli di carta ed ancóra i vezzi, le moine, le sdolcinature, tutte cose che semanticamente posson ricondursi alle bizzarríe,alle stranezze bizzose.
Fantasía s.f. desiderio improvviso, voglia, capriccio, ma anche immaginazione non rispondente alla realtà; fantasticheria,atto e facoltà della mente umana di creare e crearsi immagini, di rappresentarsi cose e fatti corrispondenti o no ad una realtà: jirsene ‘e fantasia o jirsene ‘nfantasia = perdersi col pensiero dietro immagini o rappresentazioni di cose e fatti spesso irreali o irrealizzabili; altre volte eccitarsi sessualmente col solo pensiero. Quanto all’etimo, voce derivata piú che dal lat. phantasia(m), direttamente dal gr. phantasía ('apparizione, immaginazione', da phantázein 'far vedere') di cui conserva il suffisso tonico.
Marruójete/merruójete s.m.pl. (il sg.marruójeto/merruójeto è disusato perciò non registrato nei calepini) in primis emorroidi e per traslato capricci fastidiosi; semanticamente il traslato è spiegato con il fatto che chi è affetto da infiammazione delle emorroidi malvolentieri siede agitandosi in continuazione con pretestuose richieste, bislacche bizzaríe tendenti a trovare un refrigerio al proprio dolere che (per ragioni di pudore) si evita di esternare ai terzi lasciandoli nella convinzione che quelle pretestuose richieste, quelle bislacche bizzaríe siano da addebitarsi ad instabilità umorale o di carattere. Etimologicamente voci da ritenere un adattamento metaplasmatico dal gr.(hai)morroís -ídos, comp. di hâima 'sangue' e rhêin 'scorrere';

Míngria/míncria s.f. doppia morfologia di un medesimo sostantivo che vale capriccio, ghiribizzo, desiderio improvviso e bizzarro, impuntatura capricciosa accompagnata da pianti e/o lamenti tali da provocare in chi ne è vittima, sensazioni spiacevoli comportanti addirittura emicrania; etimologicamente adattamento del lat. tardo hemicrania(m), dal gr. hímikranía, comp. di hími- 'mezzo' e kraníon 'cranio'; questo il percorso morfologico: hemicrania(m)→(he)micrania→micrània→mincrania, donde con con ritrazione d’accento míncr(an)ia o míngr(an)ia per emicrania;
‘nzíria/zírria/zirra s.f. (Si tratta del medesimo sostantivo rappresentato con tre morfologie alquanto diverse di cui in uso solo la prima che è piú moderna (prima metà del 1900) ed anche, a mio avviso, piú bella delle altre due che affondano le origini nel ‘600 e sono disusatissime.
1 capriccio, bizza, testarda impuntatura, reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, atteggiamenti tenuti quasi esclusivamente da parte dei bambini;
2 prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!). Rammento ancóra che anticamente, come ò accennato, accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti mi appaiono infatti l’idea di ira e di bizza dal comportamento fastidioso sí, ma non grave tenuto dai bambini assonnati o desiderosi di un giocattolo e/o altro; non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato de Falco nel suo Alfabeto napoletano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si verrebbe a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidiae a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che ben mi pare possa rappresentare semanticamente l’impuntatura che è tipica della imberbe ‘nziria.
Puntiglio s.m
1 ostinazione caparbia di chi sostiene un'idea o compie un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione: cuntinuà ’a discussione sulo pe puntiglio: prolungare la discussione per puro puntiglio.
2 grande impegno e volontà: metterse ‘e puntiglio: mettersi di puntiglio studià, faticà cu puntiglio: studiare, lavorare con puntiglio.
Quanto all’etimo voce derivata dallo spagnolo puntillo dim. di punto (de honor) 'punto (d'onore)'; trattasi di voce napoletana poi accolta anche nella lingua nazionale.
Prurito s.m.
In primis 1 sensazione molesta di irritazione cutanea che induce a grattarsi: sèntere/sentí prurito;
2 (figuratamente) voglia improvvisa e intensa, stimolo improvviso, capriccio: ll’ è venuto ‘o prurito ‘e se jí a ffà ‘nu viaggio: : gli è venuta la voglia di andare a fare un viaggio. Quanto all’etimo voce derivata dal lat. pruritu(m), deriv. di prurire 'prudere';
Riscenziellos.m.inprimis deliquo,convulsione,mancamento; poi,per traslato,isterico e falso comportamento di chi, si lascia andare a piccole strane convulsioni condite di sterili isterismi e stolti capricci: atteggiamento tipico tenuto dalle donne o dai bambini quando vogliono forzare la mano a qualcuno per ottenere ciò che, adducendo normali ragioni o pretesti, non potrebbero raggiungere. Etimologicamente la voce a margine è rotacizzazione del piú classico discenziello derivati dal latino descensus, col significato di deliquio. ed è usato nel linguaggio popolare oltre che per significare quanto qui sopra illustrato, anche per indicare quei brevi deliqui , piú esattamente eclampsie cui talora vanno soggetti i neonati o i bambini molto piccoli.
Sbòria s.f. in primis sfuriata, manifestazione di furia collerica; aspro e violento rimbrotto; poi, per traslato, capriccio, puntiglio, ostinazione, fisima, bizza (spec. di bambini); la voce (riferita invece ad adulti dal comportamento stravagante) vale stramberia, bizzarría, stranezza, originalità, singolarità. Etimologicamente la voce a margine è formata dalla parola boria (che è dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)' addizionata in posizione protetica di una S intensiva;
schiribbizzo s.m. trovata bizzarra, stolto capriccio, stramberia,ticchio pretestuoso, idea improvvisa e stravagante; etimologicamente m’ appare voce da collegare ad una voce dell’ant. tedesco: chrepiz ( e ciò sulle orme del Pianigiani, e quantunque il D.E.I., che pilatescamente parla di etimo incerto,non trovi colleganze semantiche (ch’io invece trovo) tra il significato della voce tedesca ch’indica il granchio e la stravaganza dello schiribizzo: il granchio è abbastanza stravagante per forma e comportamento!...)dicevo da collegare ad una voce dell’ant. tedesco chrepiz con protesi di una s intensiva, raddoppiamento espressivo della consonante finale e paragoge della evanescente di chiusura atteso che il napoletano aborre parole terminanti per consonanti (cfr. alibi tramme←tram, bisse←bis, bbarre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus con la sola eccezione della negazione nun talvolta attesta però come nune);

schirchio s.m. di per sé in primis privazione dei cerchi contentivi con riferimento alla sconnessione delle botti che vengon disfatte privandole innanzi tutto dei cerchi di ferro che stringono le doghe; per traslato con riferimento all’atteggiamento di persona (piú spesso uomo giovane o adulto che donna) che fosse priva di ipotetici cerchi contentivi della testa, e farebbe follie dando luogo a manifestazioni strane, strambe, a bizzarrie, a capricci, a bizze lunatiche e quindi bislacche, se non addirittura folli; etimologicamente deverbale di schirchià/schierchià = privar dei cerchi derivato da una s(distrattiva) + lat. tardo circulare deriv. di circulus, dim. di circus 'cerchio'; questa la strada morfologica:
s + circulare→s+ circlare→scirchiare con il tipico passaggio di cl a chi come ad es. clausu(m)→chiuso e successiva assimilazione regressiva del ci di sci al successivo chi fino a pervenire da scirchiare a schirchiare/schirchià;
sfizzio(correttamente scritto in napoletano con due zeta); tale voce, partendo dalla parlata napoletana, è approdata in quella nazionale seppure accolto e scritto con la z scempia: sfizio ma mantenendo il medesimo significato di: capriccio, voglia: togliersi uno sfizio; levarsi lo sfizio di fare qualcosa | per sfizio, per puro capriccio, per divertimento portandosi dietro molte voci derivate, come:il sostantivo sfiziosità (cosa sfiziosa; in partic., ricercatezza alimentare), l’aggettivo sfizioso (che soddisfa una voglia, un capriccio; che piace, attrae,perchéoriginale)nonché l’avverbio:sfiziosamente e (per sfizio). Di non facile lettura l’etimologia di sfizzio; la maggioranza dei dizionarî in uso (persino il D.E.I.!), si trincera, procurandomi attacchi d’orticaria!..., dietro il solito pilatesco: etimo incerto/etimo oscuro; qualcuno, un po’ forse fantasiosamente, propende per una culla latina da un (sati)s -facio di cui lo sfizzio conserverebbe il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza. Qualche altro, ancor piú fantasiosamente (vedi C. Jandolo) ipotizza un latino ex+ vitium nella pretesa che lo sfizzio configuri una sorta di stravizio.
Non manca infine, per fortuna!, chi propende -e forse non a torto, piú correttamente - per un’etimologia greca da un fuxis/feuxis(fuga, evasione) con tipica prostesi della S intensiva partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità;

Stengíne/stencíne s.m. in primis contorcimenti e poi, per traslato, sterili isterismi e stolti capricci: atteggiamenti che tuttavia non son tipici(come invece quelli, che abbiamo esaminato, in cui si parla di riscenzielle) delle donne o dei bambini, ma son d’uso anche tra gli uomini fatti che davanti a situazioni od accadimenti che non ritengono di loro gradimento, sogliono pretestuosamente reagire con comportamenti di pretestuosa ripulsa, di fastidiosi dinieghi, cadendo in quei figurati contorcimenti coi quali tentano di allontanare quelle situazioni e/o quegli accadimenti ritenuti sgradevoli o sgraditi. Molto particolare l’etimologia di stengine o altrove stencine che sono innanzi tutto il plurale di stingino o altrove stincino e risultano essere un deverbale del verbo stingenà/stincinà = storcere, allontanare da una normale linea dritta ; tale verbo che a sua volta è un denominale di stenca= stinco, osso che va dal ginocchio alla caviglia ( e che è derivato dal longobardo skenka); tento di chiarire il percorso semantico per giungere alle convulsioni e/o contorcimenti indicati dalle voci stingino/stincino partendo dalle azioni indicate dal verbo stingenà/stincinà; in effetti, un improvviso, proditorio colpo che sia assestato allo stinco può ingenerare con il dolore che ne provoca, un innaturale, procurato storcimento della gamba se non di tutto il corpo, un’andatura irregolare, una sorta di zoppía; segnalo ancòra che il verbo stingenà/stincinà à oltre i rammentati significati di storcere, allontanare da una normale linea dritta, soprattutto se coniugato al part. passato (stingenato/a-stencenato/a) anche quelli traslati ed estensivi di storcere/storcersi donde storto/a ed anche il significato di spaventarsi soprattutto se addizionato della causa efficiente specificativa ‘e paura = dalla paura donde stingenato/a-stencenato/a ‘e paura cioè a dire: tanto impaurito da torcersene.

Sturzillo s.m. in primis convulsione, contorcimento di natura epilettica (frequenti nei bambini) poi, per traslato, bizza, capriccio improvviso e/o dispettoso a cui si possono abbandonare solitamente i bambini, ma pure gli adulti immaturi; etimologicamente deverbale di sturzellà= deformare, storcere, flettere, sviare,deviare, che potrebbe apparire (D’Ascoli) essere una forma ampliata, ma non chiarita nel suo percorso morfologico!, di storcere. Piú chiaro e preciso risulta essere l’amico prof. C. Iandolo che parla di una s intensiva + un lat. volg. *torsellare (iterativo del classico torquére);
tirrepetirro s.m. voce usata quasi sempre al plurale ‘e tirrepetirre che sono le bizze, gli improvvisi pretestuosi capricci squisitamente femminili e piú corposi che non la imberbe 'nziria o il velleitario verrizzo (vedi ultra) di cui sopravanzano il vuoto isterismo , pur configurandosi in comportamenti nevrotici tali da degenerare in forme convulsionanti tenendo presenti le quali si giunge all'etimologia della parola che non deriva come proposto da qualcuno dallo spagnolo tirria che denota invece la semplice antipatia che non à nulla a che vedere con il capriccio o la bizza; 'e tirrepetirre promanano a mio giudizio invece per adattamento delle voci greche tiros(spasmo) + pitulos(convulsione) manifestazioni tipiche della cocciutagine dispettosa che attiene al tirrepetirro.


verrizzo s.m. Con questa antica voce a margine (peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan),voce che al plurale fa verrizze/verrizzi, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, starebbero ad indicare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di dizionarî, che accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto/etimo oscuro.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma la proposta paretimologia poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja/hizza = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario per indicare un difetto (che comunque comportando una manifestazione d’ardore si intende maschile).
Vertécena s. f. in primis sbalordimento, turbamento o esaltazione di fronte a qualcosa di eccezionale o sconvolgente, poi per ampliamento semantico, comportamento bizzoso , stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano che da quello sbalordimento, turbamento etc. posson derivare; per l’etimo è voce derivata dal lat. vertigine(m), deriv. di vertere 'volgere, girare' con sostituzione, propiziata dal tipo di parola sdrucciola della l'occlusiva velare sonora g con la corrispondente affricata palatale sorda c ed apertura espressiva delle i→e;
Vezzaría s.f. improvvisa bizza,capricciosa stravaganza,comportamento insolito, singolare, che desta perplessità, stupore,manifestazioni tutte tipicamente femminili; quanto all’etimo la voce a margine è un denominale derivato come bizzarro da bizza (s. f. breve stizza, capriccio; forma intensiva di izza che è dall’antico sass. hitze/hizza = collera).
Satis est.
Raffaele Bracale

SCIARDELLA.

SCIARDELLA.
Il termine manca in quasi tutti i vocabolarii dell’ idioma napoletano in mio possesso, ma è parola che negli anni intorno al 1950 udii in casa e dalla viva voce del popolo nel significato di donna inetta, di casalinga incapace di fare i donneschi lavori di casa con attenzione e secondo i crismi dovuti; è 'na sciardella la casalinga che lavi le stoviglie, facendosele scappare di mano e rompendole, che lavi i pavimenti con poca acqua, che spolveri superficialmente che riponga gli abiti in modo raffazzonato, cosí che riprendendoli uno li trovi stazzonati e gualciti al punto di non poterli indossare, una donna insomma inetta ed inaffidabile, una sbadata patentata. Esiste anche un peggiorativo del termine ed è SCIUAZZA.
Per l'etimologia di sciardella, contrariamente a quanto ipotizzato dal mio amico il prof. Carlo Jandolo, (che pure è il solo ad avere avuto il merito di aver recipito la voce nel suo conciso dizionario etimologico napoletano,ma - quanto all’etimologia – ne congettura un legame con l’antico termine italiano:cialdino id est: cosa da poco) ritengo che sia piú opportuno risalire alla parola sciaddea - che già nell’entroterra napoletano è usata in forma di sciardea (parola che derivata dal greco skedao à il medesimo significato di : inconcludente, sbandata, dispersiva) - diminuita in sciaddella con successiva rotacizzazione osco-mediterranea della prima D Per il termine SCIUAZZA penso che si tratti di un’ addolcimento del termine SCIAZZA ritenuto troppo duro e volgare,addolcimento operato attraverso l’introduzione di una efelchistica U non essendo dissimili i significati di sciuazza e sciazza : donna becera e sciattona con etimo dal latino exaptus (inadatto, sconveniente)
Raffaele Bracale

‘O SCRUPOLO D’’O RICUTTARO

‘O SCRUPOLO D’’O RICUTTARO

Letteralmente:Lo scrupolo del lenone
Id est:Manifestare, in talune situazioni, scrupoli o remore da parte di persone che normalmente, non ne mostrano affatto, sicchè è lecito pensare che essi scrupoli siano strumentali a fini illeciti o reconditi.


Ricuttaro s.vo m.le = lenone. Il termine deriva da recoveta→recotta (ricotta) , ovvero raccolta di fondi effettuata da alcuni compari per tirar fuori dalla galera un lenone,o altro delinquentello: evento talmente frequente da far identificare il lenone con il naturale destinario della raccolta, recoveta→recotta (ricotta) donde appunto la voce ricuttaro.
scrupolo s.vo m.le = scrupolo, 1 dubbio, inquietudine che fa temere di agire o di aver agito male, in maniera inopportuna, e fa considerare colpa o mancanza ciò che non lo è;
2incertezza, esitazione di carattere morale: scrupolo religioso, di coscienza; essere pieno di scrupoli; una persona senza scrupoli, disonesta; essere onesto fino allo scrupolo, onestissimo | farsi scrupolo di qualcosa, farsene un motivo di colpa, preoccuparsene (anche in usi iperb.): non vi fate scrupolo di telefonarmi
3 cura estrema, grande impegno nel fare qualcosa: lavoro eseguito con scrupolo
4 antica unità di misura pari alla ventiquattresima parte dell'oncia
voce che è dal lat. scrupulu(m), dim. di scrupus 'sasso a punta'; propr. 'piccola pietra', poi 'preoccupazione, cura'
brak

PEPPÏARE - PEPPÏÀ

PEPPÏARE - PEPPÏÀ


Voce onomatopeica che indica il momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragú napoletano, allorché dal fondo della pentola dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che al culmine della tensione si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Il toscano traduce in maniera piuttosto imprecisa e superficiale: sobbollire.
Un ragú napoletano che sobbollisse e non peppiasse, non sarebbe un vero ragú. Il segreto per far peppiare la salsa sta – oltre che nel tenere la fiamma piuttosto bassa- nel non turare completamente con il coperchio la bocca della pentola, ma nel poggiare il coperchio su di un lato della pentola mentre in direzione opposta occorre poggiare il coperchio non sul bordo della pentola, ma sul cucchiaio di legno posto di traverso l’imboccatura, per modo che si crei una piccola circolazione d’aria che impedisca alla salsa di attingere forza dal fuoco e le impedisca di precipitare nel bollore cosa che rovinerebbe tutta la faccenda. Solo dopo che la salsa abbia peppiato per circa tre quarti d’ora e si sia verificato lo strano fenomeno della separazione dell’olio e dello strutto che affiorano in superfice lasciando il sugo di pomodoro nel fondo della pentola, si può esser certi che il ragú si sia conseguito e dopo una veloce rimestata con il fido cucchiaio di legno, si potrà spegnere il fuoco .
In chiusura rammenterò che la voce in epigrafe è resa nelle Puglie con il termine pippijà che ad un dipresso ripete l’onomatopea partenopea peppïà,
mentre in Sicilia è usato il termine carcariare voce che, risultando essere un denominale di carcara ( calcara o grossa pentola), lascia presumere che
il vocabolo presupponga un’ebollizione così violenta tale che possa indurre il sugo ad uscir di pentola; non è pertanto il napoletano peppiare che come ò spiegato indica un bollore sí prolungato, ma calmo, direi quasi riflessivo, mai agitato o violento. In napoletano, in effetti, il verbo carcarïare/carcarïà è usato per indicare il rumoreggiare, l’agitarsi. Rammento ancòra che quando in napoletano vogliamo indicare un'azione agitata di un individuo che aneli a qualcosa e lo voglia subitaneamente, diciamo che, a proposito del bene desiderato, quell'individuo sta scarcarenno ossia è così agitato che tracima l'ipotetica pentola del comportamento.

peppïà – pippijà = pipeggiare, fare il rumore della pipa ; voci onomatopeiche.
carcarïare/carcarïà =rumoreggiare; bulicare rumorosamente; voce verbale denominale di carcara che con derivazione dal lat. tardo (fornacem) calcaria(m), deriv. di calx.calcis 'calce' indica innanzitutto
la fornace in cui si fanno cuocere i calcari per produrre la calce o il forno in cui si fonde la miscela di sabbia e soda usata per fabbricare il vetro e per traslato – nel caso che ci occupa - una grossa pentola, una caldaia, un grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa;
scarcarenno = tracimando la caldaia voce verbale (gerundio ) dell’infinito
scarcarí = tracimar la caldaia denominale di carcara da un
ex-carcara però con cambio di coniugazione che da un atteso excarcarïà passa adexcarcarí.
Raffaele Bracale

martedì 28 luglio 2009

CAGNACAVALLE

CAGNACAVALLE

Con la parola in epigrafe, a far tempo dalla seconda metà del 1400, a Napoli si intese indicare chi su banchetti di fortuna nell’àmbito dei mercati rionali esercitasse, spesso non autorizzato, il mestiere di cambiavalute e non chi esercitasse l’attività di addetto al cambio di posta ( come erroneamente potrebbe far pensare la parola formata dall’agglutinazione della voce verbale cagna (3° persona ind. pres. del verbo cagnare= cambiare dal tardo lat. *cammjare per * cambiare, di orig. gallica) con il sostantivo cavalle (plur. di cavallo che è dal tardo lat. caballu(m).
La faccenda si spiega con il fatto che la voce cavalle, seconda parte della voce cagna-cavalle non si riferisce al veri e proprî grossi mammiferi erbivori con testa lunga, collo diritto sovrastato da criniera, coda corta con peli lunghissimi, orecchie corte e diritte, arti con un solo dito, usati appunto nelle poste (luoghi situati lungo le vie di comunicazioni ed usati dai viaggiatori per fermarvisi temporaneamente, rifocillarsi e sostituire gli stanchi cavalli usati fino al momento del cambio), ma si riferisce ad una moneta che i napoletani chiamarono cavallo; rammento appunto che
nella seconda metà del Quattrocento Napoli era governata da Ferdinando I d’Aragona, il quale nel 1472 fece coniare una moneta sul cui rovescio era effigiato un cavallo galoppante. Il popolo chiamò questa moneta «cavallo»→ca(va)llo e, nei secoli successivi, molti altri sovrani fecero battere monete con la medesima effige e conseguente medesimo nome, sino all’ultima emissione da tre cavalli→tre ca(va)lle del 1804. A margine rammento un icastica espressione partenopea che recita: Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle, come ricordato, era la piú piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale che insaporisse la minestra.
Raffaele Bracale

‘E PAPARELLE

‘E PAPARELLE

Nel parlato napoletano, ma pure nei reperti letterarii c’ è e ci fu un congruo numero di termini usati per indicare il danaro; qualcuno si è preso la briga di contarli e ne à trovato circa sessanta; n’esamino qui qualcuno a cominciare in ordine alfabetico da quel sonante
abbrunzo(etimologicamente da un basso latino ad+bruntius contratto di brun(i)tius= brunizzo,brunito che richiama ovviamente la lega metallica (bronzo) con cui s’usava tempo addietro batter moneta, per passare poi al termine agresta (etim. dal basso latino agresta femm. di agrestem= selvatico, aspro, rustico)che in primis indica l’uva primaticcia, quasi acerba, quella stessa che era effigiata in una cornucopia sul verso di un’antica moneta spagnola in uso nella seconda metà del 1500 e che còlta di straforo dai vendemmiatori veniva venduta in danno del padrone della vigna dando vita all’espressione fare la cresta (profittar truffaldinamente di beni altrui) ;rammento ancora l’ironica
acquavite che è bevanda notoriamente tonica ed è fuor di dubbio che il danaro dia tonicità a chi ne possieda;
ricorderò ora il termine
agniento che di per sé indica l’unguento, il balsamo, e va da sé che il danaro è un balsamo che può lenire parecchi mali, oltre che l’unguento che a mo’ di grasso s’usa per ungere chi di dovere per assicurarsi un beneficio;
sempre con riferimento alle capacità curative ricordo il termine
aruta l’erba aromatica che il popolo ritiene apportatrice di tanti benefici effetti: aruta ogne male stuta al pari del danaro che si ritiene possa risolver ogni problema sia fisico che morale;
lasciando da parte ora i riferimenti curativi o lenitivi rammenterò il termine
argiamma patente corruzione del francese argent in riferimento, come il pregresso abbrunzo, al metallo usato per batter moneta.
E continuiamo con una rapida elencazione in ordine alfabetico dei termini piú comunemente usati per indicare il danaro; abbiamo:
bisante o besante dal bizantino:buzantion (moneta d’oro);
boragna forse dal greco bora (nutrimento);
chiuove probabilmente per la somiglianza delle monete con le grosse teste di taluni chiodi;
cianfrone dallo spagnolo chanflon moneta argentea che al tempo di Carlo V (1530 ca) valeva 1 ducato e sotto Filippo III (1598 ca) causa l’inflazione solo ½ ducato;
ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
cicere (ceci) il povero legume usato un tempo come merce di baratto;
crespielle dal francese crêpe frittella increspata e dorata richiamante l’oro della moneta e la rugosità del conio;
crie monete cosí chiamate perché portavano effigiata la spiga dell’orzo (in greco kri),
cuocciole dal greco còclos (conchiglia) un tempo le conchiglie furono usate come moneta negli scambi commerciali;
dummineche dal nome di Giandomenico Tramontano abilissimo coniatore di stampi di moneta, attivo presso la zecca napoletana nella seconda metà del 1500;
fajenze dal nome della città di Faenza dove erano prodotte le costosissime stoviglie in terracotta pregiata; col nome della città di Faenza sostantivato in fajenza e nel suo plurale fajenze si finí per designare il danaro in generale atteso che ne occorreva impiegare moltissimo per acquistare le terracotte prodotte in quel di Faenza;
filusce o filusse o ancora felusse. Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora piú fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto piú semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felús ed in Portogallo: fuluz;
frisole (i fagioli spagnoli) e fasule usati, temporibus illis a mo’ di moneta o merce di scambio al pari dei ciceri summenzionati in precedenza;
furmelle il termine originariamente indicò i bottoni fatti con grossi dischetti di legno, di osso o di metallo, dischettisemplici o ricoperti di stoffa, successivamente con il detto termine si indicarono pure per la loro somigliante forma le grosse, sonanti monete coniate dalla zecca partenopea;
gigliati in riferimento al giglio d’oro impresso sulle monete d’epoca angioina;
gliuommero dal neutro plurale glomera del latino: glomus-eris; da glŏmer(a)→gliommero→gliuommero con dittongazione della ŏ e raddoppiamento espressivo della labiale; gliuommero è principalmente gomitolo e poi anche: rotolo di monete e da esso monete tout court;
grano d’ovvia valenza simile all’odierna grana, ma quanto piú espressivamente corretta attesa la sacertà del cereale richiamato;
manteca dall’omologo termine spagnolo: saporita crema di panna, burro, latte e zucchero che richiama l’idea del buono ed utile ungere proprii del danaro;
maglie dritto per dritto dal francese: maille=moneta, rammentado che chi è sprovvisto di danaro s’usa indicarlo come: sfasulato (con riferimento ai pregressi fasule) o – giustappunto: smagliato;
medaglie o cemmeraglie per l’ovvia somiglianza tra le battute monete e le coniate medaglie;
miglio sulla falsariga del precedente grano;
mignòle o mognèle termini però abbondandemente desueti;
numerosissimi i vocaboli sotto la lettera P , ricorderò:
patane
papagne
parpagnole
patacche
picciule;
sorvolo su tutti per soffermarmi sul termine paparelle con il quale oggi furbescamente si suole indicare il danaro;
è pur vero che con il termine paparelle in napoletano si indicano i piccoli dell’anitra, ma con tale accezione il danaro non c’entra nulla; come significante la moneta, a mio avviso, per detto termine occorre risalire al nome del facoltosissimo e munifico nobiluomo Aurelio Paparo fondatore con un tal Nardo di Palma di un Monte di Pietà in cui profuse parecchio danaro di suo per combattere la piaga della povertà ed usura.Su di un’analoga via di beneficenza si pose Luisa, figlia di Aurelio Paparo, che sovvenzionata dal genitore fondò un tempio o conservatorio di donne povere e neglette chiamate dal popolo: paparelle.Da detto nomignolo prese il nome una strada napoletana, quella dov’era ubicato il tempio;
e continuiamo ad elencare:
pennacchie dal nome di una vilissima moneta penna dal valore esiguo di 1 carlino, quella stessa moneta che per la facilità con cui veniva spesa diede vita al detto: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri e ciò quantunque qualcuno sostenga a cuor leggere che miéttele nomme penna (chiamala penna) si riferisca al fatto che l’oggetto da chiamar penna possa facilmente esser perso e dileguarsi come piuma d’uccello ;rammenterò che la moneta detta penna s’ebbe questo nome giacché sulla moneta v’era effigiata l’Annunciazione dell’Angelo a Maria rappresentata sul dritto della moneta, mentre sul verso v’era incisa un’ala dispiegata (penna) dell’angelo annunciatore;
purchie ed il suo corrotto perucchie ambedue coniati sul termine porchia
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro;
e potrei ancora continuare in un’elencazione, ma correrei il rischio di segnalare termini non piú usati; preferisco perciò indicare solo un ultimo ed attuale, corrente e cioè:
sfardelle termine un po’ becero, ma ancora oggi in uso nel parlare popolare anche se di lontanissima provenienza in quanto corruzione della parola ferdinandelle o ferrantelle da cui ferradelle e poi fardelle ed infine sfardelle dal nome di una moneta battuta tra il 1460 ed il 1490 a Napoli sotto Ferdinando o Ferrante d’Aragona, figlio naturale seppure illegittimo e successore di Alfonso il Magnanimo.
A margine di tutte queste voci trovo interessante indicare le principali monete in uso nel reame di napoli tra il 1750 ed 1865;abbiamo:
GLIUOMMERO = rotolo di 100 DUCATI –
DUCATO = 100 GRANI/GRANA corrispondente a 4,36 lire italiane –
TARí = 20 GRANI –
PEZZA o SCUDO = 120 GRANI cioè 12 CARLINI –
CAVALLO O CALLO: Coniata in rame in piú valori (uno, due, tre, quattro, cinque, nove) dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito dal tornese), era la dodicesima parte di un grano napoletano. Dal 1814 passò, invece, a rappresentare la decima parte di un grano napoletano.
PREVETINA = 13 GRANI
CARLINO = 10 GRANI –
TORNESE = 2 GRANI –
PENNA = 1/2 poi 1/20 GRANO.
E trovandomi in tema elenco qui di sèguito i principali pesi e misure di ardi e liquidi in uso nel reame di napoli tra il 1750 ed 1865 quantunque esulino dal discorso sulle monete; abbiamo:
TOMOLO/TUMOLO (misura per aridi) = litri 55,32 divisi in 24 MISURE –
MISURA (misura per aridi o liquidi) = litri 2,31 –
BARILE(misura per liquidi) = litri 43,62 diviso in 60 caraffe
CARAFFA(misura per liquidi) = litri 0,727
STAIO (misura per olio) = litri 10,081 pari a 96 misurelle
MISURELLA o MESURIELLO = litri 0,105
CANTÀRO(misura per aridi ) = kg. 89,1 pari a 100 rotoli
ROTOLO /RUOTOLO = 890 grammi (a Napoli e nel napoletano, mentre in Sicilia corrispondeva a 793 grammi) pari a 33,35 once a Napoli e 29,70 once in Sicilia -
ONCIA = 26,7 grammi pari a 30 trappesi
TRAPPESE = 0,89 grammi.



Raffaele Bracale

VARIE 331

1.Quanno 'a gallina scacatea, è signo ca à fatto ll'uovo.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente,soprattuto quando le scuse non son richieste, significa che si è colpevoli.
2.Quanno si 'ncunia statte e quanno si martiello vatte
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ci è favorevole.
3.Miettele nomme penna!
Letteralmente: Chiamala penna! La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi piuma d'uccello. La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, come sparisce un oggetto prestato a qualcuno che per solito non restituisce ciò che à ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che se il prestito fosse una cosa buona, si impresterebbe la moglie... a margine rammento che con il nomme penna si intendeva anche una vilissima monetina che si spendeva con facilità, senza remore o pentimenti; la moneta détta penna ebbe il valore esiguo di 1/20 di grano, questa stessa moneta per il motivo ricordato è ricollegabile al détto qui esaminato: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento appunto ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri; la monetina s’ebbe il nome di penna giacché su di una delle facce (verso) v’era effigiata un’ala pennuta, quella dell’arcangelo Gabriele che sul dritto era il protagonista dell’Annunciazione.
4.Fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica farina.
5.À fatto 'o pireto 'o cardillo.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienza non può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
6.Pigliarse 'o Ppusilleco.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue forse frutto di incauti incontri con donne di non specchiata virtú.
7.Nun lassà 'a via vecchia p''a via nova, ca saje chello ca lasse e nun saje chello ca truove!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se cosí si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
8.Petrusino, ògne menesta.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Cosí è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse partenopee.
9.Acqua ca nun cammina, fa pantano e fète.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
10.'Nfila 'nu spruoccolo dinto a 'nu purtuso!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.L’espressione rammenta una cerimonia in uso nell’antica Roma repubblicana allorché il Sommo sacerdote, a fini eponimi soleva ad inizio d’anno infiggere un chiodo in una delle pareti del tempio di Giano.
11.Astipate 'o milo pe quanno te vène sete.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
12.Puozz'avé mez'ora 'e petriata dinto a 'nu vicolo astritto e ca nun sponta, farmacie 'nchiuse e miedece guallaruse!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.

13.Aje voglia 'e mettere rumma, 'nu strunzo nun addiventa maje babbà.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...


14.Si 'a morte tenesse crianza, abbiasse a chi sta 'nnanze.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
15. Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
brak

VARIE 330

1.'STA CASA ME PARE RESÍNA: CIRCHE 'NA MALLARDA E TRUOVE 'NA MAPPINA!
Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
3. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
brak

ZEFFUNNO & DINTORNI

ZEFFUNNO & DINTORNI
Eccoci a dire di una antica (cfr. i vocabolaristi Andreoli e P.P.Volpe) parola partenopea: zeffunno usatissima un tempo ed ancóra in uso, sia pure in una tipica espressione che poi illustrerò, nel parlato partenopeo, parola che se usata direttamente quale sost. masch. traduce le voci italiane: rovina, abisso, baratro e che invece se usata accompagnata ad un verbo, in funzione quasi modale, preceduta dalla preposizione a ( a zzeffunno ) acquista differenti significati o particolari sfumature degli originarî significati che qui di sèguito vedremo.
Come ò detto, in primis la voce zeffunno (in origine usata come sinonimo di prufunno) valse le voci italiane: rovina, abisso, baratro ed etimologicamente risultò un deverbale del tardo latino *suffunnare (precipitare, subissare) per il class. sub-fundere , mentre la voce prufunno dal lat. profundu(m), comp. di pro- 'davanti' e fundus 'fondo'; propr. 'che à il fondo innanzi, più in là'(con chiusura della sillaba lunga d’avvio ō→u e consueta assimilazione progressiva nd→nn) valse le voci italiane: orrido,precipizio e segnatamente usata al plurale (e con l’aggiunta dello specificativo ‘e casa (‘e) riavulo) l’inferno ( ‘e prufunne ‘e casa riavulo= l’inferno); di talché passata la voce prufunno/e ad indicare una cosa cosí brutta da incutere paura al solo nominarla (inferno) , si smise di usarla come sinonimo di zeffunno che sebbene avesse risvolti negativi, non raggiungeva mai quelli spaventosi relativi all’inferno!
E passiamo all’uso… modale di a zzeffunno.
- Mannà a zzeffunno= mandare in rovina, ridurre taluno in miseria; il verbo mannà= mandare così come l’italiano è dal lat. mandare 'affidare, ordinare', ricondotto a (in) man(um) dare 'dare in mano'; nella voce napoletana si noti la consueta assimilazione progressiva nd→nn. Come si evince dalla traduzione in italiano,nell’espressione a margine la voce zeffuno mantiene l’originario significato di rovina , ma acquista anche quello estensivo e totalizzante di miseria; all’incirca le medesime accezioni di zeffunno si ritrovano nell’espressione:
-Jí a zzeffunno = andare in rovina, precipitare in miseria
espressione usata a Napoli, solitamente per riferirsi a chi per i piú svariati motivi quasi sempre da addebitare a sue colpe, abbia dilapidato ingenti patrimonî quasi mai acquisiti con il lavoro e piú spesso ricevuti in eredità.
Dell’ infinito del verbo jí = andare (derivato del lat. ire) ò già detto numerose volte per cui qui mi limito a sottolineare che graficamente esso va reso jí e non í o i’ (come pure erroneamente qualcuno fa…), in quanto esso infinito jí è il solo modo corretto di riprodurre in un unico comprensivo modo anche l’infinito ghí altra forma del verbo andare in napoletano, forma con rafforzamento consonantico che si ritrova ad es. nell’espressione a gghí a gghí = a tempo a tempo ed in talune voci della coniugazione dell’infinito jí come ghiammo per jammo – ghiate per jate – ghienno per jenno etc.
- chiovere a zzeffunno = piovere a profusione, copiosamente in maniera esorbitante; in questo caso ( che è poi quasi l’unico nel quale oggi venga usata l’espressione a zzeffunno…) la voce zeffunno si riallaccia quasi al suo verbo d’origine *suffunnare= cadere in profondità o in abbondanza, per significare appunto che si tratta solamente di una pioggia estremamente copiosa, anche se non è errato sospettare che nell’espressione chiovere a zzeffunno non sia estranea l’idea che una pioggia tanto copiosa possa determinare problemi al manto stradale fino a procurare sprofondamenti e/o gravi dissesti del suolo.
l’infinito chiovere= piovere è un derivato del tardo lat. Lat. plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio di pl a chi come è in chiú che è da plus o in chiazza da platea etc.
In chiusura mi permetto un piccolo passo all’indietro per tornare al sostantivo di partenza e ricordare che cosí come affermò il Puoti a Napoli con la voce zeffunno si intese oltre che rovina, abisso, baratro etc. ( cfr. Galiani) anche grande quantità, enorme massa come fu nell’espressione Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) o nell’espressione: Tiene mente, so’ cadute ‘nu zeffunno ‘e prete! = (Guarda, è precipitata un’enorme massa di pietre!).
Per amor di completezza dirò però che oggi la frase Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), si renderebbe con un piú moderno ed usato Viato a isso, tène ‘nu tummulo ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), oppure con un Viato a isso, tène ‘nu cuofano ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) dove la voce tummulo estensivamente = gran quantità, ma letteralmente sta per tomolo : misura di capacità per gli aridi che era tipica dell'Italia meridionale; nel Napoletano equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5 litri l’etimo della voce tummulo è Dall'ar. thumn; propr. 'un ottavo', mentre il termine cuofano estensivamente = gran quantità, letteralmente sta per cofano: cassa munita di coperchio; forziere con etimo dal tardo lat. cophinu(m) 'cesta', dal gr. kóphinos con tipica dittongazione ŏ→uo nella sillaba tonica d’avvio ed apertura della sillaba atona fi→fa.
raffaele bracale

lunedì 27 luglio 2009

MEZZEMANECHE D’’A CAMPAGNOLA

MEZZEMANECHE D’’A CAMPAGNOLA

Gustoso primo piatto di sapore campagnolo in cui concorrono pochi e semplici ingredienti.
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di mezzemaniche,
6 zucchine napoletane piccole, sottili verdi e sode lavate,asciugate, spuntate ed affettate diagonalmente in fettine di forma ovale spesse ½ cm.,
18 grossi fiori di zucchina mondati, privati di gambo e pistillo, lavati, asciugati e tritati finemente.
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p.s. a f.,
1 etto di pancetta tesa in cubetti di ½ cm. di spigolo,
1 cipolla dorata tritata grossolanamente,
1 spicchio d’ aglio mondato e tritato finemente.
1 dado da brodo vegetale,
1 cucchiaino di pistilli di zafferano o due bustine di polvere di zafferano,
sale fino q.s.
sale doppio un pugno,
1 etto di pecorino laticauda grattugiato,
pepe decorticato q.s.

Procedimento.
Porre a fuoco sostenuto una padella con tutto l’olio e farvi dorare il trito d’aglio e cipolla; aggiungere a seguire i cubetti di pancetta, abbassare i fuochi e farli rosolare; unire súbito dopo le fettine di zucchine, bagnarle con un mestolo d’acqua bollente in cui sia disciolto il dado ed a fuoco basso farle trifolare; a metà cottura aggiungere i fiori di zucca tritati e portare lentamente a cottura, regolando eventualmente di sale.
Frattanto lessare in molta bollente acqua (8 litri) salata (pugno di sale doppio) le mezzemaniche; prelevarle con una schiumarola e versarle nella padella con l’intingolo; rimestare ed aggiungere lo zafferano disciolto in poca acqua della pasta; rimestare ancóra, cospargere di pecorino e pepe decorticato ed impiattare servendo caldissima di fornello questa gustosa pasta campagnola.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!

raffaele bracale

INQIETARE, IMPORTUNARE, INFASTIDIRE & dintorni

INQIETARE, IMPORTUNARE, INFASTIDIRE & dintorni
Questa volta prendo spunto da una richiesta fattami da un caro amico, facente parte della Ass.ne Ex Alunni del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli, per parlare delle voci italiane in epigrafe ed illustrare a seguire quelle che le rendono in napoletano. Entriamo súbito in medias res e troviamo:
inquietare v. tr.
1 rendere inquieto; turbare, preoccupare: pensieri che inquietano l'animo
2 (ant.) vessare, perseguitare, irritare, spazientire inquietarsi v. intr. pron.
1 (non comune) mettersi in ansia per qualcosa; preoccuparsi
2 irritarsi, spazientirsi: si inquieta con tutti per un nonnulla.
Quanto all’etimo è un verbo derivato dal lat. inquietare, deriv. di inquietus 'inquieto';
importunare v. tr.
dar fastidio, disturbare, recare molestia:
specialmente con richieste ripetute: importunare una donna, infastidirla con un eccesso di galanteria o con apprezzamenti sconvenienti | in formule di cortesia: scusi se la importuno; non vorrei importunarla.
Quanto all’etimo è un verbo derivato dall’aggettivo importuno che è dal lat. importunu(m), comp. di in- 'non' e (op)portunus 'opportuno';
infastidire v. tr.
dar fastidio, disturbare, recare molestia:
1 recare noia a qualcuno: infastidire gli altri con le proprie lamentele
2 (ant.) provare ripugnanza per qualcosa; avere a noia ||| infastidirsi v. intr. pron. seccarsi, perdere la pazienza: s'infastidisce per cose da nulla. Etimologicamente è verbo derivato dal sostantivo fastidio con il prefisso di un in illativo; fastidio è dal lat. fastidiu(m) 'ripugnanza, disdegno', probabile contaminazione di fastus 'orgoglio' e taedium 'noia, disgusto'.
I limitati verbi dell’italiano or ora illustrati trovano nel napoletano numerosissimi e forse piú precisi alleati che sono:
abbafà v. intr. che in primis vale: inaridire, alidire, insecchire, riardere per effetto dell’eccessivo calore; per traslato vale: tediare, seccare, importunare che è del comportamento tipico delle persone fastidiose che si appiccicano addosso tal quale un’aria greve e calda; quanto all’etimo si tratta d’un denominale del sostantivo d’àmbito laziale e romano bafa collaterale di afa = calore eccessivo, alidore fastidioso;
fruscià v. intr. e trans. che in primis vale fluire, scorrere copiosamente; per traslato vale: molestare, contristare, importunare (che è del comportamento tipico delle persone fastidiose) ed ancóra dissipare, sciupare; nella forma riflessiva frusciarse vale: affannarsi, affaccendarsi, pavoneggiarsi, darsi importanza (che è del comportamento tipico delle persone che affaccendate a fare alcunché, non ànno voglia e tempo di accorgersi degli altri ritenuti inferiori;) quanto all’etimo si tratta d’un derivato del lat. frustiare;
‘ncuità v. trans. in primis vale: Inquietare, dar fastidio a ql.cn, e poi anche: beffeggiare, fare, giocare una beffa a qualcuno, canzonare, deridere; la forma riflessiva ‘ncuitarse vale adirarsi, irritarsi; quanto all’etimo si tratta d’un verbo denominale formato partendo da un in→’n distrattivo + il lat. quietus=quieto, tranquillo e cioè incuitare/’ncuità sta per toglier la quiete, la tranquillità;
‘nfanfarí v. trans. che in primis vale: Inquietare, dar fastidio a ql.cn, e poi anche: frastornare,stordire, intontire; quanto all’etimo si tratta d’un verbo denominale formato partendo da un in→’n illativo + il s.vo fanfaro/’nfanfaro = fanfarone, smargiasso, millantatore etc. che è a sua volta dallo spagnolo fanfarrón con tipica riduzione della erre come càpita ad es. nell’italiano caricare che è dal lat. *carricare (da carrus): il napoletano carrecà conserva invece la doppia di *carricare;
‘nfardà v. trans. che in primis vale:Insozzare,sporcare e poi anche ripiegare e cioè dare luogo all’operazione detta infaldatura, operazione finale nella produzione dei tessuti, consistente nel piegare in falde sovrapposte la pezza del tessuto; quest’ultima accezione che compendia un’azione lunga, noiosa e fastidiosa, spiega semanticamente il passaggio del verbo a margine al significato di infastidire, dar fastidio; il verbo ‘nfardà deve il suo significato primo di insozzare, sporcare al fatto che etimologicamente è verbo ricavato da un in (illativo)→’n + il s.vo farda che in napoletano con etimo dall’ ant. francone fard vale escremento, sterco; il passaggio ad infaldatura è dovuto invece alla confusione popolare del s.vo fard con farda (falda) che è dal gotico falda= piega
‘nfettà v. trans. che in primis vale:Infettare, contaminare; e poi annoiare, infastidire; etimologicamente è verbo dal lat. infectare 'avvelenare, turbare', deriv. di infectus; il passaggio semantico tra primo e successivi significati si spiega intuitivamente: ogni contaminazione, ogni infezione procura noia e fastidio…;
scuccià v. trans. e riflessivo che vale: dar noia, fastidio ed esattamente rompere la testa; scocciarsi v. intr. pron. seccarsi, annoiarsi; etimologicamente è verbo da un ex + coccia (cranio, testa) derivato da un lat. reg. cocia→coccia per cochlea= guscio della conchiglia concavo come il capo;
sfastedià v. trans. e riflessivo che vale: infastidire, disturbare, importunare sfastediarse v. intr. pron. annoiarsi; etimologicamente è un denominale del lat. fastidiu(m)= noia, tedio addizionato in posizione protetica di una s intensiva;
sfruculià verbo trans. infastidire, stuzzicare, punzecchiare tediosamente. Si tratta di un verbo della parlata napoletana, pervenuto poi nell’italiano,stranamente senza alcun adattamento (di solito i napoletanismi (cfr. ad es. scustumato→scostumato)mutano le chiuse u nelle piú aperte o ) nel significato di tediare, infastidire, punzecchiare, stuzzicare e simili. Illustro qui di seguito la piú famosa locuzione partenopea costruita con il verbo a margine:
Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante, quasi sbreccandone dei pezzetti.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un attento e severo servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto, durante un suo soggiorno veneziano da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi ( 1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque il bastone in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare a l’infastidire;
stunà v. trans. e riflessivo che vale in primis:stordire con logorrea e/o eccessivo volume di voce, poi turbare, sconcertare ed infine rintronare,tramortire colpendo alla testa con un colpo;va da sé che lo stordire o il turbare comportino l’annoiare, il seccare, l’infastidire; stunarse v. intr. pron. seccarsi, annoiarsi;con altra valenza piú restrittiva il verbo stunà vale stonare, fare stecche (nella musica o nel canto).Etimologicamente il verbo a margine è un derivato del fr. étonner 'stupire', dal lat. volg. *extonare; mentre per la valenza relativa al canto si può accettare una derivazione dal s.vo tono con la protesi di una esse distrattiva: perdere il tono;
stuzzecà v.tr.
1 toccare, frugare qua e là, spec. con un oggetto sottile e appuntito; toccare insistentemente, provocando irritazione, dolore;
2 (fig.) eccitare, stimolare;
3(fig.ed è il caso che ci occupa) molestare, irritare, punzecchiare;
3 (fig.) eccitare, stimolare; Per nulla tranquilla la questione etimologica del verbo a margine: per alcuni sbrigativamente si tratta di una voce onomatopeica, ma nessuno si perita di chiarire donde deriverebbe tale gratuita,supposta onomatopea, per cui mi pare che questa che parla d’onomatopea, sia idea da scartare; come pure mi pare da scartare l’idea che chiama in causa un non attestato lat. *tudiare (da tudes= martello) con una sovrapposizione di un longobardo stuzzian (=?): troppo arzigogolata e poco dimostrabile!...Come arzigogolata o troppo fantasiosa e poco dimostrabile o significativa è una ipotizzata derivazione dall’ a.a. tedesco stôzen(=?); ugualmente è – a mio avviso – da dirsi troppo arzigogolata e poco dimostrabile, oltre che molto fantasiosa quella che propose il Caix che pensò a non attestati *stoccicare/*stozzicare che ipotizzò derivati da stocco=arma bianca piú corta della spada, con lama piú stretta e a sezione triangolare, per ferire di punta. Tutto sommato, a mio avviso, se si vuole evitare di arrendersi ad un etimo sconosciuto lavandosene le mani, meglio mettersi sulle orme del D.E.I. e pensare a questo stuzzecà come ad un iterativo di tuzzà = urtare, sbattere contro etc.(derivato da un *tuccjare→tuzzà con cj→zz come alibi per allazzà – curazza etc.) iterativo rafforzato da una esse durativa in posizione protetica: da tuzzà→tuzzecà e poi stuzzecà nel significato di urtare ripetutamente e dunque molestare, irritare, punzecchiare;
zucà v. trans. in primis vale: succhiare, suggere, poppare per traslato sta per seccare, infastidire, tediare; quanto all’etimo di questo verbo (per il quale è facilmente intuibile il collegamento semantico tra i primi significati e quelli traslati,) tutti concordemente parlano di una derivazione da un *sucare (denominale di sucus che diede anche un suculare donde succhiare).
E penso di poter mettere un punto fermo: satis est.
Raffaele Bracale

VARIE 329

1 Chillo se ‘mpizza 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
2 Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
aparature s.vo fle pl. di aparatura = addobbo; voce derivata dal p.p. paratu(m) del lat. parare=preparare seguendo il percorso a (prefisso intensivo)+ paratu(m) + il suff. di pertinenza ura;
centrelle s.vo fle pl. di centrella = chiodino;
la voce centrella è un diminutivo del greco kéntron= chiodo.
3 'A femmena è ccomme â campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
4 'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata –(non cede e) resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
5 Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi:mazze (cioè busse), carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
6 'E pegge juorne so' cchille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si hanno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che, del resto, in vecchiaia non mancano mai...
7 Dimménne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccóntamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se (come pare) ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi, vanificando il tuo operato.
8 Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia ché vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.













9. Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, così vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
10.'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità.
mariuole s.vo m.le pl. di mariuolo = ladro, il mariolo, ed estensivamente la persona disonesta in genere anche quando non sia dedita al furto continuato; per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro (D.E.I.) propende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione,forse da collegare ad un’origine orientale (turca) donde forse anche il greco mod. margiólos= astuto, furbo etc. qualche altro ancóra lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello;la proposta del D.E.I.sarebbe interessante se si fermasse al francese mariol e non chiamasse in causa (senza specificarla!) un’origine turca, ma Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M evita di chiarire o precisare e con la sua proposta non mi convince per cui non mi sento di accoglierla, come non posso accogliere l’idea dello spagnolo marraio o marrullero morfologicamente troppo lontana da mariuolo e non chiarita nel percorso morfologico da seguire per pervenirvi; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero (C. Iandolo) che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo
quantunque nel napoletano siano rintracciabili piú frequentemente delle epentesi consonantiche eufoniche ( n, v) infisse a mezzo dittonghi o iati, che delle sincopi.
sciammeria s.vo f.le = giacca elegante con falde lunghe, tipica delle cerimonie o ricorrenze importanti, con esclusione dei matrimoni eleganti nei quali sia previsto il tight (detto giocosamente a Napoli: cafè a ddoje porte) in senso traslato e giocoso vale coito.Etimologicamente la sciammeria probabilmente non è un denominale forgiato sul francese chambre, ma molto piú probabilmente è derivato direttamente dallo spagnolo chamberga sempre che non derivi dal nome del duca di Schönberg (17° sec.) che volle che le sue truppe fossero equipaggiate con una lunga palandrana che, dal nome del duca, fu resa in italiano col termine giamberga da cui non è lontana sciammeria; personalmente trovo però piú convincente l’ipotesi ispanica che piú si presta ad approdare a sciammeria attraverso la napoletanissima, solita prostesi di una s intensiva all’originario cia (ch) spagnolo, assimilazione regressiva della b, sincope del gruppo rg sostituito da un ri con una i atona;
come ò accennato si tratta di una giacca molto ampia che inviluppa quasi chi l’indossa al segno che, ripeto, per traslato giocoso e furbesco con il termine sciammeria si intende anche il coito, in particolare quello in cui l’uomo assume una posizione tale che copra del tutto la donna col proprio corpo ed al proposito rammento che con molta probabilità quando i napoletani accennano ad una sciammeria onirica (nella smorfia napoletana è codificata al numero 64), è al coito e non alla giacca che intendono riferirsi, avendo probabilmente acceso la loro fantasia notturna la scena d’una unione sessuale, piuttosto che d’una giacca da cerimonia.
brak

VARIE 328

1Essere all'abblativo.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
3 Cu 'o tiempo e c 'a paglia...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
4 Sî arrivato â monaca ‘e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. Rammento che dell’esistenza di tale mastuggiorgio ←mastro Giorgio (medico o infermiere presso l’ospedale degli Incurabili dove venivano curati anche gli affetti da malattie nervose) si fa menzione oltre che in un canto popolare di fine ‘600 che à i ss. versi: Comme te voglio amà, ca sî ‘na pazza? /Nun tiene ‘na parola de fermezza… /Vatténne a Nnincuràbbele pe pazza, / là ce sta Mastu Giorgio ca t’addrizza! anche in alcuni versi di Biaso Valentino ? - † fine 1600 ca (di professione scrivano e mediocre poeta, a credere al Galiani) che scrisse: Deh, mastro Giorgio mio, dotto e saputo, /che tanta cape tuoste aje addomate, /si nun te muove a darce quarch’aiuto, nuje simmo tutte quante arrovenate.

5 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.

10 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
11 'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
12 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
13 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
14 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
15 Parla surtanto quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla solo quando orina la gallina! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie o ad esprimere giudizi e/o pareri non richiesti.
Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che sia invitato a tacere sempre.
16 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. A Napoli per la zona della Loggia di Genova,situata nelle adacienze dell’attuale via Nuova Marina, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
17 Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
18 Cesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona tanto spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente da venire equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti sia in alto che in basso, sforniti di porte per consentire un agevole ricambio d'aria, ed una rapida pulizia con potenti getti d’acqua.
19'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
20 jĺ truvanno scescé
Espressione intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo (pur se non dichiarato) di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase simile contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeve truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).


brak

VARIE 327

1.Chi fa bbene, more acciso.
Letteralmente: chi fa il bene, muore ucciso.
2.Nce ponno cchiú ll'uocchie ca 'e scuppettate...
Letteralmente: Ànno piú potere gli occhi che le schioppettate.Id est:la potenzialità del malocchio è cosí elevata da produrre piú danno delle fucilate ed il popolo napoletano teme moltissimo il malocchio, atteso che dalle ferite di arma da fuoco si può guarire, ma è impossibile sottrarsi agli effetti disastrosi del malacchio
3.Dicette 'onna Vicenza: Addó c'è ggusto nun c'è perdenza.
Letteralmente: Disse donna Vincenza: Dove vi è gusto, non vi è perdita. Id est: ciò che si fa con piacere non genera pentimenti. La locuzione la si usa soprattutto a commento delle azioni di chi trovi gradevoli cose e/o persone ritenute da tutti gli altri repellenti.
4.'A raggione s''a pigliano 'e fesse.
Letteralmente: La ragione (che in napoletano va scritta espressivamente con due g..) se la pigliano gli stupidi. In una discussione spesso uno dei contendenti, senza addivenire ad un pratico corrispettivo, si limita a dare ragione all'altro contendente che però con la frase in epigrafe afferma il suo buon diritto a non esser tacitato dalle sole parole...
5.Pe tte ce vo’ 'o caccavo 'e santa Maria 'a Nova.
Per te occorre il pentolone di santa Maria la Nuova. Con questa locuzione ci si riferisce a chi è insaziabile, di robustissimo appetito, a colui al quale insomma non basta cibo. Si tratta naturalmente di una iperbole in quanto 'o caccavo (il pentolone) era infatti l'enorme pentola in cui i frati di santa Maria la Nova solevano preparare il pasto che quotidiamente offrivano non ad una singola persona, ma ai numerosi poveri accolti nel refettorio del convento annesso alla chiesa omonima.
Linguisticamente parlando, premesso che la voce caccavo , s.vo m.le = pentolone è dal lat. tardo caccabu(m), dirò che esso rappresenta un’eccezione nella parlata napoletana dove (cfr. pennellessa/penniello, cucchiaro/ cucchiara – tammurro/tammorra – tino/tina – carretto/carretta – tavula/tavulo etc.) - con il nome femminile si intende qualcosa di piú grosso del corrispondente maschile;fanno eccezione appunto tiano che è inteso piú grosso di tiana e di caccavo che è piú grosso di caccavella.
6.'E meglie pariente stanno â Zecca.
Letteralmente: i migliori parenti stanno alla zecca, intesa non come zona della città, ma come luogo dove si batte moneta, in quanto la locuzione proclama il danaro, miglior congiunto.

7.Aizammo 'a gallina e avasciammo 'a cecoria...
Letteralmente: aumentiamo la gallina e diminuiamo la cicoria... Id est: diamo maggior consistenza alla minestra aumentando la carne e diminuendo i vegetali. La locuzione viene usata quando si voglia convincere qualcuno a curar maggiormente la sostanza delle faccende in cui si è impegnati e a non esagerare con il conferimento di aggiunte attinenti piú alla forma che alla sostanza.
8.Dicette Nunziatina: "A bbuonu fine, m''a faccio 'na rattata 'e suttanino!".
Letteralmente: Disse Nunziatina: "Affinché me ne venga del bene, me la faccio una grattata di sottoveste!" La cultura popolare napoletana non fa mai considerare superflui gli scongiuri ed i gesti apotropaici ritenuti apportatori di benessere. Quello della locuzione, attribuito ad una ipotetica Nunziatina (diminutivo di Annunziata), fa riferimento ad una benefica grattata di sottoveste, termine usato eufemisticamente per indicare parti del corpo che, per solito, sono nascoste dalle vesti.
9.Meglio curnute ca male sentute.
Letteralmente: è preferibile(esser) cornuti che mal compresi. Id est: meglio subire l'onta del tradimento uxorale che esser mal compresi e pertanto esser ritenuti titolari di giudizi o idee che - per non essere stati ben compresi -stravolgono gli autentici giudizi o pensieri di un individuo.

10.Pizzeche e vase nun fanno pertose e maniate 'e zizze nun fanno criature.
Letteralmente: pizzicotti e baci non perforano e carezze di seni non generano creature. Id est: in amore ed in ogni altra occasione, se non si vogliono avere risultati indesiderati, non bisogna superare i limiti di un contatto superficiale, accontendandosi di una toccata e fuga.
11. 'Na mugliera 'ncignata â Chiazzetta
Una moglie che à fatto le prime esperienze sessuali alla Chiazzetta. A Napoli,la Chiazzetta era una contrada del quartiere Porto, densamente abitata da gente di bassa condizione sociale e dedita a loschi affari. Tra queste persone abbondavano le donne di malaffare che svolgevano la piú antica professione del mondo in parecchie case che abbondavano in loco. Per cui quando un giovane impalmava una donna dai precedenti non proprio chiari si diceva che aveva preso 'na mugliera 'ncignata (sverginata) alla Chiazzetta.

12.Ô puorco, miettece 'a sciassa, sempe 'a coda ce pare.
Letteralmente: al porco puoi anche mettere una marsina, mostrerà sempre la coda. Id est: è inutile affannarsi a ricoprire di begli abiti un essere sporco e lercio, qualcosa appaleserà comunque la sua vera natura.
Con la voce sciassa derivata dal francese châsse s’indica la giacca elegante dalle falde non eccessivamente lunghe,ma aperte centralmente dalla vita in giú, originariamente di colore rosso, giacca usata su pantaloni da cavallerizzo,per la caccia(in francese châsse); va da sé che se un maiale indossasse una sciassa, questa avendo le falde aperte dalla vita in giú, lascerebbe in ogni caso vedere la coda, mettendo a nudo la sua natura suina!

13.Te se pozza purtà, 'a lava d''e Virgene!
Letteralmente: Che possa essere trascinato via dalla lava dei Vergini. È il malevole augurio che si rivolge ai fastidiosi, ai tediosi cui si augura che un'improvviso fenomeno alluvionale li trascini con sè e li porti via. Quando non esistevano approntati percorsi fognarii, lo scolo delle acqua piovane era affidato alla naturale pendenza dei luoghi, pendenza che trasportava le acque verso il mare. La zona della Sanità era ed è posta, a Napoli, a ridosso dei contrafforti della collina di Capodimonte ed era sommersa dal copioso torrente d'cqua piovana che, precipitandosi da Capodimonte imboccava il declivio sottostante - via dei Vergini - ed ingrossandosi a mano a mano prendeva forza, trascinando con sè tutto che incontrava sul suo cammino. Il popolo chiamò quel terribile torrente con il nome di lava come se si fosse trattato della lava scaturente da un vulcano.
14.Fa' comme t'è ffatto, ca nun è peccato...
Letteralmente: fa' ciò che ti è stato fatto, perché la cosa non costituisce peccato. E' una delle rare volte che la filosofia popolare partenopea si pone agli antipodi della morale cristiana, che consiglia invece di perdonare le offese ricevute e porgere l'altra guancia, la filosofia popolare qui si pone in linea con l'antico brocardo latino: vim, vi repellere licet, ovvero con il piú recente toscano: render pan per focaccia.
15. San Cristoforo cu 'o munno 'ncuollo.
Letteralmente: san Cristoforo con il mondo addosso. Nella locuzione c'è la commistione della figura di san Cristoforo, che nell'iconografia ufficiale è rappresentato nell' atto di portare sulle spalle il Redentore bambino, e quella di ATLANTE raffigurato con sulle spalle il globo terrestre. Il popolo nella sua locuzione à unito le due figure ed à riferito a CRISTOFORO l'incombenza di sorreggere il mondo. La locuzione viene riferita per bollare di inettitudine fisica e morale tutti coloro che, chiamati ad un risibile lavoro comportante un piccolissimo impegno fisico e/o morale, fanno invece le viste di sopportare grandi e gravi fatiche, lamentandosi a sproposito di ciò che si sta facendo, magari bofonchiando, sbuffando, quasi si portasse veramente il mondo sulle spalle.
brak

domenica 26 luglio 2009

VARIE 326

1CHISTO È N'ATO D''A PASTA FINA.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
2 'O CONTE MMERDA A PUCERIALE
Letteralmente: Il conte Merda da Poggioreale. Così, per dileggio vien definito dal popolo colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed alterigia. Ma il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di una famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il soprannome, pur se affidò in pratica la conduzione dell’appalto ad un suo fidato dipendente che rispondeva al famoso nome di Ernesto a Furia.
brak

TRÒVATE CHIUSO etc

TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHIST' ACCUNTO...

Letteralmente: Tròvati chiuso e perditi questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si sta per compiere o che si compierebbe, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
Accunto = cliente abituale dal latino adcognitus id est: noto, conosciuto, atteso che il cliente abituale è persona che frequenta quasi quotidianamente una bottega e quindi è ben conosciuto dal bottegaio di cui è cliente.
brak

LA PARLATA NAPOLETANA ETC.

LA PARLATA NAPOLETANA e la costruzione delle espressioni con dentro, sopra, sotto ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano.

Premesso che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre il pensiero, sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e così via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i più moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle più classiche dentro il, dentro la.
RaffaeleBracale

JÍ ‘E RENZA E GGHÍ ‘E SGUINCIO.

JÍ ‘E RENZA E GGHÍ ‘E SGUINCIO.

Le due locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa
riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è cosí.
C’è una differenza sostanziale tra le due locuzioni;infatti jí ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale. Il termine sguincio viene dal francese guenchir(procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa, mentre il termine renza viene dal participio presente del verbo latino haerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.
Raffaele Bracale