venerdì 26 marzo 2010

VARIE 600

1 Essere all'abblativo.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni,nella grammatica latina classica.

2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
3 Cu 'o tiempo e c 'a paglia...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
4 Sî arrivato â monaca ‘e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. Rammento che dell’esistenza di tale mastuggiorgio ←mastro Giorgio (medico o infermiere presso l’ospedale degli Incurabili dove venivano curati anche gli affetti da malattie nervose) si fa menzione oltre che in un canto popolare di fine ‘600 che à i ss. versi:
Comme te voglio amà, ca sî ‘na pazza? /Nun tiene ‘na parola de fermezza… /Vatténne a Nnincuràbbele pe pazza, / là ce sta Mastu Giorgio ca t’addrizza! anche in alcuni versi di Biaso Valentino ? - † fine 1600 ca (di professione scrivano e mediocre poeta, a credere al Galiani) che scrisse: Deh, mastro Giorgio mio, dotto e saputo, /che tanta cape tuoste aje addomate, /si nun te muove a darce quarch’aiuto, nuje simmo tutte quante arrovenate.

5 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.

10 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
11 'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
12 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che, deducendolo dalla disincantata osservazione della realtà, che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
13 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
14 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
15 Parla surtanto quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla solo quando orina la gallina! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie o ad esprimere giudizi e/o pareri non richiesti.
Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che sia invitato a tacere sempre.
16 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. A Napoli per la zona della Loggia di Genova (cfr. n°17),situata nelle adacienze dell’attuale via Nuova Marina, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
17 Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi aprivono botteghe,trattorie etc. svolgendovi i loro commerci, ed autoamministrandosi.
18 Cesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona tanto spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente, da venire equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti sia in alto che in basso, sforniti di porte per consentire un agevole ricambio d'aria, ed una rapida pulizia con potenti getti d’acqua.
19'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
20 jĺ truvanno scescé
Espressione antica, ma intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo (pur se non dichiarato) di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase simile contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeve truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).


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