mercoledì 29 giugno 2011

IL VERBO JÍ (andare) e le sue locuzioni.

IL VERBO JÍ (andare) e le sue locuzioni.
Il verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito. Prima di esaminarne qui di sèguito qualcuna, preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso ghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno. E veniamo alle locuzioni:


1.Jirsene carreco ‘e meraviglie
Ad litteram: andarsene carico di meraviglia. id est: allontanarsi stupefatto, in preda alla massima meraviglia, da un luogo dove si è assistito o dove si è partecipato - magari involontariamente -ad avvenimenti sconvolgenti o grandemente allibenti; per traslato si usa dire di chi si allontani da un luogo o da una persona dopo d’aver subíto una dura reprimenda o rampogna.
Carreco/a agg.vo m.le o f.le = letteralmente carico, caricato(estens.) sovraccarico, traboccante, (fig.) oppresso; etimologicamente la voce napoletana è connessa a carrus (cfr. la doppia liquida rispetto alle scempia dell’italiano carico) addizionato del suffisso di pertinenza icus/ica.
2. Jirsene muro - muro
Ad litteram: andarsene rasentando il muro; id est: allontanarsi alla chetichella, quasi sfiorando un muro allo scopo di non farsi notare, non dando nell’occhio.
3. Jirsene oppure venirsene tinco - tinco
Ad litteram: allontanarsi come un tincone oppure avvicinarsi sollecitamente (come un tincone); id est: sparire da un luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad intendendere che l’avvenimento cui si è partecipato e da cui ci si allontani non ci riguardi, né chiami in causa, oppure (nel secondo caso) accostarsi ad un luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad intendendere che l’avvenimento cui si intende partecipare sia di nostra competenza o ci chiami in causa, quantunque nessuno ci abbia invitati o sollecitati in quel senso; in questo secondo caso lo si usa con icastico riferimento a tuti quegli inoportuni comportamenti di saccenti e supponenti adusi ad intromettersi nelle altrui faccende per esprimere pareri o dispensare importuni consigli non sollecitati.
A margine rammento altre tipiche espressioni modali che si ricollegano al verbo andare; abbiamo:
venirsene oppure jrsene ruglio ruglio (id est: venir mogio mogio, piano piano,ovvero accostarsi lentamente, quasi contando i passi, come chi sia pieno, zeppo, stipato di cibo e dunque sia costretto a muoversi lentamente, mogio mogio. Vale la pena di ricordare che l’espressione ruglio ruglio, nella sua reiterazione dell’aggettivo di grado positivo ne sostanzia il superlativo che, al solito, in napoletano non à la forma del suffisso in issimo, ma si forma reiterando l’aggettivo di grado positivo come avviene p. es. con chiatto chiatto o luongo luongo o ancora curto curto che rispettivamente stanno per grassissimo,altissimo (o lunghissimo), bassissimo e dunque ruglio ruglio sta per pienissimo.
Rammenterò appena che l’espressione venirsene ruglio ruglio non va confusa con quella che recita:
venirsene tinco tinco or ora illustrata, di significato diametralmente opposto: venirsene sollecitamente, né va confusa con l’espressione usata dal famosissimo Totò: venirsene tomo, tomo, cacchio cacchio, espressione che come ebbi modo di chiarire altrove sta per: agire con improntitudine, faccia tosta.
Un’ ultima notazione; etimologicamente la parola ruglio è un chiaro deverbale forgiato sul verbo latino: turgulare frequentativo di turgere: inturgidire;
E, a mo’ di completamento rammenterò che sia in calabrese che in napoletano d’antan esiste il verbo ‘ntrugliare = ingrossare forgiato ugualmente sui verbi latini di cui sopra. Ancóra l’espressione napoletana
jí cuonce cuonce è un’espressione avverbiale che vale: andare, agire piano, piano – senza fretta – accortamente – con cautela,precisione e circospezione – lentamente; l’espressione si sostanzia nell’iterazione del sostantivo cuonce (plurale di cuoncio), ma nel caso in esame l’iterazione non mira a formare un superlativo come nel napoletano avviene normalmente, ed ò già déto, alibi sia con sostantivi, ma soprattutto con aggettivi (cfr. sicco sicco (=magrissimo), chiatto chiatto (=grassissimo), luongo luongo (=altissimo o lunghissimo) tinco tinco (=rapidissimo come una tinca)etc. Nel caso in esame ci si ricollega al sostantivo cuonce (plurale di cuoncio) per richiamarne, con l’iterazione, la cautela lenta e circospetta usata nel portare a compimento un’opera muraria (quella che gli antichi romani dissero opus quadratum o opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali di piccole piramidi di tufo o altra pietra, e tenendone la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.
Chiarisco: in napoletano il sostantivo cuoncio (di cui cuonce è il plurale), con etimo quale deverbale da conciare (che è dal lat. volg. *comptiare, deriv. di comptus 'ornato, adorno', da comere 'mettere insieme'), à molti significati: concime, letame (per concimare), belletto, condimento (cfr. ‘o cuoncio acconcia= il belletto, il condimento rende migliore la persona o il cibo), ma indica pure (concio) ognuna di quelle piccole piramidi di tufo o altra pietra di cui sopra; per cui con la locuzione avverbiale cuonce cuonce si intende richiamare la lentezza, la cautela, la precisione maniacale e circospetta da usarsi (procedendo un concio per volta) nel porre in essere l’ opus quadratum o opus reticulatum; allo stesso modo con medesima studiata lentezza, cautela, e precisione deve comportarsi nel suo agire chi sia invitato ad operare cuonce cuonce. E passiamo all’espressione jrsene o venirsene cacchio cacchio che è andarsene o venirsene in maniera strana; infatti cacchio, cacchio ad litteram sta per: strano, strano (nell’espressione in esame: avvicinarsi o allontanarsi strano, strano)Espressione usata per significare l’atteggiamento di chi, facendo finta di nulla, mogio mogio, con indifferenza ed ostentata tranquillità, si prepara invece ad agire proditoriamente in danno di terzi, quasi che si accostasse al luogo dove agirà, con studiata noncuranza, o se ne allontanasse dopo d’avere agito con proditoria e dannosa indifferenza.
Da rammentare che l’espressione a margine era usata da Totò, il principe del sorriso, sommandola con la pleonastica espressione
- tomo tomo espressione inutile in quanto di uguale portata e/o significato, ma di minor presa; ò detto pleonastica perché, mi pare che non ci fosse stato il bisogno di chiarire o aumentare la portata del cacchio cacchio napoletano, espressione - al contrario - molto piú corposa e pregnante, per il vocabolo usato, dell’algido tomo tomo, espressione che pur napoletana è costruita con un vocabolo italiano presente altresí nella esprespessione dell’italiano essere un bel tomo nel senso di essere un tipo strano, bizzarro di grande improntitudine . L’espressione jrsene o venirsene cacchio cacchio non va confusa con quella jrsene o venirsene tinco tinco precedentemente illustrata, di significato molto diverso: venirsene sollecitamente.



4. Jammo, ca mo s’aiza
Ad litteram: andiamo, ché adesso si alza; id est: muoviamoci ché il sipario sta per andar su; locuzione usata un tempo dai servi di scena per avvertire gli attori di tenersi pronti, essendo prossimo l’inizio dello spettacolo, ed usata oggi per sollecitare chiunque in vista dell’inizio di qualcosa cui debba partecipare.
5. Jirsene ‘nzogna ‘nzogna
Ad litteram: andarsene sugna sugna locuzione che non attiene alla sfera culinaria, ma che è usata per commentare il lento consumarsi o deperirsi di una persona che si sciolga quasi a mo’ di sugna
‘nzogna s.vo f.le = sugna, strutto;
preciso súbito che la voce napoletana a margine che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.

6. Jettà ll’uosso ô cane
Ad litteram: buttare l’osso al cane id est: fare o far le viste di fare gratuite concessioni; locuzione che si usa a commento delle azioni di chi sembra quasi si conceda magnanimamente, laddove invece è tenuto a quel comportamento; altrove essa è usata a caustico commento dei comportamento di chi ottenuto un chiaro tornaconto da un’azione altrui, mostra di non apprezzarla quanto dovuto .
7. Jirsene a cascetta nell’espressione te ne vaje a cascetta!
Letteralmente: Andarsene a cassetta.nell’espressionete ne vai a cassetta! La cassetta in questione è quella del cocchiere di carrozza padronale o del vespillone : il posto piú alto, ma anche il piú scomodo e il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri vivi o morti che fossero. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la eccessiva dispendiosità o fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano; infatti l’espressione viene usata a salace consiglio verso chi si accinga a cominciare qualcosa gravosa e probabilmente inutile; spesso la locuzione è preceduta da un imperioso siente a mme, lassa perdere (ascoltami, lascia perdere).
8. Jí a ffranco.
Letteralmente: andare esente/libero id est: comportarsi in modo da essere esente dal rimetterci o danaro o altro, agire in maniera da venir fuori indenni da talune situazioni, senza rimetterci; locuzione usata specialmente in forma di imperativo esortativo quale è: Jammo a ffranco (andiamo esenti!/liberi (da condizionamenti))
9. Jí allicchetto oppure a llicchetto o anche a cciammiello
Letteralmente: andare alla perfezione; locuzione riferita a tutte quelle cose che evolvono positivamente, quasi perfettamente con riferimento al loro stato di tenuta richiamante quello di un valido lucchetto, oppure con riferimento al riuscito stato di forma che richiama una ben costrutta ciambella.Da notare come l’espressione a licchetto si sia fusa in allicchetto trasformandosi in un avverbio modale.
10. Jí a mmare cu tutte ‘e panne
Letteralmente: finire in mare completamente vestito id est: subire un tracollo economico di grandissima portata con tutti i danni relativi, come chi sia finito in mare completamente vestito e corra il rischio di esser trascinato in fondo dal peso dei vestiti imbevuti d’acqua.
11. Jí â perimma
Ad litteram: marcire locuzione usata con riferimento alle merci, in ispecie alle vettovaglie, che stanno per ammuffire o che già siano diventate ammuffite o marce; per traslato la locuzione è usata anche con riferimento alle persone che invecchino male, deperendo nel fisico ed intellettualmente perdendo colpi.
12. Jí ascianno coccosa7
Ad litteram: andare alla ricerca di qualcosa, ma farlo con intensa applicazione comportandosi quasi come un cane che annusi per trovare la traccia cercata; il termine asciare della locuzione deriva infatti dal latino adflare (annusare) con il tipico mutamento partenopeo FL in SCI come per il latino flos diventato sciore in napoletano.
13. Jí cu ‘a faccia dint’ô panecuotto variante Jí cu ‘o musso dint’â mmerda.
Ad litteram: Finire con la faccia nel pan cotto variante finire con il muso nello sterco
La locuzione in epigrafe e la sua variante è usata per significare il comportamento di tutti coloro che per propria ingenuità o insipienza finiscono per fare meschine figure al pari di un bimbo che si sia imbrattato il volto mangiando pan cotto; la variante, molto piú dura ed icastica prende a modello il comportamento del maiale che frugando nel porcile alla ricerca di cibo, spesso affonda il muso nei suoi stessi escrementi, e viene riferita ai presuntuosi atteggiamenti di coloro che abituati a fare i saccenti ed i supponenti spesso vedono le loro affermazioni, se non le loro azioni vanificate queste, contraddette quelle dalla chiara realtà e finiscono per fare figure cosí meschine da esserne quasi insozzati come un porco dal suo sterco.
14. Jí cu ‘o sibbemolle
Ad litteram: procedere con il si bemolle; id est: andare con estrema calma, lentamente, senza porre eccessiva forza nella propria azione, come un musicista che non usasse, nel comporre che semitoni e mai note piene di forza adeguata.
15. Jí cu ‘o siddivò e cu ‘o senza pressa
Ad litteram: andare con il se-dio-vuole e con il senza-fretta Locuzione di portata simile alla precedente, ma con una piú marcata sottolineatura della lentezza usata nell’agire; locuzione che è usata soprattutto per indicare la neghittosità di chi si dispone ad agire, che lo fa senza quasi porvi volontà, ma fidando esclusivamente nella spinta ed aiuto del Cielo.
16. Jí cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso.
Ad litteram: andare con il piombo ed il compasso id est: agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili.
17. oppure jí stocco e turnà baccalà
Ad litteram: Jí cascia e turnà bauglio Andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornar baccalà id est: non approdare a nulla, detto soprattutto con riferimento al mancato impegno di studenti o apprendisti che non ricavano nulla dal loro lavoro o studio che sia al punto che: a) se fossero partiti essendo delle casse tornerebbero dal loro impegno quali baúli cioè sostanzialmente immutati nella loro povera condizione di semplice contenitore, b) se fossero partiti essendo degli stoccafissi ne sarebbero tornati come baccalà, pur sempre cioè misero merluzzo: non facendo grossa differenza l’essere affumicato o l’esser salato .
18. Jí ‘e pressa
Ad litteram: andar di fretta; id est: aver premura, procedere con assoluta rapidità, quasi sollecitato dalla necessità di non perdere tempo. dall’iberico: de prisa di uguale significato.
19. Jí sotto e ‘ncoppa
Ad litteram: andare sottosopra; id est veder ribaltato il proprio status socio-economico; locuzione riferita innanzitutto per significare il fallimento di attività commerciali, ma - per traslato - anche ogni altro rivolgimento che occorra nella vita.
20. Jí ‘e renza , gghí ‘e sguincio e gghí ‘e razzaviello
Le locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è cosí. C’è una differenza sostanziale tra le tree locuzioni;infatti jí ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí/jí ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale; con la terza locuzione gghí ‘e razzaviello si ritorna nell’àmbito della deambulazione e solo in quello; la locuzione infatti (indicando precisamente il solo reale procedere a sghimbescio, in maniera ballonzolante a mo’ di trottola per di piú scentrata) non è mai usata in senso traslato come succede invece per gghí ‘e sguincio; non semplicissima l’etimologia del termine razzaviello peraltro assente nella gran parte dei calepini della parlata napoletana; il D’Ascoli che con il D’Ambra fu l’unico a trattare il termine, non lo indicó né come s.vo. né come agg.vo, né lo definí con chiarezza e fantasiosamente lo collegò all’agg.vo razzapelluso= ruvido a sua volta fatto derivare (sempre piú fantasiosamente) da raspulento= ruvido, rugoso, grinzoso; non si capisce proprio quale possa essere la strada semantica seguíta dal D’Ascoli per collegare qualcosa di ruvido, rugoso, grinzoso con qualcosa che proceda di sghimbescio o in maniera ballonzolante. No, non ci siamo! A mio avviso, restio come sono a trincerarmi dietro un pilatesco etimo incerto o sconosciuto, ipotizzo che razzaviello sia un s.vo (usato peraltro solo nella locuzione avv.le indicata) formato attraverso l’agglutinazione del sostantivo razza (variante locale di razzo=raggio di ruota) con un derivato della voce verbale *avellere collaterale di *e(x)vellere= strappare nel significato di raggio (di ruota)allentato o divelto e dunque scentrato e ballonzolante cosa che rimetterebbe a posto la questione semantica e metterebbe fine alle fantasie del D’Ascoli;proseguiamo: sguincio viene dal francese guenchir (procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa; il termine renza viene dal participio presente del verbo latino àerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.In coda rammento che delle tre espressioni solo quella che recita gghí/jí ‘e sguincio (andare di sguincio) è stata accolta nella lingua nazionale, quantunque assegnando al s.vo sguincio il significato di linea, struttura obliqua.di talché in italiano andare di sguincio vale procedere obliquamente e non (come esattamente è nel napoletano) procedere di sghimbescio, tortuosamente. Ma non è da meravigliarsi: è antico vizio di chi fa la lingua italiana, pescare nell’idioma partenopeo spesso però snaturando significato o morfologia delle voci accolte: ‘nu poco ‘e pacienza e ppeggio pe lloro!
21. Jí ‘mparaviso pe scagno
Ad litteram:giungere o meglio conquistare il paradiso per ventura, per puro caso id est: assicurarsi un vantaggio per mera fortuna;, senza alcun merito conseguire rilevanti benefici o grosse utilità.
22. Jí pe sotto
Ad litteram: finire di sotto; id est: essere accusato ingiustamente, esser inopinatamente chiamato in causa e magari pagare il fio di colpe non commesse.
23. Jí giurgiulianno. oppure jí ‘nzunzulianno
Ad litteram: andar bighellonando; id est: andare girozolando, ma farlo alla maniera del giurgio* cioé dell’ebbro, ciondolando, magari a rischio di cadere, andar senza meta e senza scopo; l’alternativa proposta in epigrafe esprime i medesimi concetti, ma è voce piú moderna coniata partendo dal termine zonzo.*etimologicamente giurgio risulta forse essere la corruzione del nomeGiorgio inteso, partendo dalla figura del Santo guerriero, come un gradasso, uno spaccone dall’andatura presuntuosa ed altalenante, tal quale l’ ubriaco.
24. Jí ‘ncasanno ‘e vàsule
Ad litteram: andar calpestando il basolato che è la pavimentazione stradale fatta con blocchi di pietra lavica; locuzione di valenza simile alla precedente con una piú marcata attenzione alla maniera di sciupare il tempo usato per percorrere improduttivamente la strada, bighellonando, ciondolando a dritta e a mancina senza meta o scopo; la locuzione è usata quando ci si voglia riferire, per redarguirli di non fare il proprio dovere o a svogliati studenti o ad accidiosi operai accusati di andar calpestando il basolato, invece di applicarsi alle loro incombenze.
Rammenterò che un tempo le strade erano appena appena sterrate e battute, poi furono pavimentate alla bell’ e meglio con i breccioni di fiume dando vita alle c.d. imbrecciate di cui Napoli fu ricca, si passò poi alla pavimentazione fatta con i grossi parallelepipedi di basalto, periodicamente scalpellato, per impedire che con la consunzione i blocchi risultassero lisci e pericolosamente scivolosi ; si pervenne infine alla pavimentazione con cubetti di basalto o pietra lavica detti in italiano sampietrini ed in napoletano cazzimbocchi ; detti cubetti sono affiancati l’un l’altro su di un letto di sabbia e negli interstizi che ne risultano vien fatta colare della pece bollente che raffreddandosi e rapprendendosi oltre a tener uniti i cubetti assicura una impermeabilità alla pavimentazione stradale.
25. Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
26. Jí p’aiuto e truvà sgarrupo.
Letteralmente: andare (in cerca) d’aiuto e trovare danno; locuzione usata per sottolineare tutte quelle strane situazioni nelle quali , in luogo dell’aiuto richiesto ed atteso si trova danno che naturalmente non fa che peggiorare la situazione per quale s’era chiesto un aiuto.
27. Jí pe cculo e truvà cazzo
Letteralmente: andare (in cerca) di un culo (da sodomizzare) ed imbattersi in un membro maschile (che ti sodomizzi) locuzione di significato simile alla precedente, ma di portata piú furbesca e becera usata per sottolineare una di quelle strane situazioni nelle quali , in luogo del cercato, richiesto ed atteso ci si imbatta in qualcosa che stravolga completamente la faccenda, peggiorandola irrimediabilmente.
28. Jí pe rrazia e truvà justizzia
Letteralmente: andare (in cerca) di una grazia, di un perdono o un’assoluzione(delle proprie cattive azioni) ed imbattersi invece nella giustizia (cioè in qualcosa o qualcuno che facendo giustizia,faccia pagare il malfatto o ne chieda ragione). Anche questa locuzione è di significato simile alle precedenti, ma è di portata piú seria e raffinata ed usata per sottolineare una di quelle sgradite situazioni nelle quali , in luogo dell’auspicato cercato, richiesto ed atteso perdono ci si imbatta in qualcuno che nelle vesti di giusto giudice ci commini una pena rifiutandoci la desiderata grazia.


29. Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
30. Jí truvanno chi ll’accide nell’espressione: va truvanno chi ll’accide
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
31. Jí truvanno guaje cu ‘a lanternella
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
32. Jí pe fiche e truvà cetrule
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quelle ricordate ai n.ri 26, 27 e 28 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
33. Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
34. Jí a ppuorto (o a pPuortece) pe ‘na rapesta.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato del porto o addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
35. Jí dinto a ll’ossa.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche e forse soprattutto con riferimento morale.
36. Jí ‘nfreva
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare un’agitazione tale da esser foriera di febbre.
37. Jí mettenno ‘a fune ‘e notte
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
38. Jí truvanno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
39. Jí truvanno scescé
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
E qui faccio punto.
Raffaele Bracale

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