mercoledì 29 giugno 2011

VARIE 1288

1- 'A MALORA 'E CHIAJA.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi canteri (vasi di comodo) nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
malora o mal’ora= cattiva ora, ora ingrata in quanto dedicata ad un’operazione necessaria ma fastidiosa e lercia; malora o mal’ora: neologismo formato con il sostantivo femm. ora agglutinato o accostato attraverso un’elisione, con/all’aggettivo qualificativo mala;
ora s.vo femm. unità di tempo pari alla ventiquattresima parte del giorno solare medio, uguale a 60 minuti primi, ossia 3600 secondi; lo spazio di tempo di tale durata con etimo dal lat. hora(m) che è dal gr. hóra con eliminazione della aspirata iniziale, intesa pleonastica ed inutile;
chiaja la voce a margine risulta intraducibile in quanto voce/nome usata per indicare una strada ed un quartiere della città di Napoli, strada e quartiere ubicati nella zona centrale e chic della città, strada che però una volta, prima di successive colmature di zone adiacenti, lambiva il mare, risultando essere una spiaggia in lieve declivo rispetto al mare; giacché in greco la spiaggia à il nome di plaghía tale nome fu assegnata alla strada e poi alla zona che lambiva il mare diventando nella parlata partenopea Chiaja con normale passaggio di pli→chi e caduta del digamma gutturale intervocalico gh sostituito dalla j conglobante la tonica í; rammenterò che in napoletano esiste un’altra voce chiaja, omofona ed omografa di quella a margine, ma di significato ed etimo diversi; questa seconda chiaja vale piaga, dolore tormentoso con etimo dall’acc. lat. plaga(m) deverbale di plangere= battersi il petto.

2 - FARNE UNA CCHIÚ 'E CATUCCIO.
Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
3 - ESSERE PASSATA 'E CÒVETA O 'E CUTTURA.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè molle o bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo lessar troppo o quasi bruciare; delle due evenienze (lessar troppo o quasi bruciare), comunque, sia per i cibi che per la donna, quella da scartar certamente è l’eccessivo lessare: un cibo molle (e parlo soprattutto dei maccheroni ( che devono esser lessati vierde vierde= verdissimi, come se si trattasse di frutti ancora un po’ acerbi, oppure teniente teniente= che reggon bene la cottura))è senza dubbio non accettabile, al segno che di una pasta troppo cotta a Napoli s’usa dire È ‘na colla p’’e manifeste… Sconsigliabile, ma comunque preferibile una pietanza arsicciata ( a Napoli arruscata ( part. pass. femm. dell’infinito arruscà dal basso lat. *ad-brusicare→ad- vruscare→avvruscare→arruscà)
passata =passata voce verbale (part. pass. femm. anche con valore aggettivale) dell’infinito passà= passare, andare oltre etc. con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo;
còveta = raccolta forma aferizzata di recòveta deverbale di recogliere che è da un basso latino ri (con valore iterativo) + colligere (comp. di cum 'con' e legere ‘scegliere); rammenterò a margine che in napoletano nel tardo ‘800 si storpiò la voce recòveta ricavandone il termine recotta/ricotta nell’espressione fà ‘a ricotta= sfruttare con riferimento alla attività dei lenoni, sfruttatori delle meretrici, i quali furono detti ricuttari ed ovviamente non si trattava di produttori o venditori di ricotte (il gustoso latticino che si ottiene facendo bollire il siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggi), ma appunto degli sfruttatori delle prostitute, dediti tra le varie attività truffaldine(furto, rapina etc.) a nche a vessatorie raccolte (recòvete) di fondi tra bottegai e popolo minuto, fondi usati per pagar le parcelle degli avvocati chiamati a difendere ladri, borseggiatori, rapinatori finiti nelle mani della giustizia e sottoposti a processo; la voce recòveta fu storpiata in recotta con quel che ne segue;
cuttura= cottura con etimo dal lat. coctura(m), deverbale di cōquere 'cuocere' con tipica chiusura della sillaba d’avvio cō→cu ed assimilazione regressiva ct→tt.

4 - QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
quanno = quando, nel tempo in cui, nel momento in cui (con valore temporale) ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale) mentre (con valore avversativo): avverbio e cong. di tempo dal lat. quando con assimilazione progressiva nd→nn;
diavulo/riavulo = diavolo nell'ebraismo e nel cristianesimo, potenza che guida le forze del male e si identifica con ; Lucifero, il capo degli angeli che si ribellarono a Dio, poi divenuto Satana, principe delle tenebre; per estens., ognuno degli altri angeli ribelli e la forza del male che essi incarnano | nella fantasia popolare è concepito per lo piú come un mostro di forme umane con corna, ali, coda e altri attributi animaleschi, grande tentatore, amante di ogni disordine ed eccesso; va da sé che con il termine a lato nel proverbio in epigrafe, non si intende esclusivamente e/o segnatamente il demoni, ma estensivamente qualsivoglia cattivo soggetto, notoriamente pessimo individuo, che qualora ci blandisse sostanzierebbe ciò che il proverbio paventa; l’etimo di diavulo/riavulo è dal lat. tardo diabolu(m), che è dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. s/atan 'contraddittore; la voce napoletana mostra la tipica alternanza b/v della lingua partenopea (vedi es.: barca= varca- bove=voio etc.) e nella variante il rotacismo mediterraneo d/r;
accarezza= carezza voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito accarezzà= carezzare, fare carezze, lisciare con la mano, per lo piú in segno d'affetto; per estensione sfiorare leggermente, detto dell'acqua e del vento,e nel caso in epigrafe: blandire etimologicamente il verbo risulta essere un denominale di un ad + carezza(derivato di caro dal lat. carum) dove il rafforzativo ad diventa ac per assimilazione regressiva;
ssigno= segno, indice, fatto da cui si può dedurre qualcosa; indizio con etimo dal lat. signu(m)= segno, marchio;
vo’/vòle=vuole voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulére/vulé= volere, desiderare, appetire con etimo dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui con cambio di declinazione e chiusura della o intesa ō→u nella sillaba d’avvio;
anema= anima, spirito, principio vitale dell’essere con etimo diretto dal gr. ánemos→ànemo(s)→anema; con cambio di genere sulla scia del lat. anima(m).
5 - È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO E 'E MACCARUNE 'A COPPA.
Letteralmente: è finito il cacio di sotto ed i maccheroni al di sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
ghiuto= andato voce verbale (part. passato masch.) dell’infinito jí/ ghí = andare con etimo dal latino ire; la forma geminata gghiuto dell’epigrafe nasce dal fatto che preceduto da una vocale o, e, a , qui e (è del verbo essere) comporta la geminazione della consonante d’avvio, come ad es. altrove ‘o mmagnà (il mangiare), ‘e ccasce (le casse) jí a ffemmene(andare a donne);
ccaso/caso= cacio, formaggio, latte di vacca, pecora o capra cagliato, salato e fatto seccare in forma; con etimo dal lat. case(um);
‘a sotto = di sotto/ letteralmente da sotto locuzione avverbiale di luogo formata dalla preposizione ‘a (=da che è dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.;dal lat. de ad nei valori di, come in questo caso, moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.) e dall’avverbio/preposiz. impropria sotto(= sotto, in luogo o posizione inferiore) che è dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto'
maccarune/i plurale metafonetico del singolare maccarone = generica pasta alimentare, piú nota con varie specifiche denominazioni secondo il formato di détta pasta: lunga o corta, bucata e non; etimologicamente il termine maccarone deriva,secondo alcuni, dal greco makaría= piatto di fave e fiocchi di avena, o da makariòs= beati o pasto funebre; a mio avviso, lasciando da parte fave e fiocchi d’avena di cui è quasi impossibile individuare il collegamento semantico con i maccheroni, e tralasciando altresí i pasti funebri o i beati, a mio avviso – dicevo - è molto piú convincente l’etimologia che chiama in causa il tardo latino maccare = impastare e comprimere (rammenterò infatti che originariamente i maccaruni latini furono essenzialmente della pasta casalinga (gnocchi) ricavata dall’impasto di farina o semola di graminacee, sale ed acqua; tale impasto veniva schiacciato (maccatus) e tagliato in pezzetti poi compressi tal quale i greco - napoletani strangulaprievete (vedi alibi).
‘a coppa = al di sopra loc. avv. formata come sopra ‘a sotto (vedi) dalla prep. sempl. da + l’avv./prep. impropia coppa (altrove ‘ncoppa = sopra) con etimo dal basso latino cuppa= nuca posta sopra il capo.

6 - DOPPO MUORTO, BUZZARATO!
Letteralmente: dopo morto, buggerato!; dopo aver subíto la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura, al toscano: il danno e la beffa; o all’altra icastica espressione napoletana: curnuto e mazzïato= becco e percosso L’ espressione in epigrafe pare fosse stata usata per la prima volta nel corposo linguaggio partenopeo da una guardia nobile napoletana (di cui non è rammentato il nome) guardia che, nelle sacre stanze, assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII (al secolo, principe Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli (Roma, 2 marzo 1876 –† Castel Gandolfo, 9 ottobre 1958), è stato il 260° papa della Chiesa cattolica detto il "Pastore Angelico") con il previsto martelletto d'argento, percuotimento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere veramente morto.
doppo/ roppo=dopo, poi, oltre, appresso avv. di tempo e preposizione impropria di luogo con derivazione dal latino de+post con assimilazione regressiva e in o eliminazione delle consonanti finali intese pletoriche e raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva p implicata
muorto sost. ed aggettivo = morto di per sé part. pass. poi sostantivato ed aggettivato dell’infinito murí derivato del lat. volg. morire per il class. mori;
buzzarato = buggerato,imbrogliato, ingannato, fregato fino a sodomizzato di per sé part. pass. poi aggettivato dell’infinito buzzarà derivato quale denominale del tardo latino bugiarus→buggiarus per Bulgarus 'bulgaro'(normale il passaggio di ggia a zza(vedi alibi allaccià= allazzà,treccia= trezza); nel medioevo, dopo che questo popolo ebbe abbracciato l'eresia patarina (A Milano ricco e fiorente capoluogo lombardo, intorno al 1030 la protesta religiosa dei Patari (cioè degli straccioni) espresse esigenze di rinnovamento morale. Il potere era detenuto in città dall’arcivescovo: l’autorità arcivescovile si estendeva su ampie diocesi in tutta la Lombardia. Era l’imperatore a dare l’”investitura” all’arcivescovo e ne garantiva il potere. Ma lo stabilirsi di una collaborazione tra i maggiori feudatari laici e l’arcivescovo, intesa anche a frenare la crescente importanza politica dei feudatari minori (“valvassori”), determina un rovesciamento delle alleanze tradizionali. L’imperatore vede sfuggire al suo controllo tanto la grande feudalità laica, quanto quella ecclesiastica. Entrambe sono ora alleate contro il potere imperiale e contro la crescente ostilità della feudalità minore; cosí nel 1037 l’imperatore emanò la Costituzione dei feudi che sanciva l’ereditarietà dei feudi minori, in mano ai valvassori.
A Milano il generale fermento di rinnovamento religioso che pervade la cristianità occidentale si connetté strettamente con la crescita politica del comune cittadino. Alla morte dell’arcivescovo Ariberto la città insorse contro il successore designato dall’imperatore Enrico III e gradito all’aristocrazia nobiliare. La protesta politica antifeudale dei valvassori e del popolo fu insieme protesta religiosa: i chierici Anselmo da Baggio, Landolfo e Arialdo furono i portavoce di un movimento di riforma della chiesa cittadina che riaffermò le esigenze comuni a larga parte della cristianità italiana ed europea: lotta contro il lusso e l’immoralità del clero, contro il concubinaggio dei sacerdoti, contro le ingerenze del potere laico nelle questioni ecclesiastiche: queste furono le parole d’ordine del “partito della riforma”.
Le tensioni milanesi rifletterono implicitamente la prova di forza ormai in corso tra Papato e Impero sul problema delle investiture. Il tipo di obiettivi crearono attorno ai riformatori un vasto sèguito popolare, che si trasformò in sommossa violenta in occasione della morte di Enrico III (1056):e furono confiscati i beni del clero indegno e simoniaco. Per il clero milanese, la Pataria non passò invano: i fenomeni scandalosi della simonia, del concubinaggio, dell’asservimento al potere laico furono ampiamente ridotti. Meno influente nella gestione politica della città, il clero ambrosiano fu concorde con la politica anti-imperiale del papato. Nel momento dello scontro con Federico Barbarossa, anche il clero partecipò compatto alla disperata difesa della città.
Di fronte all’ostilità del clero locale molti gruppi di predicatori accettarono o di far parte degli ordini monastici esistenti, o di fondare nuovi ordini religiosi. Per molti monaci fu un’amara sconfitta. Essi dovettero ritornare alla vita monacale, nell’isolamento da cui si erano staccati per intraprendere la predicazione itinerante; di fronte al divieto imposto dalle autorità ecclesiastiche alla libera attività evangelica, l’alternativa che si presentò al predicatore-riformatore fu radicale: o lasciarsi integrare in una struttura stabile, controllabile dal clero locale, con una regola approvata dalle autorità ecclesiastiche; oppure affrontare la condanna della propria comunità e delle proprie idee come eretiche.L’eresia si manifestò, prima ancora che come divergenza nell’interpretazione delle sacre scritture,come insubordinazione alle gerarchie ecclesiastiche. Il nome patari significò anche 'eretici' e quindi (forse per l'identità della pena) 'sodomiti.
curnuto= cornuto, becco, tradito agg. e sost. masch. con etimo dal basso lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'; tipica la chiusura della sillaba d’avvio dove ō diventa u;
mazzïato = bastonato, percosso voce verbale (part. pass. masch. aggettivato) dell’infinito mazzïà .= bastonare, percuotere etimologicamente denominale del tardo latino mattea= mazza, verga, bastone;
7 - TROPPI VALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone che, volendo comandare, o quanto meno affermare la loro presenza, esprimono un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
troppe= troppi, indica quantità o numero eccessivo: agg. indefinito, plur. di troppo che è dal francone throp 'mucchio, branco, quantità'; cfr. truppa;
valle/galle = galli sost. masch. plurale di vallo/gallo uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; con etimo dal lat. gallu(m) tipica l’alternanza v/g e v/c (vedi alibi volpe/golpe, vunnella/gunnella, vongolacantà = cantare, e qui per traslato esprimersi, dare un parere voce verbale infinito; cantà è da un lat. volgare cantare, frequentativo di canere 'cantare';
schiara=albeggia voce verbale (3° pers. sg. ind. pres.) dell’infinito schiarà= rischiarare e dunque legato alla voce giorno) albeggiare etimologicamente denominale dell’acc. lat. claru(m) con tipica prostesi di una s intensiva;
juorno = giorno, periodo di tempo impiegato dalla Terra a compiere una rotazione intorno al proprio asse | nell'uso pratico, intervallo di tempo di ventiquattro ore che va da una mezzanotte a quella successiva; anche, periodo di ventiquattro ore in genere; con etimo dal lat. tardo (tempus) diurnu(m) '(tempo) del giorno', deriv. di dies 'giorno'.

8 - NUN C'È PRERECA SENZA SANT' AUSTINO.
Letteralmente: Non v'è predica senza (che non si citi) sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino,( Agostino d'Ippona, traduzione italiana del latino (Aurelius) Augustinus Hipponensis (Tagaste, Numidia, 13 novembre 354 -† Ippona, Numidia, 28 agosto 430) fu un filosofo, vescovo e teologo; Padre, Dottore e Santo della Chiesa Cattolica, è conosciuto semplicemente come Sant'Agostino. Il nome Aurelio gli è stato dato per errore soltanto nel medio evo. La sua opera piú rinomata sono le "Confessiones" ("Confessioni"). A Lui si rifà l'Ordine di Sant'Agostino, chiamato degli Agostiniani)vescovo di Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti di questo santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa (soprattutto ingiustamente) nelle piú varie occasioni, accusato di fatti che non à compiuto, di cose non dette, di opinioni non espresse etc. e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
prèreca= predica, sermone ed estensivamente ogni cosa detta pubblicamente, annunciata, illustrata etc. sostantivo deverbale dell’infinito prérecà= predicare, annunciare, dire pubblicamente e palesemente con etimo dal lat. volg. *predicare per il class. praedicare con tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r;

9 - 'A MALANOVA LL'ACCUMPAGNA 'O VIENTO.
Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, nella convinzione che sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento.
malanova= cattiva notizia; neologismo formato con il sostantivo femm. nova = novità, notizia recente agglutinato, con l’aggettivo qualificativo posto in posizione protetica mala;
nova = novità, notizia nuova etimologicamente è dal lat. nova(m);
mala= cattiva, brutta, triste e trista etimologicamente è dal lat. mala(m);
lla/la= la pron. pers. f. di terza pers. sing. [forma complementare atona (cosí come in italiano) di ella, essa]
si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, sia in posizione enclitica sia proclitica; in posizione proclitica si può elidere davanti a vocale purché non generi ambiguità, con etimo dal Lat. (il)la(m), f. di ille 'quello;
accumpagna= accompagna voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito accumpagnà= accompagnare seguire per amicizia, cortesia o protezione; scortare; denominale di cumpagno con prostesi rafforzativa ad→ac; cumpagno è dal lat. mediev. companio nom., comp. di cum 'con' e un deriv. di panis 'pane'; propr. 'chi mangia il pane con un altro';
viento =vento sost. neutro che è dal lat. ventu(m) con dittongazione della sillaba d’avvio vĕn→vien.

10 - E BRAVO Ô FESSO!
Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre in senso antifrastico quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende, da saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria, pretesa valentia nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o contingenti ragioni occasionali. Per meglio chiarire, mi spiego con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia perciò difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco ( il fesso dell’epigrafe) che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è, accompagnata magari da un ironico applauso, quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che àifattotu!
bravo = bravo, dotato di bravura , che è abile ed esperto in ciò che fa, spec. nell'esercizio di un mestiere, di una professione o negli studi; valente con etimo forse dal basso lat., pravu(m) 'pravo, malvagio', usato talora anche con significato positivo, se non da una radice europea bhrag= rompere, spezzare che à un derivato nel gotico bràkvus/blagvus= colui capace di rompere, spezzare etc.
fesso= fesso, sciocco, inetto, stupido ma anche(detto di oggetto) incrinato ; agg. e sost. masch. con etimo da fissus part. pass. del verbo lat. findere= spaccare, aprire,fendere.

Raffaele Bracale

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