mercoledì 31 ottobre 2012

VARIE 2110

1.Canta ca te faje canonico! Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli. 2. Armammoce e gghiate. Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati. 3. A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie. Letteralmente: A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi. 4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone. Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare. 5.Tené 'a sàraca dint' â sacca Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna. 6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine... Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana. 7.Ogne anno Ddio 'o cumanna Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime. 8. Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco. Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío attestato anche come vulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío/vulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío/vulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (a)rraggia. 9.Sciorta e mole spontano 'na vota sola. Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone 10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata. Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni si vedano la strada spianata laddove invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico. 11.Attaccarse ê felínie. Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele. 12. Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno. Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re. 13. 'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie. Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie. 14. Rompere 'o nciarmo. Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La parola nciarmo= magia, fascino, incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen ma da un francese n + charme 15.'Ngrifarse comme a 'nu gallerinio. Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato. brak

VARIE 2109

1.Canta ca te faje canonico! Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli. 2. Armammoce e gghiate. Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati. 3. A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie. Letteralmente: A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi. 4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone. Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare. 5.Tené 'a sàraca dint' â sacca Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna. 6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine... Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana. 7.Ogne anno Ddio 'o cumanna Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime. 8. Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco. Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío attestato anche come vulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío/vulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío/vulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (a)rraggia. 9.Sciorta e mole spontano 'na vota sola. Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone 10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata. Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni si vedano la strada spianata laddove invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico. 11.Attaccarse ê felínie. Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele. 12. Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno. Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re. 13. 'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie. Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie. 14. Rompere 'o nciarmo. Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La parola nciarmo= magia, fascino, incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen ma da un francese n + charme 15.'Ngrifarse comme a 'nu gallerinio. Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato. brak

MA ADDÓ STAMMO? etc.

MA ADDÓ STAMMO? Â CANTINA ‘E VASCIO PUORTO? ‘O RUTTO, ‘O PÍRETO E ‘O SANGO ‘E CHI T’È MMUORTO?! Ma dove mai ci troviamo? Nella cantina (ubicata) giú al porto? (tra) eruttazioni, peti e bestemmie? È locuzione usata per indicare sarcasticamente che ci si trovi in ambienti o tra persone decisamente plebee che, come gli avventori di quella tal bettola rammentata ,(forse quella taverna del Cerriglio, alibi ricordata) si danno a manifestazioni eccessivamente disdicevoli e scostumate quali: eruttazioni, peti e bestemmie; addó = cong. ed avverbio di luogo che usato genericamente vale dove oppure mentre, invece (con valore avversativo) usato nelle interrogative vale dove, in quale luogo? usato nelle esclamative vale proprio là dove! ; etimologicamente da un latino de ubi con successivo rafforzamento popolare attraverso un ad del de d’avvio; stammo =siamo,stiamo,troviamo: voce verbale (1° pers. plur. indicativo presente) dell’infinito stà/stare dal latino stare; cantina = bettola, taverna, mescita di vini, infima osteria; etimologicamente tardo latino canthu(m) =angolo appartato che è dal gr. kanthós 'angolo dell'occhio' con l’aggiunta del suffisso diminutivo inus/ina; Puorto = voce toponomastica indicante tutta la zona adiacente il luogo di attracco e partenza di tutti i grossi natanti; la voce comune puorto = porto, luogo sulla riva del mare, di un lago o di un fiume che, per configurazione naturale o per le opere artificiali costruite dall'uomo, può dare sicuro ricovero ai navigli; etimologicamente dal lat. portu(m), propr. 'entrata, passaggio', della stessa radice di porta 'porta'con dittongazione popolare nella sillaba d’avvio; rutto = eruttazione, aria emessa bruscamente e rumorosamente dalla bocca con etimo dal lat. ructu(m) deverbale del basso latino ructare (frequentativo di erugere 'gettare fuori'), = eruttare, emettere rumorosamente; va da sé che il sostantivo rutto qui a margine, non va confuso con participio passato aggettivato rutto = rotto, frantumato, spezzato che è dal verbo rumpere= rompere; pirete plurale di pireto= peto, rumorosa emissione di gas intestinale; etimologicamente dal latino peditu(m) con tipica rotacizzazione mediterranea della D→R; ‘o sango ‘e chi t’è mmuorto! letteralmente: il sangue di chi ti è morto; vibrante bestemmia offesa che , con piú cattiveria ed acrimonia dell’omologa: ‘e muorte ‘e chi t’è mmuorto (i morti di chi ti è morto id est: gli antenati dei tuoi morti(quelli che nel dialetto romanesco sono: li mortacci tua) chiama in causa, per maledirlo, addirittura il succo vitale (il sangue!) dei defunti di colui contro cui si lancia l’offensiva bestemmia; talvolta, per peggiorarla, l’offesa suona ‘o sango ‘nfamo ‘e chi t’è mmuorto! o anche ‘o sango sperzo ‘e chi t’è mmuorto con l’aggiunta o dell’aggettivo ‘nfamo che è: infame, che à pessima fama, che merita il pubblico disprezzo con derivazione dal latino: infame(m), comp. di in distrattivo ed un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr.’senza buon nome’, 'che à cattiva reputazione' oppure dell’aggettivo sperzo che è: perduto, disseminato in giro, non piú reperibile, smarrito, deverbale del latino perdere con la protesi di una s durativa o intensiva, nel senso che chi avesse disperso in giro , anche metaforicamente, il proprio sangue, facendolo quasi divenir sangue perduto, irreperibile, smarrito, meriterebbe, tal quale l’infame di cui sopra,la non considerazione, anzi il disprezzo pubblico; sango = sangue etimologicamente dal latino sangue(m) da un antico nom.sanguen collaterale del classico sanguine(m) di sanguis, attraverso un metaplasmo popolare sangu(m)→sango; muorto = voce verbale (part. pass. maschile)sostantivato o aggettivato dell’infinito murí che etimologicamente è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; tipica, come popolare, la dittongazione uo dell’originaria o. Raffaele Bracale

IL VERBO NAPOLETANO ‘MPARÀ/MPARARE

IL VERBO NAPOLETANO ‘MPARÀ/MPARARE Questa volta prendo spunto da una richiesta fattami da un caro amico; F.F.,del quale per problemi di risevatezza posso solo indicare le iniziali di nome e cognome, amico facente parte della Ass.ne Ex Alunni del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli, che è uno dei miei abituali ventiquattro lettori e che spesso si sofferma a leggere le mie paginette sparse qua e la; dicevo che prendo spunto da una sua richiesta relativa ad una particolarità relativa al verbo napoletano in epigrafe. Affronto súbito l’argomento dicendo che il verbo napoletano in epigrafe è sí un verbo strano che vale sia insegnare che apprendere: ad es.: t’aggiu ‘mparato ‘sta cosa vale ti ò insegnato ciò mentre m’aggiu ‘mparato ca nun t’aggio’a credere vale ò appreso che non devo prestar fede a ciò che dici! Entriamo un po’ nel merito dicendo che ‘mparà/’mparare è voce verbale dell’infinito;di per sé il verbo napoletano ‘mparare (con derivazione dal latino volg. imparare, comp. di in→’n ma’m davanti alla esplosiva consonante occlusiva bilabiale sorda(p) o a quella sonora (b) illativo e parare 'procurare'; propr. procurarsi cognizioni,) varrebbe il toscano imparare, ma spesso – come ad es. nel caso di una notissima poesia di Raffaele Viviani: “Guaglione” - esso vale: insegnare, rendere edotto; per cui l’ espressione usata dal poeta stabiese: tu, pate ll’hê ‘a ‘mparà sta per: tu, padre, devi insegnargli (a vivere, a comportarsi nella maniera piú giusta etc.). Esaminando da presso questa stramberia, reputo che probabilmente il verbo toscano insegnare fosse totalmente sconosciuto nella parlata meridionale sia sulla penna dei letterati che sulla bocca del popolino e si fosse preferito attribuirne il significato al già noto imparare (‘mparà) piuttosto che tentare di coniare un nuovo verbo marcandolo ad es. sul lat. tardo insignare 'imprimere un segno (nella mente)', comp. di in- ed un deriv. di signum 'segno' come era accaduto per l’italiano insegnare;in effetti nel napoletano di per sé non esiste,né esistette, né si usò o usa un generico vebo insegnare che valga:fare apprendere con metodo, teorico o pratico, una disciplina o un'arte e si preferisce usare di volta in volta accanto al generico ‘mparà che à tutta l’aria quasi d’essere un ossimoro nei significati opposti di insegnare ed apprendere si preferisce usare di volta in volta verbi che valgono sí insegnare ma che ànno particolari nuances e sfumature; e tali verbi sono: 1)aducà= formare con l'insegnamento e con l'esempio il carattere e la personalità di...qualcuno ( adattamento del lat. educare, intensivo di educere 'trarre fuori, allevare', comp. di ex- 'fuori' e ducere 'trarre'), 2)allezziunà = impartire una lezione sia in senso reale che in senso figurato (voce verbale denominale di lectione(m)con protesi del rafforzativo ad→al); 3) catechizzà = indurre alla conversione ad un’idea, ad un principio, ad un comportamento; istruire nel catechismo (estens.) adoperarsi per convincere; indottrinare.( dal lat. eccl. catechizare, che è dal gr. tardo katìchízein, deriv. di katìchêin 'istruire'; 4)mmezzià = stimolare, sollecitare, incitare al male (da un latino volgare *in (illativo) +malitiare (denominale di malitia) nel senso di spingere ad agire deliberatamente contro l'onestà, la virtù, la giustizia etc. con consueta semplificazione dell’ in d’avvio che aferizzato si assimila alla successiva m dando ‘mm; 5)‘nzajà =istigare, sobillare (dallo spagnolo ensayar di pari significato). E con questo penso d’avere esaurito l’argomento e d’avere contentato l’amico F.F. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est. Raffaele Bracale

VARIE 2108

1.JÍ TRUVANNO CRISTO ‘INT’ Ê LUPINE o meglio JÍ TRUVANNO CRISTO DINTO A LA PINA ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca. Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo. 2.JÍ TRUVANNO CHI LL’ACCIDE nell’espressione: VA TRUVANNO CHI LL’ACCIDE Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi. 3.JÍ TRUVANNO GUAJE CU ‘A LANTERNELLA Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli. 4.JÍ PE FFICHE E TRUVÀ CETRÓLE Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata al num. 361 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico. 5. JÍ Ô BBATTESEMO SENZA ‘O CRIATURO Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione. 6.JÍ A PPUORTO (O A PUORTECE) PE ‘NA RAPESTA. Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa. 7.JÍ DINT’ A LL’OSSA. Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin dentro le ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali. 8. JÍ ‘NFREVA Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre. 9.JÍ METTENNO ‘A FUNE ‘E NOTTE Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usava pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domande retoriche:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?),oppure ma che te cride ca vaco mettenno fune ‘e notte? (pensi forse ch’io vada tendendo funi di notte?) per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue esose richieste; perciò règolati e mòderale ! 10.JÍ TRUVANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE. Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici. 11.JÍ TRUVANNO SCESCÉ Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare), ma non ci sono certezze circa il suo primo utilizzo nel senso indicato. Si può però tranquillamente ipotizzare che durante la dominazione murattiana, se non durante quella angioina, un milite francese si fermasse a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usasse una frase analoga contenente l’infinito: chercher” Il popolano che con ogni probabilità non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé). 12.LL’URDEMU LAMPIONE ‘E FOREROTTA. ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo. 13.LL’OMMO ‘NCOPP’Â SALÈRA Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre. 14.LLOCO TE VOGLIO, ZUOPPO, A ‘STA SAGLIUTA Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre. 15.LEVAMMO ‘ACCASIONE Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli. 16. LEVAMMO ‘A TAVERNA ‘A NANTE A CCARNEVALE. Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata ad esempio in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe, usata in occasioni analoghe quando occorresse sottrarre qualcosa ad un utilizzo sfrenato ed incontrollato. 17. LEVÀTE ‘O BBRITO. Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi. 18.LEVÀ ‘A FRASCA ‘A MIEZO Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673) 19. LILLO, LÉLLA Ô PERE ‘E SANT’ ANNA. Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede, ma restarono ugualmente soli. L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata; tale nobiluomo fu discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella privata,ma nell’occasione della festa aperta ai visitatoti; lareliquia era conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come una autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona 20. SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E SAN GIUSEPPE Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante. La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi (1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque, in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare e l’infastidire. Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON. Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che - correttamente! - l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto. 21. LEVARSE ‘A MIEZ’Ê BBOTTE Ad litteram: togliersi di mezzo ai, sottrarsi al pericolo dei fuochi artificiali. Id est: Defilarsi, sottrarsi ai rischi e/o pericoli e farlo vilmente magari in danno altrui. Da notare che con la voce bbotte nell’espressione in esame si intendono i fuochi d’artificio e non si intendono le percosse,(come improvvidamente ritiene qualcuno dei sedicenti addetti ai lavori del napoletano, ma colpevolmente a digiuno dell’autentica parlata napoletana nella quale ‘e bbotte non sono le percosse,ma i fuochi artificiali; è nell’italiano, non nel napoletano che le botte son sinonimo di percosse, e l’espressione in esame è napoletana non italiana e chi opera la confusione tra le botte italiane e ‘e bbotte napoletane è un asino calzato e vestito e non si può arrogare il diritto di sedere tra gli addetti ai lavori del napoletano! brak

VARIE 2107

1. ‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO TIRITEPPETO ad litteram: la cordicella corta e la trottolina scentrata o ballonzolante. Pi ú esattamente a Napoli s’usa dire: s’è aunita ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppeto, ovvero: si sono uniti, in un fallimentare connubio, una cordicella troppo corta per poter imprimere con forza la necessaria spinta al movimento rotatorio dello strummolo a sua volta scentrato o con la punta malamente inclinata tale da conferire un movimento non esatto per cui la trottolina s’inclina e si muove ballonzolando. Pacifica la etimologia della voce strummolo che indica lo strumento di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva strummus addizionato poi del suffisso diminutivo olus→olo (per cui strummus+olus→strummolus→strummolo) con il suo esatto significato di trottola. la voce tiriteppeto, talvolta usata, ma erroneamente, anche come tiriteppola è voce onomatopeica riproducente appunto il rumore prodotto dalla trottolina nel suo incerto movimento inclinato e ballonzolante. Rammento che la voce strummolo s.vo m.le à due plurali: l’uno maschile: ‘e strummole = le trottoline e l’altro f.le: ‘e strommole dove il termine, con evidente traslato, le cui ragioni illustrerò a seguire, indica le fandonie, le sesquipedali sciocchezze,le panzane,le frottole gratuite; semanticamente la faccenda si spiega con il fatto che di per sé lo strummolo = trottolina è un semplice giocattolino con cui trastullarsi; alla stessa maniera le frottole, panzane, fandonie altro non sono che una sorta di innocente mezzo dilettovole con cui prendersi giuoco di qualcuno; ugualmente semplice da spiegarsi la differenza di morfologia tra il maschile strummole ed il f.le strommole, rammentando il fatto che nel napoletano un oggetto (o cosa che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; va da sé che essendo la fandonia certamente piú grossa della trottolina necessitasse d’un genere femminile (per cui ‘e strommole = le sciocchezze, fandonie, frottole etc. da non confondersi con il maschile ‘e strummole= le trottoline). 2. AIZARSE ‘NU CUMMÒ ad litteram: caricarsi addosso un canterano; detto di chi abbia impalmato una donna anziana, non avvenente ed, a maggior disdoro, priva di congrua dote. Si ritiene che chi abbia fatto un simile matrimonio, abbia compiuto uno sforzo simile a quello di quei facchini addetti a trasporti, facchini che sollevavano e si ponevano sulle spalle pesanti cassettoni di legno massello, sormontati da ponderose lastre di marmo. cummò s.vo m.le = canterano,cassettone dal fr. commo(de) 3. Ê CANE DICENNO letteralmente: dicendo ai cani locuzione pronunciata magari accompagnata da un gesto scaramantico con la quale si vuol significare: non sia mai!, accada ai cani ciò che stiamo dicendo! 4. A MMORTE ‘E SUBBETO. Ad litteram: a morte subitanea id est: repentinamente, senza por tempo in mezzo; detto soprattutto di ordini da eseguirsi, come indicato in epigrafe, con la stessa immediatezza di una morte repentina. 5. AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE. Ad litteram: Ò visto la morte con gli occhi Con questa tautologica locuzione si esprime chi voglia portare a conoscenza degli altri di aver corso un serio, grave pericolo tale d’averlo portato ad un passo dalla morte, vista da molto vicino e di esserne venuto fortunatamente fuori, tanto da poterlo raccontare. brak

martedì 30 ottobre 2012

PATANE Â PARULANA

PATANE Â PARULANA Chello ca ce vo’ pe sseje perzone 600 gramme ‘e patane vecchie, 150 gramme ‘e pancetta affummecata tagliata a ffarinule ‘e ½ cm. ‘e ‘squina, ‘na cepolla ndurata ‘e Muntoro ammunnata e ntretata, ‘nu cerasiello pircante (piccante)lavato, asciuttato e grabbato (inciso) p’ ‘o lluongo, ‘nu bicchiere d’uoglio ‘auliva dunciglio, ‘na tazzulella abbunnante d’acito ‘e vino janco sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco q.n.s. ‘nu tuppeto ‘e prutusino lavato, asciuttato e ntretato. Comme se fa Ammunnà ‘e ppatane, lavarle, asciuttarle e tagliarle a fellocce tonne doppie ½ cm..Ricà ll’uoglio dinto a ‘na prupurziunata tiella, agnadí ‘na cepolla ndurata ‘e Muntoro ammunnata e ntretata,‘nu cerasiello pircante (piccante)lavato, asciuttato e grabbato (inciso) p’ ‘o lluongo,e a ffuoco allero farle piglià culore; agnadí ‘e ffarinule ‘e pancetta affummecate e farle suassà pe cinche minute; appena è ppronta agnadí ‘e ffellocce ‘e patane e lassà cocere pe ddiece minute avutannole dellicatamente ògne ttanto; quanno so’ ccotte accunciarle ‘e sale e ppepe e ciurrarle (spruzzarle) cu ll’acito. Lassà svapurà, stutà ‘o ffuoco e derrammà cu ‘o tuppeto ‘e prutusino lavato, asciuttato e ntretato, ammiscà e serví. Bbona salute! R.Bracale

CAPUNATA

CAPUNATA Chello ca ce vo’ pe sseje perzone: ‘nu kilò ‘e mulignane viulette napulitane, spuntate, lavate e tagliate a ffarinule ‘e duje centimetre ‘e ‘squina, ddoje llomme d’accio ammunnate, rattate e lavate, ddoje cepolle ndurate ‘e Muntoro ammunnate e ntretate a fellocce, miezu kilò (piso lisso) ‘e pummarole pelate, ‘nu bicchiere e mmiezo d’uoglio ‘auliva dunciglio, 150 gramme d’aulive tonne ‘e Spagna desciussate, 50 gramme ‘e chiapparielle ‘e Pantelleria levate ‘e sale e sciacquate, 50gramme ‘e pignuole arruscate ô tiesto, 50 gramme d’uva passa ammullata e spremmuta, ‘nu cucchiarino ‘e zuccaro , ‘na tazzulella d'acito, ‘nu tuppeto ‘e vasenicola lavato, asciuttato e ntretato a mmano, sale duppio duje cucchiare e ‘na presa, sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco q.n.s. comme se fa Lavà e asciuttà ‘e mulignane levanno ‘e streppune e ‘e ddoje ponte; tagliarle a felle doppie dduje centimetre e sestimarle a ccuscie (derrammate ognuno ‘e sale duppio) dinto a ‘nu scolapasta pe ‘na mez’ora. Scularle, sciacquarle sotto a ‘nu strèpeto d’acqua fredda, spremmerle a tagliarle a ffarinule ‘e duje centimetre ‘e ‘squina. Sciacquarle ancòra. Dinto a ‘na prupurziunata tiella ricà miezu bicchiere d’uoglio, farle piglia calore a ffuoco miccio e comme addeventa vullente frijerve ‘e ffarinule ‘e mulignane, mantenennole ‘ncaudo.Fraditanto ammunnà, rattà e lavà ‘e ddoje llomme d’accio scuttannole pe cinche minute dinto a dduje litre d’ acqua vullente salata (presa ‘e sale duppio); sculà e taglià a piezze ‘e tre centimetre ‘sti llomme d’accio, e metterle dint’a ‘na tiella cu miezu bicchiere d’uoglio e a ffuoco allero farle appassulià per cinche minute; a chistu punto agnadí dint’â tiella cu ll’accio, ‘e ffellocce ‘e cepolle e ‘e pummarole pelate, accuncià ‘e sale fino e pepe e lassà cocere pe diece minute; a ll’urdemo revacà tutto dint’â tiella cu ‘e mmulignane, agnadirve aulive, chiapparielle pignuole e uva passa, ammiscà e a ffuoco allero tuiglià pe tre mminute agnadenno ‘nu cucchiarino ‘e zuccaro e ‘na tazzulella d'acito e farla svapurà; levà dô ffuoco,derrammà cu ‘o tuppeto ‘e vasenicola lavato, asciuttato e ntretato a mmano e ffà refreddà primma ‘e serví. Vine: Sustanziuse vine russe d’ ‘a Campania (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), spilate n’ora primma d’ausarle,passate dinto a ‘na carrafa p’ ‘e ffà piglià aria e servute a ttiempo (temperatura) ‘e stanza pe magnà. Mangia Napoli, bbona salute! Scialàteve e cunzulàteve ‘o vernecale! Raffaele Bracale

IL TOPONIMO MARCONIGLIO

IL TOPONIMO MARCONIGLIO Sono stato invogliato a fornire soluzioni etimologiche del toponimo in epigrafe.Fornirò una mia ipotesi chiarendo però súbito che non esistono certezze circa l’orgine del nome Marconiglio che contraddistingue oggi una piccola piazzetta ed olim anche un vicoletto malfamato tra il c.so Garibaldi e via fra’ Gregorio Carafa, adiacente all’odierna via Martiri d’Otranto un tempo volgarmente détta Imbrecciata (‘mbricciata) a san Francisco ed adiacente ad altro malfamato vicolo, in origine alveo d’un guado d’un torrentello di cui s’è perso memoria, détto Pontescuro, nonché un intero quartiere Gli Incarnati ugualmente di cattiva fama sin dai tempi degli Aragonesi Premetto altresí che sia il vicoletto che l’Imbrecciata furono un tempo strade malfamate e mal sicure frequentate da ladri, lestofanti e briganti ed ospitarono i peggiori lupanari della città e che di Pontescuro e de Gli Incarnati si parlava di luoghi cosí malfamati e licenziosi da diventar proverbiali a segno che allorché si vedeva fare o s’udiva dire cosa licenziosa, si accennava con disprezzo a chi parlasse o agisse licenziosamente,affermando "Questi crede stare a gli Incarnati" oppure "Crede stare a Pontescuro".Tutte queste notizie sono state espunte da "La Topografia universale della città di Napoli", di Niccolò Carletti (1776). Carletti, è vero, non parla di Marconiglio ma spiega assai bene la cattiva fama de Gl'Incarnati e di Pontescuro.Questi i fatti: Il Principe Ferrante I d'Aragona possedeva 50 moggia di terreno confinanti col Campo de' Carmignani e la Via Vecchia, l'antica strada che menava alla Puglia ed alle Calabrie. Avendo perso 700 ducati al gioco con un tal Fabio Incarnato, saldò principescamente il debito cedendogli détto terreno. Fabio vi costruí una magnifica residenza ma alla sua morte i suoi eredi (gli Incarnati, appunto) lo affittarono a diversi agricoltori «ed i Napolitani vi concorrevano per deliziarvisi tra l'amenità di esso e la libertà del sito». Poi, però, «tratto tratto divenne famosissimo Lupanaro per lo licenzioso costume ivi introdotto. Fu in tali emergenze il luogo conceduto a diversi, che vi eressero piú case e vi sistemarono piú vichi, attorno alla stessa strada, che portava a Poggio Reale, prima di farsi la nuova, che in oggi si osserva». Riassumendo: 1) la cattiva fama dei luoghi risalirebbe all'età aragonese; 2) case e vicoli (tra i quali, dobbiamo pensare, vico Marconiglio) compaiono quando la cattiva fama del luogo era già ben radicata, verosimilmente nel XVI sec. Insomma tutte le strade di cui ò détto non godettero di buona fama e si può ragionevolmente ipotizzare (ecco la mia ipotesi!) che il vicoletto dapprima e la piazzetta adiacente poi fossero nell’inteso comune indicati come al Malcuniculo simile al Malpertugio di boccaccesca memoria. Morfologicamente poi seguendo i consueti passaggi d’uso in linguistica il Malcuniculo à potuto dare Marcuniculo→Marcunic(u)lo→Marcuniclo ed infine Marcuniglio→Marconiglio. Tutto ciò se non si vuol prender per buona (non me ne voglia il Maestro...) l’idea di Gino Doria che nel suo saggio di toponomastica delle strade di Napoli riportò quanto gli aveva comunicato un anonimo parroco della zona il quale leggeva in Marconiglio una corruzione locale per agglutinazione del nome proprio Marco Miglio ignoto personaggio cui pare fosse intestata la stradina de qua. Vada per l’agglutinazione, ma perché mutare la consonante nasale bilabiale (m) nella nasale dentale (n)? Troppe cose non mi convincono dell’idea perorata dal Doria e dal suo anonimo parroco! R.Bracale

TOPO E DINTORNI

TOPO E DINTORNI Mi è stato chiesto dalla cara amica N.C. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) di illustrare la parola italiana in epigrafe e quelle napoletane ad essa collegate. Lo faccio qui di sèguito cominciando col dire súbito che la parola topo nome comune di varie specie di piccoli mammiferi roditori con pelo corto e folto, generalmente grigio, zampe anteriori piú corte delle posteriori, muso aguzzo e lunga coda, è con ogni probabilità pervenuta nella lingua italiana attraverso un tardo latino talpum variante di talpam che è propriamente la talpa; la voce latina sta per kalpa o skalpa dalla medesima radice del verbo scalp – ere = scavare e dunque talpam è l’animale che scava tenendo ad un dipresso il medesimo comportamento del derivato topo; tale voce con medesima derivazione latina attraverso una forma dialettale taupa la si ritrova nel francese dove il topo è taupe, nello spagnolo topo, nel catalano taup; il topo è essenzialmente il piccolo roditore che talvota inopinatamente si può trovare nelle abitazioni cittadine e non va confuso con il ratto genere di mammiferi roditori simili ai topi, ma di dimensioni piú grandi, dannosi sia per la loro voracità sia per le malattie che possono trasmettere, che però fortunatamente vivono quasi esclusivamente in campagnana dove ci cibano di grano e di paglia; la voce ratto che nel provenzale e francese è rat, nello spagnolo e portoghese è rato viene dal basso latino ratus forgiato forse su di un antico verbo tedesco ratzen che è raschiare, grattare, per indicare appunto l’animale che rosicchia (da un basso latino rositiare frequentativo di rodere); torniamo al topo e vediamo come questa voce è resa in napoletano; il topo domestico napoletano è ‘o sorice e piú spesso, quando sia minuscolo ‘o suricillo; dalla voce sorice per sincope della I è derivata la voce italiana sorcio che identifica il piccolo roditore in tutto simile al topo, ma piú piccolo, di un grigio piú dilavato, mancante dell’unghia del dito piú grosso e che si pasce soprattutto di alimenti grassi, per cui è facile incontrarne, purtroppo, nelle botteghe di alimentari; veniamo all’etimo di sorice e del derivato sorcio; esso è dall’acc. latino sorice(m) di sorex; a proposito di sorice e del suo diminutivo suricillo mi piace ricordare qui ed illustrare un’antica esclamazione partenopea che suonò: mannaggia ô suricillo e ppezza ‘nfosa! Ad litteram: accidenti al topino e (alla) pezza bagnata;Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra piú triviale specialmente davanti a situazioni negative sí, ma poco importanti. Varie le interpretazioni della locuzione in ispecie nei confronti del topolino fatto oggetto di maledizione Esamino qui di seguito le varie interpretazioni e per ultima segnalo la mia. 1 - L’illustre amico e scrittore di cose napoletane(avv. Renato De Falco) reputa che il suricillo in esame altro non sia che il frustolo d’epitelio secco che si produceva in ispecie sulle braccia e sulle gambe allorché le si lavavano soffregandole non con una spugna, ma con uno straccetto bagnato. È vero, da ragazzi usavamo dare il nome di suricillo a quei frustoli d’epitelio divelti con il soffregamento dello straccio madido d’acqua. Ma il dotto amico De Falco, per far passare per buona la sua idea è costretto a leggere la e dell’espressione non come congiunzione, ma come aferesi di de e quindi leggere ‘e pezza ‘nfosa pronunciando in maniera scempia la p di pezza, laddove il proverbio raccolto dalla viva voce della gente suona: mannaggia ‘o suricillo e ppezza ‘nfosa ed è chiara la geminazione iniziale della p di pezza e il significato di congiunzione della e. Per cui, a malgrado dell’amicizia e della stima che nutro per l’avvocato De Falco, non posso addivenire alla sua idea. 2 -(prof. Francesco D’Ascoli)L’anziano professore , sbriga la faccenda, ravvisando nel suricillo i pezzetti di panno che si staccavano assumendo la forma del musculus (piccolo topo donde anche l’italiano: muscolo che per essere affusolato alle estremità à ad un dipresso la forma di un topolino…), dallo straccio per lavare a terra;l’idea non è percorribile stante anche per D’Ascoli la medesima lettura impropria della locuzione che ne fa il De Falco leggendo la E come aferesi di de e non come congiunzione. 3 - (dr. Sergio Zazzera) L’ottimo dr. Zazzera si lava le mani e propone un improbabile sorcio alle prese con un orcio di olio dal quale sia saltato via un non meglio identificato stoppaccio che non si comprende perché sia umido e non soltanto unto. A questo punto reputo che potrebbe essere piú veritiera l’interpretazione che mi fu data temporibus illis da mia nonna che asserí che la locuzione conglobava una imprecazione rivolta ad un sorcetto introdottosi in una casa ed un suggerimento dato agli abitanti di detta casa quello cioè di introdurre sotto le fessure delle porte uno straccio bagnato per modo che al topo fossero precluse le vie di fuga e lo si potesse catturare. Volendo cioè dire: È entrato il topino? Non c’è problema! Ce ne possiamo liberare: lo catturiamo, ma prima affinchè non ci sfugga, turiamo con uno straccio bagnato ogni fessura e procediamo alla cattura! Ma poiché fino a che non ci si senta soddisfatti, è buona norma continuare ad investigare; e continuando nell’investigazione, mi pare di poter affermare che la nonna avesse dato una casta spiegazione a dei vocaboli (e perciò a tutta l’espressione) per non inquietare la fantasia di un piccolo adolescente. Infatti alla luce di ulteriori indagini ed al supporto di altre menti di appassionati studiosi di cose napoletane mi pare si possa accogliere la tesi del prof. A. Messina che dà del suricillo una lettura estensiva e vede in esso - per il tramite di un xurikilla tardo latino usato in luogo del piú classico mentula - il membro maschile... Peraltro il prof. Carlo Iandolo illustre scrittore di cose partenopee in una sua dotta lettera mi fa notare che nella passata parlata napoletana le pezze piú note erano - oltre quelle che significavano il danaro - quelle che le donne portavano nel loro corredo nuziale , e che usavano per i loro bisogni fisiologici di ogni volger di luna, quando ancora non esistevano mediatici assorbenti con le ali o senza. Ecco dunque che, messa da parte la casta spiegazione data dalla nonna, penso si possa addivenire a ritenere che l’innocente imprecazione con la quale si è soliti commentare piccolissimi inconvenienti ai quali non occorra dare faticose soluzioni, sia sgorgata sulle labbra di una donna trovatasi davanti alla improcrastinabile richiesta di favori, da parte del suo uomo (...pronto alla tenzone...) e gli abbia dovuto opporre, sia pure dolendosene, che non era il tempo adatto in quanto ‘a pezza ...era ‘nfosa. Esaminati topi, ratti, sorci,e sorcetti, affrontiamo ora (sia pure, per fortuna, solo semanticamente) i grossi topi di fogna, quelli che in napoletano son detti zoccole ‘e saittella che sono quegli immondi grossi roditori che ànno per loro habitat i condotti fongnarî, dai quali attraverso le c.d. saittelle e cioè le imboccature dei chiusini o le feritoie, poste lungo i marciapiedi delle città ed approntate per favorire verso le fogne il deflusso delle acque piovane, son soliti sortire, specialmente durante i caldi mesi estivi, per invadere le strade o i cortili di condominî, determinandone gli inquilini ai necessarî interventi antimurini. Cominciamo ad illustrare la parola saittella che etimologicamente è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente). Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta o lòcena. Mi piace rammentar qui un’icastica espressione partenopea che suona: Tant’anne dint’ê saittelle…E quanno addiviente zoccola!? Ad litteram: Tanti anni (trascorsi ) nelle fogne… e quando diventerai un ratto? Icastica domanda retorica che ironicamente si suole rivolgere, per bollarlo di inettitudine e/o incapacità, a chi da lunga pezza frequenti luoghi (scuola o bottega) e faccia esperienza,ma mai si decida ad apprendere e/o a mettere in pratica l’appreso, dimostrando cosí di non occupare proficuamente il tempo dell’apprendimento e di vanificare l’opera degli insegnanti. La parola zoccola indica, come ò detto, innanzi tutto il grosso topo da fogna e solo per traslato la meretrice, la donna di malaffare quella che un tempo (…ora non piú!) soleva battere la strada nottetempo, come i grossi topi. Etimologicamente zoccola viene dal diminutivo femminilizzato sorcula di sorex/soricis e non faccia meriviglia che si sia usato un nome femminile per indicare un roditore che ovviamente può esser sia maschio che femmina; il fatto si è che molto spesso quando un quid sia grosso, in napoletano lo si intende femminile come capita ad es. con tammorra piú grossa del tammurro (tamburo) o con cucchiara (mestola) piú grande del cucchiaro (cucchiaio) e cosí via. In napoletano, ripeto, un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amicA N.C. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est. Raffaele Bracale

MERETRICIO e voci collegate

MERETRICIO e voci collegate Questa volta per rispondere alla cortese richiesta del mio carissimo amico P.G. ( del quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi invoglia a parlarne, qui di sèguito ci addentreremo nel campo pericoloso del meretricio e delle voci toscane e napoletane ad esso collegate. Comincerò col dire che con la parola meretricio etimologicamente dal latino meretricium che è da merere= guadagnare, si intende la prostituzione, il prostituire, il prostituirsi; in partic., l’attività di chi fa commercio abituale del proprio corpo al fine procurarsi immediato e facile guadagno; s’usa dire che tale attività, che è innanzi tutto femminile, ma talora pure maschile, sia stato il mestiere (quale attività individuale o organizzata) piú antico del mondo; non stento a crederlo: come commercio individuale è l’unico commercio che non abbisogna di ingenti capitali o di avviamento,non è neppure vero che sia richiesta una particolare avvenenza fisica, si può svolgere all’aperto ed al chiuso indifferentemente, gli strumenti di lavoro son forniti gratis da madre natura e non necessitano di particolare manutenzione e, adottando piccole precauzioni, è mestiere che può svolgersi per lungo tempo assicurando lauti guadagni oggi esenti da tassazione statale, quantunque non da quella del cosidddetto protettore o magnaccia ( voce d’origine romanesca etimologicamente forgiata sul verbo magnà=mangiare addizionato del suffisso dispregiativo accia) e cioè lo sfruttatore di prostitute ed estensivamente l’ uomo che vive alle spalle di una donna.Ricorderò súbito che in napoletano tale sfruttatore è detto ricuttaro; la parola napoletana fu ricavata verso la fine del 1800 per adattamento corruttivo della parola recoveta che diede recotta donde il derivato recuttaro o ricuttaro; ‘a recoveta era quella raccolta di fondi, raccolta vessatoria operata (tra i piccoli bottegai ed il popolino di taluni rioni popolari della città bassa) ad opera di taluni malavitosi dediti altresí al lenocinio (dal latino lenocinium che è da lenone(m)=in origine mercante di schiave, poi protettore), raccolta necessaria per sostenere le spese di difesa di camorristi e piccoli furfanti finiti nelle maglie della giustizia e sottoposti a giudizio per il quale si rendeva necessaria l’opera di avvocati difensori che quando non fossero affiliati alla camorra, occorreva pagare. La donna che esercita il meretricio è ovviamente la meretrice (etimologicamente dall’acc. latino meretrice(m) che è come meretricium da merere= guadagnare);ma è voce eccessivamente dotta e di àmbito forense; altra voce toscana usata per indicare la donna che faccia commercio del proprio corpo è ovviamente prostituta che è dal lat. prostituta(m), s.vo f.le da prostitutus, part. pass. di prostituere =prostituire e piú esattamente mettere in vendita o a disposizione da pro (a favore) e statuere (porre); ma la voce piú tipica, usata fin dal 14° sec. (accanto a voci –poi vedremo - regionali,per indicare chi eserciti il mestiere di cui dico, fu ed ancora è - nel gergo ed in talune espressioni artistiche (cinema, teatro e t.v.) – mignotta; i piú recenti calepini la ritengono di derivazione francese da mignotte= favorita da un antico mignon, ma penso – tenendo presente che prima che divenisse (1400) toscana, la voce fu essenzialmente laziale - che non sia peregrina l’idea che mignotta sia la corruzione dell’espressione m[ater] ignota abbreviato in m. ignota corrotta in mignota e poi mignotta; mater ignota fu l’annotazione apposta a margine di taluni nomi di trovatelli in antichi elenchi dell’anagrafe capitolina. Altra voce dell’italiano per indicare sia pure in senso estensivo chi esercita il meretricio è sgualdrina che come s.vo f.le (spreg.) in primis indica solo una donna di facili costumi e per estensione la prostituta vera e propria; non tranquillissima l’etimologia della voce in esame:si cominciò con il pensarla derivazione di sgualdracca, variante ant. di baldracca, con suff. diminutivo, ma la voce sgualdracca non l’ò trovata attestata se non nel Baldus poemetto scritto in versi di un latino maccheronico da Teofilo Folengo (Mantova, 8 novembre 1491 – † Bassano del Grappa, 9 dicembre 1544), sotto lo pseudonimo di Merlin Cocaio. ; penso perciò che sia piú perseguibile, con il Delâtre, l’idea di una derivazione dal tedesco gualdana= donna da gualdo(=selva) secondo un percorso che prevede i seguenti passaggi morfologici:gualdana→gualdrana→gualdrina→sgualdrina = donna pubblica, per i cacciatori, per la truppa, per i soldati: gualdana è un derivato di gualdo← wald=selva; sempre che invece sgualdrina non derivi, come io reputo, direttamente dal tedesco schwellendrine = donna che sta sulla soglia (in attesa di clienti), meretrice, donna da trivio: la voce tedesca schwellendrine è formata da schwelle= soglia e dirne→drine = ragazza di facili costumi. Prima di sconfinare nel napoletano, segnalo l’ultima voce usata in toscano per indicare la meretrice; essa è puttana ma è voce essenzialmente pluriregionale trasmigrata nel lessico toscano; questa parola etimologicamente è d’origine latina-barbarica: putana è da puta= fanciulla, ma à avuto l’aggiunta di una desinenza (na) rispondente alla declinazione debole dei tedeschi; è parola che oggi à un senso dispregiativo che però in origine non ebbe (infatti puttana valse dapprima ragazza e poi per traslato malevolo meretrice),ed è pervenuta nelle lingue regionali italiane e da queste al toscano illustre per il tramite del francese putain e l’antico spagnolo putaña. E veniamo finalmente al napoletano dove è viva e vegeta (accanto a molte altre che ora qui dirò) la voce pluriregionale – - puttana voce sulla quale si sono forgiate: puttanizio/a che è il meretricio in genere e puttaniere usato per indicare chi sia solito avere rapporti sessuali con meretrici ed estensivamente ed iperbolicamente colui che ami circuire o correr dietro le sottane di donne avvenenti e non; - malafemmena altra voce molto conosciuta (anche per merito di una fortunata canzonetta del principe A. de Curtis Totò nome d'arte di Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, piú noto come Antonio De Curtis (Napoli, 15 febbraio 1898 † Roma, 15 aprile 1967), fortunata canzonetta che si intitola appunto Malafemmena, quantunque la donna adombrata nella canzone non faccia il mestiere piú antico, ma si sia limitata forse ad occasionali tradimenti in danno del suo innamorato); la parola è formata dall’unione di mala (dal latino malus/a = cattivo/a) + femmena (dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della postonica m in parole sdrucciole; - ffemmena ‘e Casanova =ad litteram donna di Casanova ma da leggersi come: sacerdotessa d’amore è locuzione nominale usata in luogo di uno dei tanti sinonimi napoletani di prostitute, meretrici,sin qui esaminati: femmena s.vo. f.le1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre uova;2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina ( voce dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo della postonica m in parole sdrucciole); Casanova Giovanni Giacomo. – Dissoluto avventuriero, donnaiolo, gran tombeur de femmes (Venezia 1725 -† Dux, Boemia, 1798); figlio di attori, presto orfano di padre ed affidato dalla madre (Giovanna Maria C., detta Zanetta) alla nonna materna, fu studente a Padova, chierico a Venezia ed in Calabria, segretario del cardinale P. Acquaviva a Roma, soldato dell'armata veneta in Oriente, violinista dal 1746 nel teatro S. Samuele a Venezia. Accolto come figlio dal senatore M. G. Bragadin, nel 1750 riprese la sua vita errabonda attraverso la Francia, Dresda, Praga e Vienna, finché, tornato a Venezia nel luglio 1755, fu rinchiuso nei Piombi sotto l'accusa d'aver tentato di diffondere la massoneria. Evaso, tornò in Francia, ove introdusse il gioco del lotto nel 1757, e, sotto il nome di cavaliere di Seingalt, fu in Olanda, Germania, Svizzera, Italia, Polonia, Russia, seducendo donne, giocando, battendosi a duello, esercitando la magia, speculando sui valori pubblici e facendo perfino il confidente degli inquisitori di stato di Venezia. Finí la sua vita come segretario e bibliotecario del conte C. G. di Waldstein. Attivo, energico, intraprendente, il Casanova fu un avventuriero anche della penna e scrisse, tra l'altro, la Confutazione della storia del governo veneto di A. de la Houssaie (1769), la Storia delle turbolenze della Polonia (1774), una traduzione, incompleta, in ottava rima dell'Iliade (1775), l'opuscolo Scrutinio del libro: Eloges de M. de Voltaire par differens auteurs (1779), il romanzo Icosameron (1788); ma la sua notorietà è dovuta soprattutto alla drammatica narrazione dell'evasione dai Piombi (Histoire de ma fuite, 1788) e ai fantasiosi e licenziosi Mémoires, sostanzialmente veridici quanto alla rappresentazione della società di gaudenti e intriganti del Settecento. Stucchevole, ma forse veritiera, invece, la rappresentazione di sé stesso quale genio della seduzione. -cecciuvettola/ciucciuvettola s.vo f.le dalla doppia morfologia con il quale si indica1. Uccello della famiglia strigidi (Athene noctua), comune e stazionario in Italia, che vive non lontano dalle abitazioni, sui tetti, nei tronchi cavi, nelle buche dei muri, ecc.; di medie dimensioni e di color grigio-bruno, dalla testa grande con occhi sviluppatissimi, frontali, circondati da penne disposte in cerchi concentrici piú o meno evidenti; à abitudini generalmente notturne, si ciba di piccole prede, soprattutto roditori ed insettivori, rendendosi in tal modo utile all’agricoltura. Ammirata per la grazia dei movimenti che sembrano riverenze, viene perciò addomesticata dai cacciatori che se ne servono per attirare gli uccelli nella caccia; la superstizione popolare invece la vuole apportatrice di disgrazie per il suo grido monotono. 2. (fig.come nel caso che ci occupa) Donna vanitosa e frivola che cerca di mettersi in mostra e di attirare l’attenzione e l’interesse degli uomini (allo stesso modo che le civette attraggono gli uccelli nella caccia); e segnatamente almeno tra la fine del 1800 ed i princípi del 1900, meretrice non molto giovane, ma vestita elegantemente. Etimologicamente si tratta di voce onomatopeica forgiata sul grido dell’animale. Rammento tuttavia qui che i napoletani d’antan usano di preferenza la voce in esame nel significato figurato sub 2., mentre per quanto riguarda il signficato sub 1.adoperano il termine - cuccuvaja s.vo f.le = 1.civetta e talora nottola, ed anche 2. donna brutta e sgraziata che incute timore; etimologicamente voce dal greco kikkabâu. - zoccola che – come illustrai sub TOPO etc – è in primis il grosso topo di fogna ed estensivamente la prostituta che come quel topo frequenta nottetempo i marciapiedi; etimologicamente zoccola è da sorcula diminutivo latino femm. di sorex-ricis; - le ultime seguenti voci sono tutte usate figuratamente per indicare la prostituta o meretrice e di tutte già alibi dissi; per cui qui le elenco solo per amore di completezza; esse sono: saittella, lòcena, lumèra,péreta dette voci possono essere usate sí per indicare la prostituta, ma piú spesso servono ad indicare una donna solo volgare o chiassosa o lercia;analiticamente si à: 1) lòcena la locena pur essendo un taglio di carne gustosissimo, è un taglio che, ricavato dal quarto anteriore della bestia, il meno pregiato e meno costoso, è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto, e di tutti i vari nomi con cui è connotato in Italia, quello che piú si attaglia a simili minime qualità, è proprio il napoletano lòcena. Etimologicamente infatti la parola lòcena nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio/a ed i successivi locio/locia (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locina→locena. Chiarito il concetto di partenza, passiamo al significato traslato: fu quasi normale in un’epoca: fine ‘500, principio ‘600 in cui la donna non era tenuta in gran conto (a quell’epoca risalgono, a ben pensare, quasi tutti i proverbi misogini della tradizionale cultura partenopea …), trasferire il termine lòcena da un taglio di carne di scarto, ad una donna… di scarto, quale poteva esser ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale.. 2) saittella La saittella è quella sorta di feritoia che si trova alla base dei marciapiedi, feritoia il cui compito è quello di favorire il deflusso delle acque piovane ed incanalarle nei condotti fognarii che si trovano appena sotto il piano stradale; normalmente i ratti che stazionano nelle fogne usano queste feritoie, che non sono assolutamente protette, ma aperte e libere per sortire ed invadere l’abitato. Etimologicamente la parola saittella è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli, spazio da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente). Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta o lòcena. 3) lumèra è esattamente il lume a gas ma viene per traslato riferito a donna becera e volgare ed a maggior ragione ad una prostituta che abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a ggiorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una pereta. Faccio notare – come ò già detto – che péreta è il femm. riscostruito del masch. pírito e deve perciò intendersi che la péreta è un gran peto, una grande scorreggia maggiormente rumorosa e forse fastidiosa del corrispondente pírito= peto, scorreggia; e ciò perché in napoletano – come passim ò molte volte rammentato - i nomi femminili si intendono riferiti a cose, oggetti etc. intesi maggiori dei corrispondenti maschili: cfr. cucchiara piú grande di cucchiaro, tammora piú grande di tammurro carretta piú grande di carretto etc. l’etimo di lumera= lume a gas è dal fr. ant. lumière,ricavato dal lat. luminaria, neutro pl. di luminare 'lampada, fiaccola'; 4)péreta donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata per dileggio quasi come nome proprio di persona) è come ò già détto, il femminile ricostruito di píreto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Abbiamo infine le ultime due voci che sono: 5)sittantotto in riferimento al numero 78 che nella smorfia napoletana o cabala indica appunto la prostituta; 6)quatturana che sta esattamente per quattro grana corrispondente all’importo della tassa che su ogni prestazione, sotto il regno di Ferdinando I (di Aragona e di Sicilia), detto Il Giusto (circa 1380-†1416), re di Aragona e di Sicilia (1412-†1416)le meretrici dovevano pagare allo stato; detto termine passò poi ad indicare la prostituta in genere e con valenza piú triviale, l’organo sessuale delle meretrici. Aggiungo a mo’ di completezza altre antiche (tardo ‘800) desuete voci: 7)-caccavella s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale pentolina ,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti; per traslato e figuratamente valse anche grosso cappello da donna sempre per traslato come (alibi) buatta indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se non particolarmente avvenente e di forme sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine (etimologicamente dal lat. tardo caccabella succedaneo di caccabulusdiminutivo di caccabus = paiolo,pentolone, dal greco kàkabos) per traslato sarcastico si indicò una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa derivò dalla felice posizione (sessio = sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove veniva prodotto vasellame in terracotta, d’uso quotidiano; 8)pontonèra/puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana d’un'unica voce che sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra ) che nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada, spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata; voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro, addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato della voce in esame fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo 9)cantonèra/cantunèra (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano; 10)puppeca prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca; Rammento comunque che le ultime tre voci furono usate quali epititi (cfr. alibi) e poco nella letteratura. A margine ed a completamento di tutto quanto fin qui scritto, rammento che nel gergo dei protettori/camorristi le prostitute venivano indicate con termini diversi a seconda della loro età o condizione; si usavano i termini pullanca (dallo spagnolo pullancòn/a) riferito a prostituta giovane ed ancóra illibata, gallenella (diminutivo di gallina nome che è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo') riferito a prostituta giovane ma non piú illibata, ed infine voccola (che etimologicamente piú che da un greco del Ponto kloka (che è invece affine a chioccia), ritengo derivato da un lat. volg. *vòcca deverbale di vocare=chiamare che è tipico della chioccia con i suoi pulcini) riferito a prostituta ancóra giovane, ma che già sia madre. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento e soddisfatto l’amico P.G., interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est. Raffaele Bracale

lunedì 29 ottobre 2012

PATANE ALLARDIATE

PATANE ALLARDIATE Chesta vota ve prupongo ‘nu cuntorno d’alliccarse ‘e bbaffe. Chello ca ce vo’ pe sseje perzone ‘nu kilò ‘e patane vecchie, 200 gramme ‘e lardo ‘e panza allacciato, 50 gramme ‘e ‘nzogna, 2 cucchiare ‘e farina, ‘na cepolla ndurata ‘e Muntoro ntretata, ‘na farinula pe bbroro veggetale,miezu bicchiere ‘e vino janco asciutto, sale fino e ppepe niro mmacenato a ffrisco q.n. s., ‘nu tuppeto ‘e prutusino lavato,asciuttato e ntretato finu fino. Comme se fa Ammunnà ‘e ppatane, tagliarle a ppacchetelle, lavarle e asciuttà. Mettere dinto a ‘na prupurziunata marmitta, pruvvista ‘e cupierchio ‘o llardo allacciato e ‘a ‘nzogna e a ffuoco allero fà zuffriejere pe cinche minute; agnadí ‘o ttrigliato ‘e cepolla e sempe a ffuoco allero farle piglià culore; a ‘stu punto derrammà ‘e duje cucchiare ‘e farina facennola ndurà; subbeto doppo agnadí ‘o vino e meza ciotola d’acqua vullente addó è stata accumpliata ‘a farinula ‘e broro veggetale; aspettà ca jesce a vollere e agnadí ‘e pacchetelle ‘e patane;accuncià ‘e sale e ppepe, ammiscà, cummiglià ‘a marmitta avascià ‘o ffuoco e lassà cocere pe trecquarte d’ora; stutato ‘o ffuoco derrammà ‘e ppatane cu ‘nu tuppeto ‘e prutusino lavato,asciuttato e ntretato finu fino. Serví caude ‘e fuculare ‘sti patane sabrose, cratistu cuntorno ‘e carne, ‘e pesce o de latticine. frische. Brak .

TRASETURA Â PEZZAJUOLA

TRASETURA Â PEZZAJUOLA chello ca serve pe sseje perzone ‘nu rotolo ‘e pasta sfoglia surgelata, 300 gramme ‘e muzzarella ‘e bufala tagliata a ffelloce doppie miezu centimetro, 500 gramme ‘e pummarole ricce ‘e Surriento tagliate a ffelloce doppie miezu centimetro, 2 cucchiare ‘e chiapparielle levate ‘e sale sciacquate e asciuttate, 100 gramme ‘e sulumiglie d’alicesalate sott’uoglio, 100 gramme ‘e tonne ‘e Spagna desciusciate, ‘nu cucchiaro d’arecheta secca sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco q.c.n.v. comme se fa Scongelà ‘a pasta sfoglia e sistimarne stennennolo ‘nu piezzo dinto a ‘na cummedità a bbabbuorde aute tre centimetre bbona p’ ‘o tiesto; furmà ‘ncopp’â pasta ‘nu cuscio ‘e fellocce ‘e muzzarella passata ddudice ore p’ ‘a jacciaja,sistimà ‘ncopp’â muzzarella ‘e pummarole ricce ‘e Surriento tagliate a ffelloce e ‘a coppa a ccheste ‘e chiapparielle levate ‘e sale sciacquate e asciuttate, ‘e tonne ‘e Spagna desciusciate, ‘e sulumiglie d’alicesalate sott’uoglio, ‘o cucchiaro d’arecheta secca; regulà ‘e sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco e sistimà ‘a coppa n’atu piezzo ‘e pasta sfoglia. Mettere dint’ô tiesto ggià caudo a 190° e tenerlo vinte minute. Serví ‘sta trasetura cauda tagliata a ppiezze quadrate ‘e otto centimetre ‘e lato. Brak

TRASETURA ‘E CREMA ‘E PRUSUTTO CRURO

TRASETURA ‘E CREMA ‘E PRUSUTTO CRURO Chello ca ce vo’ pe sseje perzone ‘na grossa fella ‘e 300 gramme ‘e prusutto cruro tagliata a ffarinule, 50 gramme ‘e ‘nzogna, 100 gramme ‘e ricotta ‘e pecura, miezu bicchiere ‘e latte retunno, meza tazzulella ‘e cugnacca, pepe niro macenato a ffrisco q.n.s. durece fellocce ‘e pane cafone arruscate a ttiesto vullente (220°) Comme se fa Mettere dinto a ‘nu mmiscatore ‘e ffarinule ‘e prusutto ‘nzieme â ‘nzogna e ssiffulà nfi’ a cche se ne fa ‘na crema criceta e malacosa; passarla dinto a ‘na zupperella e agnadí ricotta, latte, cugnacca e ppepe niro macenato a ffrisco quanto ne piace, ammiscanno energicamente. Aiutannose cu ‘nu cucchiaro a pponta mettere ‘o cumposto ‘ncopp’ê ffellocce ‘e pane quanno se songo raffreddate. Tené ‘sti fellocce guarnite ‘nfrisco dint’â jacciaja allimmeno ddoje ore e ppo servirle. Vine: Sustanziuse vine russe d’ ‘a Campania (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), spilate n’ora primma d’ausarle,passate dinto a ‘na carrafa p’ ‘e ffà piglià aria e servute a ttiempo (temperatura) ‘e stanza pe magnà. Mangia Napoli, bbona salute! Scialàteve e cunzulàteve ‘o vernecale! Raffaele Bracale

CREMA ‘E CANNELLINE CU ‘A PANCETTA

CREMA ‘E CANNELLINE CU ‘A PANCETTA chello ca serve pe 6 perzone 3 buccacce ‘e fasule cannelline ggià arvate e sculate pe cumplessive 750 gramme, 300 gramme ‘e pancetta affummecata tagliata a ffarinule ‘e ‘nu centimetro, ¾ ‘e litro ‘e brodo veggetale fatto cu vverdure fresche o ddoje farinule pe bbroro, miezu cucchiaro ‘e doppio cuncentrato ‘e pummarola, ddoje majateche lomme ‘e accio janco pulezzate dê sfilacce, lavate, asciuttate e ttagliate a piezze ‘e cinche centimetre, ‘nu bicchiere d’uoglio ‘auliva dunciglio, dduje spicule d’aglio ammunnate e ntretate finu fino, ‘na fraschetella ‘e rosamarina, tre ffronne ‘e sarva, quacche felloccia ‘e pane casareccio arruscato ô tiesto (220°). pepe niro e ssale fino q.n.s. comme se fa: Ricà ll'uoglio dinto a ‘na prupurziunata tiella,agnadirve ‘o ttrigliato d’aglio ‘e piezze d’accio ‘a rosamarina spullecata e ‘e ttre ffronne ‘e sarva e ffà saussà tutto cosa a fuoco miccio pe cinche minute;sculà ‘e cannelline arvate, sciacquarle sott’ a ‘nu strepeto d’acqua fredda, scularle ancòra e revacarle dint’ ô zuffritto, farle ‘nzapurí pe dduje minute. Cummiglià tutto cu ‘o broro caudo, agnadirve ‘o miezu cucchiaro ‘e doppio cuncentrato ‘e pummarola,accuncià ‘e sale e ppepe e lassà cocere pe ‘nu quarto d’ora; fraditanto fà saussà ‘a pancetta a ffuoco allero dinto a n’ata tiella senza agnadirve uoglio. Quanno ‘a pancetta è pronta revacà ‘e fasule dinto a ‘nu mmiscaturo e nzuffrà (frullare) nfi’ a uttené ‘na crema abbunnante, críceta e ddellicata (spumosa e soffice);metterla n’ata a ffuoco miccio pe dduje minute; purziunà chesta crema dint’ê piatte cumpletanno ògne piatto cu ‘a pancetta saussata. Serví comme trasetura cauda accumpagnanno cu quacche felloccia ‘e pane casareccio arruscato ô tiesto (220°). Vini: asciutte e profumate janche nustrane ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) fridde ‘e jacciaja o ‘e ‘rotta. Mangia Napoli, bbona salute! Raffaele Bracale

TRASETURA ‘E COTENA E ACCIO

TRASETURA ‘E COTENA E ACCIO Sabbrosa trasetura ‘e carna ca sposa ‘o sapore forte d’ ‘a cotena cu chillo ntricante ‘e ll’accio. chello ca serva peseje perzone 600 gramme ‘e cotene fresche ‘e presutto, 300 gramme d’aulive tonne ‘e Spagna desciusate, ddoje majateche lomme ‘e accio janco pulezzate dê sfilacce, lavate, asciuttate e ttagliate a piezze ‘e cinche centimetre, ‘nu bicchiere d’uoglio ‘auliva dunciglio, dduje spicule d’aglio ammunnate e ntretate finu fino, ‘nu bicchiere d’acito ‘e vino janco, ‘o zuco ‘e duje limune ‘e Surriento passato a cculaturo, sale fino e ppepe janco macenato a ffrisco q.n.s. comme se fa: Pulezzà ‘e ccotene raspannole a mmestiere cu ‘nu curtiello affilato e ciamuscarne ‘e pile a sciamma auta; lavarle e metterle a àrvere pe ‘nu paro d’ore dinto a ‘na caccavella cu abbunnante acqua vullente e‘nu bicchiere d’acito ‘e vino janco. Quanno ‘e ccotene so’ ccotte e ‘ntennerute aizarle ‘a ll’ acqua ‘e cottura cu ‘na spumàdera e ancòra caude tagliarle a vvarriglie ‘e cinche centimetre pe dduje; metterle dinto a ‘na sperlonga e agnadirve ‘o trigliato d’aglio, ‘e ttonne ‘e Spagna, e ‘e piezze ‘e lomme d’accio janco pulezzate dê sfilacce, lavate, asciuttate e tagliate a piezze ‘e cinche centimetre; sbattere dint’ a ‘na ciotola ll’uoglio, ‘o zuco d’ ‘e llimone sale fino e ppepe janco macenato a ffrisco quanto ne piace e cu ‘sta sarzulella lloco cunní ‘e ccotene; ammiscà e mmannà dint’â jacciaja pe ‘na mez’ora primma ‘e serví ‘ntavula ‘sta sabrosa trasetura ‘e carna. Vine: Sustanziuse vine russe d’ ‘a Campania (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), spilate n’ora primma d’ausarle,passate dinto a ‘na carrafa p’ ‘e ffà piglià aria e servute a ttiempo (temperatura) ‘e stanza pe magnà. Mangia Napoli, bbona salute! Scialàteve e aggarbbatéve ‘o vernecale! Raffaele Bracale

TRASETURA CAUDA ‘E CANNELLINE

TRASETURA CAUDA ‘E CANNELLINE chello ca ce vo’ pe 6 perzone dduje buccaccielle ‘e fasule cannelline arvate, 150 gramme ‘e pacetta affummecata a vvarriglie ‘e cm. 5 pe 2 pe 1, 200 gramme ‘e passata ‘e pummarola, ddoje cepolle ndurate ammunnate e ntretate, ‘na pastenaca grossa ammunnata e ntretata, ’na lomma (costa) d’accio ammunnata e ntretata, ‘nu gruosso tuppeto (ciuffo) ‘e prutusino lavato, asciuttato e ntretato fino fino, ‘nu bicchiere e mmiezo d’uoglio ‘auliva dunciglio, ‘na fronna ‘e lauro frisco, miezu bicchiere ‘e vino janco asciutto, sale fino e ppepe janco macenato a ffrisco quanto ne serve. comme se fa: appruntà ‘mprimmese ‘na sarzulella dinto a ‘na prupurziunata tiella a ffuoco miccio cu ‘nu bicchiere d’uoglio ‘auliva dunciglio, duiciente gramme ‘e passata ‘e pummarola, ‘na cepolla ndurata ammunnata e ntretata, ‘na pastenaca grossa ammunnata e ntretata, ’na lomma (costa) d’accio ammunnata e ntretata, ‘na fronna ‘e lauro frisco; accuncià ‘e sale e ppepe e fà cocere pe ‘nu quarto d’ora;mantenere ‘ncaudo; cuntemporaneamente dinto a n’ata tiella a ffuoco allero fà suassà cu ‘na cepolla ndurata ammunnata e ntretata dinto a miezu bicchiere d’uoglio, ‘e vvarriglie ‘e pancetta tenennole ô ffuoco pe ‘nu quarto d’ora;ricà ‘o miezu bicchiere ‘e vino janco asciutto e farlo svapurà; mantenere ‘ncaudo; a chistu punto arapí ‘e bbuccacce cu ‘e fasule arvate e revacà ‘e fasule dint’ô zuchillo e a ffuoco miccio farle ‘nzapurí pe ‘nu quarto d’ora;agnadirve dinto ‘e vvarriglie ‘e pancetta suassate, ammiscà, derrammà cu ‘o tuppeto (ciuffo) ‘e prutusino lavato, asciuttato e ntretato fino fino,tuiglià e mannà ‘ntavula ‘sta trasetura cauda ‘e fuculare. Vine: Sustanziuse vine russe d’ ‘a Campania (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), spilate n’ora primma d’ausarle,passate dinto a ‘na carrafa p’ ‘e ffà piglià aria e servute a ttiempo (temperatura) ‘e stanza pe magnà. Mangia Napoli, bbona salute! Scialàteve e cunzulàteve ‘o vernecale! Raffaele Bracale

CREMA ‘E TUNNO.

CREMA ‘E TUNNO. Sabrosa trasetura ‘a serví auntato ‘ncopp’ a ffellocce ‘e pane casareccio arruscato ô tiesto forno (200°) accumpagnato cu felloce ‘e caso frisco o staggiunato (muzzarella, provola o pruvolone d’ ‘o monaco). chello ca serve pe 6-8 perzone: 500 gramme ‘e tunno sott’uoglio (scegliere chello dint’ a buccaccielle ‘e virto ‘e lavurazzione artigianale), 150 gramme ‘e sulumiglie d’alicesalate sott’uoglio, 50 gramme ‘e chiapparielle ‘e Pantelleria levate ‘e sale e sciacquate, 4 ova toste, ‘nu bicchiere d’uoglio ‘auliva dunciglio, ‘o zuco passato a culaturo ‘e ‘nu limone ‘e Surriento, ‘na tazzulella d’acito ‘e vino janco, 150 gramme d’ aulive nere ‘e Gaeta desciusate, 150 gramme d’ aulive janche tonne ‘e Spagna desciusate, ‘nu spiculo d’aglio ammunnato e ntretato finu fino, ‘nu tuppeto ‘e prutusino lavato, asciuttato, ‘na presa ‘e sale duppio cunnito (alle erbette). pepe janco mmacenato a ffrisco q.n.s. 24 ffellocce ‘e pane casareccio arruscato ô tiesto (200°). comme se fa ‘Mprimmese fà ‘ntustà ll’ova mettennole cu paricchia acqua fredda dinto a ‘na caccavella auta ‘e sponna;appiccià ‘o ffuoco e fà vollere l’acqua; ll’ova risultano ‘ntustate a mmestiere, doppo otto – nove minute dô primmo vullo ‘e ll’acqua si stanno bbuono affunnate dinto a ll’acqua. Appena ll’ova so’ ppronte refreddarle sotto ‘nu strèpeto d’acqua fredda e ecussarle a dduvere, spartennole ‘ndoje parte po p’ ‘o lluongo ; mettere ‘a parte ‘e varchetelle ‘e janche e ppiglià ‘e tuorle ‘ntustate;mettere dinto a ‘nu mmiscaturo ‘mprimmese ‘o ttunno e ppo una â vota ll’alicesalate, ‘e tuorle ‘ntustate, ‘e cinquanta gramme ‘e chiapparielle ‘e Pantelleria levate ‘e sale e sciacquate, ‘o spiculo d’aglio ammunnato e ntretato finu fino,ll’ acito, ‘o zuco d’ ‘o limone passato a culaturo e a ll’urdemo ll’aulive janche e nnere desciusate e ‘o tuppeto ‘e prutusino lavato, asciuttato ed rricà tutto cu ll’uoglio a ffilo; aziunà ‘o mmiscaturo e farlo ggirà chianu chiano (‘a crema nun s’ à dda callentà...) sulo a ll’urdemo accuncià cu ‘na presa ‘e sale sale duppio cunnito (alle erbette) e cu ddoje prese ‘e pepe janco mmacenato a ffrisco .Cu ‘a mmità ‘e ‘sta crema auntà ‘e vintiquatto ffellocce ‘e pane casareccio arruscato ô tiesto e cu chell’ata mmità regnere ‘e varchetelle d’ ‘e janche e – comme aggiu ditto serví ‘sta trasetura accumpagnata cu felloce ‘e caso frisco o staggiunato (muzzarella, provola o pruvolone d’ ‘o monaco). Vino: asciutte e profumate janche nustrane ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco ‘e Tufo) fridde ‘e jacciaja o ‘e ‘rotta Mangia Napoli, bbona salute! raffaele bracale .

TRASETURA ‘E MULIGNANE SPIRITOSE

TRASETURA ‘E MULIGNANE SPIRITOSE chello ca ce vo’ pe 6 perzone 6 mulignane longhe viulette napulitane, 4 spicule d’aglio ammunnate e ntretate finu fino, 2 tuppete ‘e vasenicola lavate e asciuttate, 2 tazzulelle ‘e acito ‘e vino russo, ‘nu bicchiere d’uoglio dunciglio, sale duppio ddoje vrancate, sale fino e ppepe janco macenato a ffrisco q,n.s. comme se fa Spuntà ‘e mulignane, lavarle, asciuttarle e tagliarle p’ ‘o lluongo a ffelle doppie nun cchiú ‘e ‘nu miezu centimetro; sestimarle a ccuscie (derrammate ognuno ‘e sale duppio) dinto a ‘nu scolapasta pe ‘na mez’ora. Scularle, sciacquarle sotto a ‘nu strèpeto d’acqua fredda, spremmerle, asciuttarle e cocerle dduje minute pe faccia ‘ncopp’ a ‘na chiasta vullente. Tenerle ‘ncaudo; fraditanto mettere dinto a ‘nu mmiscatore ‘a vasenicola lavata e asciuttata, ‘o ttrigliato d’aglio,ll’uoglio, ‘na tazzulella d’acito russo sale fino e ppepe janco macenato a ffrisco q,n.s. e farne ‘na sarzulella spiritosa. Sistimà una vicina a ll’ata ‘e ffelle ‘e mulignane dinto a ‘na sperlonga, derrammàrle cu ‘a sarzulella ‘e vasenicola e farle arrepusà pe dudice ore dint’â jacciaja. Serví accumpagnate ‘a fellocce ‘e pane abbrustuluto ‘nzieme a ffellate ‘e salame, prusutto e capecuollo e a ppiezze ‘e caso staggiunato. Vino: asciutte e profumate janche nustrane ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco ‘e Tufo) fridde ‘e jacciaja o ‘e ‘rotta. Magna Napule, bbona salute! Scialàteve e aggarbbatéve ‘o vernecale!! Raffaele Bracale

NAPOLI – CHIEVO 28.10.12 (1 A 0)LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ

NAPOLI – CHIEVO 28.10.12 (1 A 0) LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ No, guagliú cca s’à dda vedé che s’ à dda fà! Accussí nun po’ gghí! Cierti partite ca se ponno vencere pe quatto a zzero, s’ ànn’ ‘a vencere pe quatto a zzero e nno p’uno a zzero facennoce vení ‘e pparpetazzione ‘e core ll’urdemu quarto d’ora, prijanno ‘o Cielo ca ll’arbitro siscasse ampressa ‘a fine d’ ‘o fullé (macht). Cumunque chella d’ajeressera guagliú fuje ‘na prova veramente ‘mpurtante p ‘ ‘e guagliune cuane e ppe Mazzarri ca doppo ddoje mazzate pigliate un a ‘ncampiunato e n’ata cu ‘a scuatra ucraína, avevan’ ‘a vencere e – ppe ggrazzia d’ ‘o Cielo - ‘e guagliune ce riuscettero pure tenenno ‘e faccia ‘na scuatra tosta e ca dinto a ll’urdeme dduje, tre anne ce aveva dato cchiú ‘e ‘nu buffettone.Ma si se po’ vvencere largo, s’à dda vencere largo e nno resecato, comme ‘mmece succedette ajeressera! Passammo ê ppaggelle va’: DE SANCTIS 5,5 Maje ‘mpignato seriamente.Se guardaje ‘a rencontra senza pavà ‘o biglietto; quacche asciuta vascia e poco ato e ‘e solite subbaste (rilanci) a scampule ‘e cape ‘e sacicce! CAMPAGNARO 7 ‘O Chievo se facette vedé spisso dê pparte soje, ma facette marenna a sarachiello: ‘o Toro mettette ‘a musarola a lLuciano cuntenènnolo senza prubbleme e accompagnaje l'azziona cu cuntinuità. CANNAVARO 6 Poca fatica.Nun tenette assaje ‘a fà; cuncedette a tThereau sulo ‘na struffa (girata) volante, ma p’ ‘o riesto ‘o bluccaje, spisso cu ‘e ttriste! GAMBERINI 6,5 ‘Ndifesa s’ ‘a vedette ‘e bbella;risulvette cchiú ‘e ‘na situazziona cu granne mestiere e ‘sperienzia e spisso fuje isso ca ascette palla ô pede pe sustàtere (impostare) ll'azziona. MAGGIO 4,5 E nun sulo p’esserse magnata ‘na rredda fatta, ma soprattutto pecché nun ‘ncarraje ‘nu cruzzo, pure sfunnanno sistematicamente ‘ncopp’â dritta. Nun saccio comm’è, ma ‘stu jucatore ‘o veco sempe cchiú trevulato (afflitto) ‘a ‘na granna ‘mplucaia (involuzione). Peccato. BEHRAMI 7+ ‘O cane ‘e presa! Quanno se dice ‘o cauffo (acquisto) andivinato! Addó nun ‘o semmenaste lla ‘o truvaste! Azzannaje ‘e feliette ‘e chiunque annate e arreto e ricuperaje pallune ‘mpurtante. A ‘stu mumento è uno ca nun se ne po’ ffà a mmeno! INLER 7 Vincette tutte ‘e sfite cu ‘o centrocampo avverzario. Fuje sfurtunato mancanno ‘e poco pe ddoje vote ‘a rredda: durante ô primmo aione, cu ‘na granna bbotta ‘a fora cugliette ‘o palo e ppo ‘o pallone carambulaje ‘ncuollo a Sorrentino e restaje ‘ncopp’â linia senza trasí! Dinto a n’ata accasione ‘o stesso purtiere aizaje ‘o pallone ‘ncopp’ô travesagno, cuncedenno sulo ‘nu tiro ‘e squina. HAMSIK 7.5 A ll’arranqua decidette ‘e saglí ‘ncarelca (cattedra) e finalmente ‘o Napule passaje. Dettaje ‘o passaggio a zZuniga e ffuttette a sSorrentino ‘ncopp’ô palo luntano. Propizziaje tanti repartite (ripartenze) ca però nun fujeno sfruttate a mmestiere. ZUNIGA 6,5 ‘Sta vota Zuzú me cunvincette e vincenno ‘a sfita cu Frey, mettette tanti pallune a ccentro senza però ca trovasseno furtuna. ‘Na pennellata ‘e Pitloo ll' ajúda fatta a mMarekiaro p’ ‘a rredda risulutiva. Ascette pe proffulazza (precauzione) doppo ca, scattanno, avvertette ‘nu ‘mpiccio musculare. (dô 71° DOSSENA 5,5 – Se guardaje bbuono ‘a camma soja, ma ‘nfase uffenziva se tiraje ‘a pizza sotto, senza pigliarse respunzabbilità!) PANDEV 5,5 Durante ô primmo aione sbagliaje spisso ll'urdemu passaggio e ppe ffà ‘na jucata ‘e fino sotto â porta fallette ‘na rredda. Pe tutt’ ‘o fullé se sacrificaje assaje avasciannose a ccentrocampo, ma nun riuscette a essere cuncreto! Ascette stracquo assaje! (dô 75° VARGAS sv) INSIGNE 7 Tutte ll’azzione cchiú periculose nascetteno dê piere suĵe. Superaje ‘úcolo,’úcolo (facile, facile) ll'avverzario crejanno sempe ll’ommo ‘e cchiú. Êss’ ‘a riggistrà però meglio ‘o tiro ‘mporta ca nun è cchiú cchillo ‘e quanno jucava a pPescara! (da ll’85° DZEMAILI sv) MAZZARRI 5,5 Chi vence ave raggione e ‘o Napule vincette duminanno ‘o fullé ma facette troppa fatica pe sbluccà ‘o risultato. Troppa ‘mprecisione d’ ‘e cuane , ma anche tanta sfurtuna comme a ddinto ‘accasione d’ ‘o palo ‘e Inler(ro).Pe cunziglio mio De Chiacchiaroniis, Biguncino e Ualterino êssen’ ‘a piglià tutta ‘a scuatra e purtarla o a mMuntevergene o a pPumpeje o a ‘o Carmene p’ ‘e ffà bbenedicere ‘mparanza! Pesaje l'assenza sotto â porta ‘e Cavani, acciaccato e ca prubbabbilmente ‘o livurnese vulette sparagnà p’ ‘a trasferta scamosa ‘e miercurí ca vène. D’accordo,ma contro a ddoje aneme longhe comme a cchille d’ ‘o Chievo nun puó ausà Pandev(vo) o Vargas(so)! Tiene a cchillu guaglione ungherese (ca mo nun me ricordo comme ca**o se chiamma) ch’è lluongo e ttuosto?... E ausalo; nun farlo nfracetà comme hê fatto cu tant’ati guagliune! Stamme a ssèntere ‘na grama vota! l’arbitro CELI 4 Scadente comme ô nuvantanove pe cciento ‘e ll’arbitre taliane,êsse vuluto fà ‘o pignuolo e ‘o pricisino, ma sbagliaje quase tutto,e ppe furtuna ‘o ffacette a ffavore d’ ‘o Napule; spisso ‘ntralciaje pure ‘a manovra, mettennose ‘mmiezo senza scanzarse! Miezu scemo, pare ‘o frate cucino d’ ‘o cummannate Schettino e nun sulo fisicamente... E cu cchesto ve saluto. Faccio ll’auguri a cCavani ca, doppo d’esserse arrepusato ajeressera,turnanno ‘ncampo miercurí a Bergamo ce dà ‘a suddisfazzione ‘e struppià ‘a scuatra travante (satellite) d’ ‘a rubbentus(sa), cunzentennoce ‘e mantenere ‘o siconno posto ‘ncrassifica ca, pe ‘sta tempurata, è ttutto chello ca putimmo sperà, visto ca ‘a rubbentus(sa) ‘a stanno accumpagnanno p’ ‘a mana a vvencere n’atu scutetto! Ce sentimmo si vo’ dDio â prossima vota. Staveti bbe’! R.Bracale Brak