giovedì 28 febbraio 2013

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 2ª

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 2ª Ecco ora un altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de ‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere, robivecchi; tale venditore girovago aduso a comprare e rivendere, per poche lire, roba vecchia, usata, di scarso valore tra cui pentolame, cenci, ed abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat. sapone(m), e che indicò in origine una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. ( sapp) solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette industriali che conosciamo, ma un tipo di sapone artigianale molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e non per la pulizia personale), che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, a mo’ di fétte, staccandole con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone della piazza, forse perché venduto non in una qualche specifica bottega (come è invece per altre merci) , ma esclusivamente per istrada /piazza dai venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari ) che ne erano anche i produttori artigianali secondo antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff. di competenza arius→aro. Parliamo ora di alcuni mestieri, due femminili gli altri maschili, irrimediabilmente spariti con il progresso ed il consumismo dilagante. Il primo mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne di cui dico fu quello di capera cioè pettinatrice girovaga che pettinava, con particolare attenzione e capacità ,giovani o mature popolane che (assise su di una sedia di paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera era un lavoro lungo e faticoso tenendo presente l’abbondanza della capigliatura di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in crocchie che in napoletano si dicono tuppi. Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma amava riportare sussurrando ai loro orecchi tutti i fatti soprattutto se piccanti appresi in altre case, per cui la capera era a tutta ragione considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé che le notizie, apprese in gran segreto, circolavano súbito, diventando di dominio comune. capera s.vo f.le = in primis 1 pettinatrice, parrucchiera, acconciatrice. 2 per traslato = pettegola, persona che à l’abitudine di fare e scambiare chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti maliziosi. voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere, cantenera ma canteniere etc. ). tuppe s.vo m.le pl. del sg tuppo = tupè/tuppè, crocchia, chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la nuca; voce adattamento del fr. toupet . L’altro mestiere tipicamente femminile fu quello della lavannara (lavandaia), mestiere che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia apparvero le prime lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche provviste dapprima di vasca per il lavaggio e di rulli per la strizzatura, rulli poi sostituiti con un piú funzionale cestello centrifuga. La lavannara (lavandaia) fu colei che con cadenza settimanale o bisettimanale nel caso di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare che poi provvedeva a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle eleganti case di costoro non esisteva ‘o lavaturo (il lavatoio) in pietra, aggeggio essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale lavaturo ( lavatoio) esisteva in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti. Nella nostra casa di via Foria in un passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (di cui ò détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò già ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni. bucato s.vo m.le 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato | lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime 2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato. Deriv. del francone *bukon 'immergere' Culata s. f. 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi; 2 la biancheria già lavata. Deverbale di colare che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro) cennerale s. m. grosso telo (usato durante il bucato) a trama larga su cui venivano sistemati pezzi di arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere (prelevata dal focolare domestico o acquista da un rivenditore girovago); sulla cenere ed i pezzi d’arbusto si lasciava colare dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del lat. cinere(m) (affine al gr. kónis 'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti. E mi occupo adesso di quattro mestieri esercitati, sino a tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con il progresso ed il consumismo dilagante. , da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine ‘o cenneraro s.vo m.le = ceneraio commerciante girovago che ,alla voce “Oj ne' 'o cenneraro!”,un tempo, comprava e rivendeva alle massaie cenere da usarsi per il bucato sistemata su di ungrosso telo a trama larga ch’era il già détto cennerale venduto a chi ne fósse sprovvisto dal medesimo cenneraro; sul telo, come ricordato, venivano sistemati arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate, quando tutta l’acqua era passata e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole augurandosi che questo non mancato e anzi, fosse uscito facendo capolino tra le nuvole. ‘o cenneraro s.vo m.le è etimologicamente voce denominale di cennere ( dal lat. cinere(m),con raddoppiamento espressivo della nasale dentale (n) cinere(m) è affine al gr. kónis 'polvere')addizionato del suffisso di competenza arius→aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali. E veniamo al conciambrielle s.vo m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza riparava ombrelli illico et immediate, seduto sul marciapiedi all’imboccatura di bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso di un ombrello elegante e funzionante forniva ai giovanotti l'occasione per contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo artiere girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di conciatiane s.vo m.le = era colui che riparava stoviglie rotte di terracotta o ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e precisione consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione, far combaciare con precisione i pezzi e ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano provvisto di punta sottile) dei minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per torsione; il lavoro veniva completato spalmando ad abundantiam con mastice le connessure. la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico del sg. ‘mbrello ( adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello, rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella 'parasole'). La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana s.vo f.le = pentola, tegame a bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le tiano utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; rammento che in questo caso si fa eccezione alla regola che vuole che in napoletano si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno eccezione appunto tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. )ed il maschile tiano indica una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile; Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de ll’arganattore s.vo m.le che indicava un tintore di panni che usava una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne= alcanna); da arganetta si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal lat. mediev. alchanna(m), che è dall'ar. alhinna, cfr. henna) è un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam. Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella confezione di cosmetici e medicinali. E termino accennando al mestiere che non è piú errabondo dell’arrotino di forbici, di coltelli per usi domestici,ed artigianali (macellai, sellai etc.), di rasoi da barbiere, mestiere che perdura in qualche sparuta bottega: nella città bassa non v’è che una sola caotica botteguccia confinata in un angolo di piazza san Francesco. Sto dicendo de l'ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino girovago che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un suo caratteristico carrettino sormontato dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire l’affilatura delle lame; sul finire degli anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino all’angolo di piazza san Francesco. ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino La voce è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito ammulà = arrotare, molare, affilare ( dal lat. *ad-molare, derivato del lat. mola(m), dalla stessa radice di molere 'macinare'= mola, utensile rotante costituito da un disco di materiale abrasivo, usato in diverse macchine utensili (molatrici, affilatrici, levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. frobbice = forbici; la voce napoletana è una lettura metatetica del lat. volg. *forbice(m)→ *frobice(m)→ *frobbice(m) per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo della occlusiva bilabiale sonora (b) E chiudo queste paginette soffermandomi ora su di un mestiere da venditore girovagoche esistette un tempo ed oggi ancóra esiste solo nelle zone piú popolari della città bassa; si tratta di mestiere che dirò stagionale atteso che chi lo esercitava (uomo o donna) cambiava con rotazione stagionale la merce da vendere: in primavera ed in estate questa/o venditrice/tore girovaga/o offriva pannocchie di mais (‘e spogne) una volta bollite, altra volta abbrustolite, mentre in autunno ed inverno offriva castagne che se lessate con la buccia dura erano chiamate vallene/vallane o bballuotte, se lessate senza buccia erano détte allesse; quando poi invece erano abbrustolite prendevano il nome di veróle. Tale venditrice/tore girovaga/o cambiava con la merce anche il nome ed era semplicente chella o chillo d’ ‘e spogne quando vendeva pannocchie di mais, ed era chella o chillo d’ ‘e vvallane o d’allesse se vendeva castagne lessate, mentre finalmente era ‘a castagnara oppure ‘o castagnaro se vendeva castagne arrostite/bruciate. Scendiamo un po’ nei particolari. Questa/o venditrice/tore girovaga/o si serviva di un rabberciato, ampio carruociolo/carruocciolo, trainato con una cordicella, carruociolo/carruocciolo su cui era montato un gran braciere alimentato a carbone sul quale insisteva un paiolo nel quale erano lessate o le pannocchie di mais (‘e spogne) oppure le castagne chiamate vallene/vallane o quelle détte allesse; quando poi la merce non andava lessata, ma abbrustolita, braciere e paiolo erano sostituiti da un alto fucone anch’esso alimentato a carbone sormontato da una griglia per abbrustolire le pannocchie (spogne) o da un padellone forato (verularo) per abbrustolire/bruciare le castagne (veróle). Qui giunti esaminiamo le significative voci incontrate: spogna s.vo f.le 1.in primis spugna 2 per traslato ingegno della chiave 3. per traslato come nel caso che ci occupapannocchia di mais 4. per traslato gran bevitore; i significati traslati sub 2 e 3 semanticamente si ricollegano al primo per una somiglianza di forma; quello sub 4 si ricollega al primo per somiglianza di funzione: quella di assorbire; voce metatetica del lat. spongia(m), dal gr. sponghía; vàllene/vàllane s.vo f.le plur. del m.le vàlleno/vàllano= marrone, varietà di castagna piú grossa e pregiata della normale castagna ; come questa privata del riccio e della dura scorza esterna e lessata in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dall’acc.vo lat. bàlanu(m), con tipica alternanza partenopea b/v e raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (l), tipico nel tipo di parole sdrucciole (cfr. còllera←cholera(m); quando le castagne siano bollite private del riccio, ma non della buccia dura vengon piú acconciamente détte bballuotte (voce derivata con gran probabilità dall'ar. ballut 'ghianda');a margine della voce in esame rammento una gustosa, antica espressione popolare usata sarcasticamente quando ci si voglia riferire alla pochezza di mezzi economici conferiti per il raggiungimento di uno scopo; quando quei mezzi siano molto esigui s’usa dire: Aeh, ce accatte ‘o ssale p’’e vallane! (Eh,ci copri il sale per le castagne bollite); allesse s.vo f.le plur. di allessa= castagna privata del riccio e della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio che riporto elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part. pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa; veróla s.vo f.le = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) e delle valleni (castagne bollite)) sia nella Campania che nel Lazio che nelle Marche; verularo s.vo m.le= padellone bucherellato per arrostirvi le castagne;ma è voce quasi esclusivamente campana, denominale della precedente verola addizionata del suffisso aro/a suff. di competenza per sostantivi o aggettivi derivati dal latino o formati in italiano, che indicano oggetti,ma soprattutto mestieri (putecaro/bottegaio,rilurgiaro/orologiaio) oppure luoghi(lutammaro/letamaio), ambiente pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa suffisso che continua il lat. arius→aro; lo stesso latino a(r)iu(s) à dato l’italiano aio che in napoletano è spesso nei suffissi composti ajo. carruociolo/carruocciolo s.vo m.le una tavola di legno di forma rettangolare all’incirca cm.70/80 di lunghezza e cm. 20/25 di larghezza, poggiante su due assi fisse sporgenti inchiodati nel solo punto centrale, portanti ciascuno due rotelle all’estremità. Come rotelle si utilizzano generalmente cuscinetti meccanici usati, dismessi e donati da qualche meccanico.Veniva usato sia come mezzo per trasporto di merci e/o masserizie (come nel caso che ci occupa),sia come giocattolo per bambini che dopo una breve rincorsa, salendovi sopra, affrontavano discese abbastanza ripide riuscendo ad effettuare anche delle curve, grazie alla parte anteriore del carruociolo/carruocciolo sagomata con due tagli ad angoli retti per permettere alle ruote anteriori di sterzare per mezzo di tiranti, collegati a queste ultime e ad un manubrio fissato su un piccolo ceppo, posto sopra la tavola. la voce fu attestata nella doppia morfologia: carruociolo/carruocciolo; la prima fu usata nella città bassa, in luogo piú pianeggiante dove il giocattolo non dovendo affrontare ripide discese,veniva trainato risultando meno rumoroso cosa che suggeriva l’uso di un nome piú dolce evitando di raddoppiare l'affricata palatale sorda (c); la morfologia carruocciolo (con raddoppiamento espressivo dell'affricata palatale sorda (c) fu usata in collina dove la presenza di declivi ripidi favoriva la rumorosità del mezzo e suggeriva l’uso d’ un nome piú duro; in ambedue le morfologie la voce etimologicamente è dal tardo latino, di origine gallica carruculum- dim. di carrus. fucone s.vo m.le: fornello, focolare, caldano di grosse dimensioni contenente il fuoco usato in istrada; su di esso era poggiata la griglia per arrostire le spighe di mais, oppure il padellone forato per le caldarroste oppure il calderone colmo d'olio per la cottura delle pizze fritte; voce denominale del tardo lat. *fōcu(m) per il class. fŏcu(m). Tratto ora, concludendo di altro antico (pressoché sparito) mestiere girovago peculiare della città bassa e di pertinenza maschile, ancorché lo potesse fare anche una donna, ma – a mia memoria – mai m’occorse di vederne. Sto dicendo del mestiere di carnacuttaro/cajunzaro che fu il venditore girovago, su di un approntato carrettino del complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine già nettate e lessate al vapore, atte ad essere consumate servite ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa erano prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che veniva prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale, corno bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno veniva portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendulo sul davanti del corpo.Dall’osservazione della figura del carnacottaro/cajunzaro e del suo modo di portare il corno per distribuire il sale si coniò un’icastica,furbesca espressione che qui riporto: Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a carnacotta Letteralmente: Adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Con tale espressione suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla.Come si vede ci si riferisce al corno del carnacottaro/cajunzaro portato pendulo in vita; proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche maschili del corpo, permettono alla locuzione di avere un suo significato furbesco con cui si vuol comunicare che ci si trova nell'impossibilità reale o volontaria di aderire alle richieste. cuorno s.vo m.le = corno prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏ→uo nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi rispettivamente dalla propria compagna, o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso usati come portafortuna;ugualmente con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati e talvolta tinti di rosso tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a precisi requisiti, dovendo necessariamente essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur. russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber; tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tostu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea della o→uo; stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tortu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della o→uo; vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; non bisogna dimenticare l’esistenza d’un altro tipico cuorno quello appunto del carnacuttaro s.vo m.le = girovago venditore di trippe bovine che nettate, lavate, e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero voce denominale di carnacotta s.vo f.le = nome generico usato per indicare le trippe bovine o suine già lessate ed atte al consumo; per ottenere la voce a margine: carnacuttaro, al s.vo carnacotta (agglutinazione funzionale di carne + cotta) è aggiunto il suff. aro (cfr. antea) ;carnacotta addizionato di aro per metafonia divenne carnacutta. cajunzaro s.vo m.le =sinonimo del precedente; voce denominale di cajonza s.vo f.le = sacco intestinale , trippa, intestini delle bestie vaccine macellate; voce adattamento dello spagnolo callos→cajons→cajonza; in ispagnolo c’è anche l’espressione callos de tripa puntualmente riprodotta nel napoletano callo ‘e trippa per indicare un determinato tipo di carnacotta; anche per la voce a margine si ricorse ìal suff. aro (cfr. antea) addizionato al s.vo cajonza che per metafonia divenne cajunza. E cosí penso proprio d’avere contentato l’amica D.P. ed interessato anche qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi dovesse imbattersi in queste paginette. Penso perciò di poter concludere con il consueto satis est. R.Bracale ALTRI ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI. Sollecitato dalla richiesta dell’amico P.G. (del quale per i consueti problemi di riservatezza indico le sole iniziali delle generalità) che mi si disse molto soddisfatto ed interessato di ciò che alibi scrissi sull’antico mestiere del rammariello, qui di sèguito illustro alcuni altri vecchi e desueti mestieri napoletani, sperando di interessare lui e qualcun altro dei miei consueti ventiquattro lettori. Principio perciò con il parlare del VRENNAJUOLO o (secondo un’antica terminologia del D’Ambra SCIUSCELLARO. Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il mezzo di trasporto piú usato non era certo l'automobile, ma il cavallo. Questo sciuscellaro o vrennajuolo era un venditore che alienava ai suoi numerosi clienti(vatecare provvisti di carretto e cavallo per il trasporto delle merci,titolari di imprese di pompe funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con carrozza padronale) orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna),e carrube(in napoletano sciuscelle), tutti elementi necessari nella gestione dei cavalli. Ò parlato di tardo ottocento,ma rammento bene che,negli anni ’50 del 1900 quand'ero ragazzo, c'era ancóra forse l’ultimo negozio di vrennajuolo alla fine di Via Foria,proprio all’angolo con la chiesa di S.Antonio Abate dove oggi, se non erro, mi pare che ci sia (in quel medesimo locale) un venditore di ferramenta cioè di assortimento di minuterie ed oggetti metallici per uso domestico ed artigianale;rammento che lí in quella bottega di vrennajuolo, benché mia madre mi vietasse di farlo, compravo (prelevate da sacchi polverosi e – devo riconoscere – poco igienici) delle carrube o sciuscelle che mangiavo voracemente.Prima di soffermarci sulle parole incontrate ricordo che il piú importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta camorrista don Ciccio Cappuccio, successore del famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo; costui era nato nel 1816, appartenente ad una famiglia di saltimbanchi molto conosciuta ed apprezzata nella zona di Porta Capuana. Ma, la vita del circo, non gli si confaceva; ad appena 14 anni infatti entrò a far parte della Bella Società Riformata ed a soli 33 divenne capo indiscusso della stessa, gridando: “Ò trentatré anni, l'età di Cristo. E se a trentatré anni Cristo salí al cielo, "Tore 'e Criscienzo" può ben diventare un capintesta “;fu per lungo tempo la massima autorità cittadina in fatto di camorra contrastato da un altro celebre guappo quel Totonno ‘e Porta Massa che finí i suoi giorni assassinato per ordine della Gran Mamma il 3 ottobre del 1862,ed alla sua morte Tore 'e Criscienzo, vecchio e stanco si ritirò dando campo libero a don Ciccio Cappuccio che soprannominato ‘o signurino per i suoi modi eleganti ed educati, aveva avuto come scuola l’Imbrecciata ‘e san Francisco, violenta zona nel cuore della Vicaria, dove il padre aveva una bettola. Ciccio Cappuccio conobbe presto il carcere della Vicaria ed ivi nacque la leggenda intorno al suo personaggio, quando, circondato (come era in uso) - dai camorristi che gli chiedevano l’ “olio per la lampada”, ovvero che lo sottoponevano ad estorsione, Ciccio si rifiutò di pagare e da solo lottò contro dodici carcerati. In seguito fu mandato a Ventotene. Al ritorno lasciò la zona della Vicaria per trasferirsi in Piazza S. Ferdinando, e lí come copertura della sua attività camorristica aprí, nei locali dove oggi c'è un negozio di oggetti in pelle, un negozio di crusca e carrube, mercato strategico che gli permetteva di avere il controllo della compravendita dei cavalli e dell’attività dei cocchieri, gruppo, quest’ultimo, sul quale 'o signurino aveva un ascendente fortissimo e sul quale aveva il monopolio delle tangenti. Devotissimo alla Madonna di Montevergine, Ciccio morí di malattia il 6 dicembre del 1892. vrennajuolo s.vo m.le = venditore di crusca,biada ed affini voce denominale di vrenna (da un lat. med. brinna,)con l’aggiunta del suffisso aiolo/aiuolo/ajuolo suffisso costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo, vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo). sciuscellaro s.vo m.le = venditore di carrube, crusca,biada ed affini; voce denominale di sciuscella (e mi dilungo a seguire)con l’aggiunta del suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; sciuscella= carruba La voce femminile sciuscella (plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con derivazione dall’arabo harruba ) carruba cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam. Leguminose) ed un tempo vennero usati come passatempo goloso per bambini ; mentre come termine gergale la voce carruba vale carabiniere (per il colore nero della divisa, che richiama appunto quello bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però non solo come foraggio per cavalli e buoi, o – un tempo - come passatempo dolcissimo per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali. Nell’idioma napoletano la voce femminile sciuscella conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare qualsiasi oggetto che sia di poca consistenza e/o resistenza con riferimento semantico alla cedevolezza del frutto del carrubo, frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad esempio di un mobile che non sia di stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di compensato assemblati a caldo con collanti chimici s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente! Alla medesima maniera ci si esprime nei riguardi di ogni altro oggetto privo di consistenza e/o resistenza. Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che nell’idioma napoletano vi fu un tempo una voce maschile (o neutra) ora del tutto desueta che suonò sciusciello voce che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu, il salentino sciuscille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono, nelle rammentate parlate regionali, l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc. E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe. Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la voce sciuscella , a ciò che nel suo conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed accoglie solo sciuscella in ordine alla quale però sceglie pilatescamente di trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né – stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive! Mi pare invece che sia correttamente perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali, per la voce sciusciello, rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto. Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che per sciuscella si possa correttemente pensare ad un derivato neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi; quel neutro plurale fu poi inteso femminile. Semanticamente forse la faccenda si spiega (a mio avviso) con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e bevande medicinali che posson far forse pensare a dei brodini. E passiamo al/alla PATERNUSTRARO/A mestiere antico ma protrattosi fino a tutto il 1950 quando ancóra lo esercitava in via Martiri d’Otranto adiacenze Benedetto Cairoli una portiera détta ‘a sié Curdella; Curdella non era il suo cognome, ma un soprannome probabilmente in relazione ai cordini che usava per fabbricare corone del santo Rosario; in effetti il/la paternustraro/a era colui o piú spesso colei che,con pazienza certosina, fabbricava corone del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi delle carrubbe (sciuscelle), bucati all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei forellini il filo ed i semi venivano poi fermati in posizione con successivi minuscoli nodi. La voce paternustraro/a deriva dall’agglutinazione delle voci latine pater noster→paternustr addizionate del consueto suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; monosillabo che è usato per indicare la voce signora; si tratta di sié monosillabo che è usato per indicare la voce signora;per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." invece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa. E passo ora a dire de ‘O ZARELLARO (molto più spesso, 'a zarellara), mestiere antico, ma ancóra in uso quantunque ridimensionato per ciò che riguarda numero e tipo di mercanzia smerciata. Un tempo fino a tutto il 1950 ‘o/’a zarellaro/a aveva una bottega dove si poteva trovava di tutto, una sorta di emporio ante litteram dove si smerciava ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni, spugne marine, spugnette metalliche ,sapone per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze pe lavà 'nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di competenza dei cartolai o dei supermarket: quaderni, blocchi di fogli per il disegno, matite e penne comuni con relativi pennini,boccette d’inchiostro, gomme per cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne, nettapenne, pastelli e portapastelli; non mancavano piccoli giocattoli come cavallucci in legno o di cartapesta, bilancine e bamboline o bambolotti,nonché scopini (scupilli) per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia (spingule 'e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe, lucido per pulirle (‘a crumatina) e relative spazzole, siringhe ed aghi per iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della Festa di piedigrotta sciosciamosche, mazzarielle, cuppulune, cappielle ‘e carta e carta crespata, carta velina, carta oleata e cartoncino per la fabbricazione dei vestitini di carta, ed infine finanche "pappagalli" e "pale" per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro, ovviamente senza averne la licenza, vendeva anche paparelle 'e zuccaro, caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.Dopo il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia, bottoni automatici e chiusure zip e per tutto il resto fu giocoforza servirsi dei magazzini STANDA ed UPIM. zarellaro/a, zagrellaro/a, zagarellaro/a = merciaioa son voci derivate da zagarella/ zarella/ziarella che etimologicamente nella triplice morfologia (la seconda e terza voce son solo delle semplificazioni d’uso popolare della prima voce)sono adattamenti collaterali di zaganella diminutivo di zàgana s.vo f.le che è voce region., di area umbro-laziale, dove indica una sottile treccia di lana o di seta per rifinitura di abiti femminili;quanto all’etimo di questa zàgana da cui àn preso derivazione zaganella nonché le voci in esame che – ripeto – ne son collaterali, atteso che zàgana è voce affine a sagola di cui pare addirittura un metaplasmo regionale, si può sospettare un adattamento della voce portoghese soga (fune, corda) secondo il percorso soga→sogana →sagana→zagana sempre che la voce zàgana non sia un adattamento dell’arabo zahara ( chiaro,splendente) poi che in origine la zàgana (nastro, fettuccia) fu esclusivamente bianco usato per agghindare il capo delle fanciulle in abito bianco da prima comunione). E veniamo a parlare de ‘O SANZARO s.vo m.le e solo m.le è rarissimo l’ uso di adattato al femminile ‘a sanzara indicò in primis il mediatore, l’intermediario per la compravendita di prodotti agricoli e di bestiame; in seguito la mediazione si estese ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare (intermediario marittimo, mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel campo dei traffici marittimi. sanzaro ‘e terra (intermediario per la compravendita o affitto di case e/o terreni). Da ultimo con significato. ancora piú ampio: sanzaro ‘e matremmonie (procacciatore di matrimonî.) poteva essere il mediatore per fittare case o anche quello che procurava matrimoni.Costui s’ebbe il nomignolo di cauzette rosse in quanto per una sorta di identificazione alla strega dei cosidetti paglietti (cfr. ultra)che indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per farsi distinguere, indossava calze di color rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.Ancóra oggi,nella città bassa, quando qualcuno cerca di procurare occasioni d'incontro affiché due ragazzi si fidanzino per giungere al matrimonio s’usa accreditarlo di aver indossato cauzette rosse. etimologicamente la voce sanzaro è dall'ar. simsar, che è dal persiano sapsar. E passiamo ora a dire del mestiere dei pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta che di per sé è femminile ed al plurale va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro; ancóra oggi il mestiere del paglietta resiste ed è esercitato da quei giovani e quindi inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere. Ecco ora un altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de ‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere, robivecchi; tale venditore girovago aduso a comprare e rivendere, per poche lire, roba vecchia, usata, di scarso valore tra cui pentolame, cenci, ed abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat. sapone(m), e che indicò in origine una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. ( sapp) solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette industriali che conosciamo, ma un tipo di sapone artigianale molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e non per la pulizia personale), che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, a mo’ di fétte, staccandole con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone della piazza, forse perché venduto non in una qualche specifica bottega (come è invece per altre merci) , ma esclusivamente per istrada /piazza dai venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari ) che ne erano anche i produttori artigianali secondo antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff. di competenza arius→aro. E chiudo queste paginette parlando di alcuni mestieri, due femminili gli altri maschili, irrimediabilmente spariti con il progresso ed il consumismo dilagante. Il primo mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne di cui dico fu quello di capera cioè pettinatrice girovaga che pettinava, con particolare attenzione e capacità ,giovani o mature popolane che (assise su di una sedia di paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera era un lavoro lungo e faticoso tenendo presente l’abbondanza della capigliatura di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in crocchie che in napoletano si dicono tuppi. Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma amava riportare sussurrando ai loro orecchi tutti i fatti soprattutto se piccanti appresi in altre case, per cui la capera era a tutta ragione considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé che le notizie, apprese in gran segreto, circolavano súbito, diventando di dominio comune. capera s.vo f.le = in primis 1 pettinatrice, parrucchiera, acconciatrice. 2 per traslato = pettegola, persona che à l’abitudine di fare e scambiare chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti maliziosi. voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere, cantenera ma canteniere etc. ). tuppe s.vo m.le pl. del sg tuppo = tuppè, crocchia, chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la nuca; voce adattamento del fr. toupet L’altro mestiere tipicamente femminile fu quello della lavannara (lavandaia), mestiere che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia apparvero le prime lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche provviste dapprima di vasca per il lavaggio e di rulli per la strizzatura, rulli poi sostituiti con piú funzionale cestello centrifuga. La lavannara (lavandaia) fu colei che con cadenza settimanale o bisettimanale nel caso di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare che poi provvedeva a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle eleganti case di costoro non esisteva ‘o lavaturo (il lavatoio) in pietra essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale lavaturo ( lavatoio) esisteva in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti. Nella nostra casa di via Foria in un passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (di cui ò détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò già ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni. bucato s.vo m.le 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato | lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime 2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato. Deriv. del francone *bukon 'immergere' Culata s. f. 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi; 2 la biancheria già lavata. Deverbale di colare che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro) Cennerale s. m. grosso telo (usato durante il bucato) a trama larga su cui venivano sistemati pezzi di arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere (prelevata dal focolare domestico); sulla cenere ed i pezzi d’arbusto si lasciava colare dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del lat. cinere(m) (affine al gr. kónis 'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti. E mi occupo infine di quattro mestieri esercitati, sino a tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con il progresso ed il consumismo dilagante. , da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine ‘o cenneraro s.vo m.le = ceneraio commerciante girovago che ,alla voce “Oj ne''o cenneraro",un tempo, comprava e rivendeva alle massaie cenere da usarsi per il bucato sistemata su di ungrosso telo a trama larga detto cennerale venduto a chi ne fósse sprovvisto dal medesimo cenneraro; sul telo, come ricordato, venivano sistemati arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate, quando tutta l’acqua era passata e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole augurandosi che questo non mancato e anzi, fosse uscito facendo capolino tra le nuvole. ‘o cenneraro s.vo m.le è etimologicamente voce denominale di cennere ( dal lat. cinere(m),con raddoppiamento espressivo della nasale dentale (n) cinere(m) è affine al gr. kónis 'polvere')addizionato del suffisso di competenza arius→aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali. E veniamo al conciambrielle s.vo m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza riparava ombrelli illico et immediate, seduto sul marciapiedi all’imboccatura di bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso di un ombrello elegante e funzionante forniva ai giovanotti l'occasione per contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo artiere girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di conciatiane s.vo m.le = era colui che riparava stoviglie rotte di terracotta o ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e precisione consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione, far combaciare con precisione i pezzi e ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano provvisto di punta sottile) dei minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per torsione; il lavoro veniva completato spalmando ad abundantiam con mastice le connessure. la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico del sg. ‘mbrello ( adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello, rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella 'parasole'). La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana s.vo f.le = pentola, tegame a bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le tiano utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; rammento che in questo caso si fa eccezione alla regola che vuole che in napoletano si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno eccezione appunto tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. )ed il maschile tiano indica una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile; Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de ll’arganattore s.vo m.le che indicava un tintore di panni che usava una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne= alcanna); da arganetta si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal lat. mediev. alchanna(m), che è dall'ar. alhinna, cfr. henna) è un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam. Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella confezione di cosmetici e medicinali. E termino accennando al mestiere che non è piú errabondo dell’arrotino di forbici, di coltelli per usi domestici,ed artigianali (macellai, sellai etc.), di rasoi da barbiere, mestiere che perdura in qualche sparuta bottega: nella città bassa non v’è che una sola caotica botteguccia confinata in un angolo di piazza san Francesco. Sto dicendo de l'ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino girovago che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un suo caratteristico carrettino sormontato dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire l’affilatura delle lame; sul finire degli anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino all’angolo di piazza san Francesco. ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino La voce è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito ammulà = arrotare, molare, affilare ( dal lat. *ad-molare, derivato del lat. mola(m), dalla stessa radice di molere 'macinare'= mola, utensile rotante costituito da un disco di materiale abrasivo, usato in diverse macchine utensili (molatrici, affilatrici, levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. frobbice = forbici; la voce napoletana è una lettura metatetica del lat. volg. *forbice(m)→ *frobice(m)→ *frobbice(m) per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo della occlusiva bilabiale sonora (b) E cosí penso proprio d’avere contentato l’amico P.G. ed interessato anche qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e di poter concludere con il consueto satis est. R.Bracale

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 1ª

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 1ª Mi è stato chiesto da una cara amica della quale per questioni di riservatezza mi limito ad indicare le sole iniziali delle generalità D.P., mi è stato chiesto – dicevo – di spender qualche parola sull’argomento in epigrafe. L’accontento súbito augurandomi di interessare anche qualche altro dei miei ventiquattro lettori e comincio con il dire del rammariello. Tra i numerosi bassi mestieri che un tempo furono esercitati dai napoletani e che oggi sono completamente desueti: ‘mpagliasegge (impagliatori di sedie), ‘mmolafuorfece (arrotini), conciambrelle, conciatiane (riparatori di ombrelli, di stoviglie) stagnaro (che non è l’odierno idraulico, sebbene quest’ultimo in napoletano sia conosciuto con il nome di stagnaro, ma quell’artiere che provvedeva a ricoprire di stagno le pareti interne(quelle che sarebbero dovuto andare a contatto con i cibi cotti) delle pentole di rame ) un posto di rispetto merita ‘o rammariello che fu - si può dire – il primo ideatore delle cosiddette vendite rateali a domicilio; costui girava di casa in casa vendendo principalmente biancheria personale e da casa (ma anche altre piccole merci di cui fosse richiesto: filati, trine etc.) e tutto ciò che occorresse per mettere insieme un adeguato corredo da sposa; il corredo è l'insieme degli abiti, della biancheria e degli altri effetti personali di cui si dispone; si dice soprattutto di ciò che la sposa porta con sé per farne uso nella vita matrimoniale: corredo nuziale. La particolarità e precipuità della vendita fatta dal rammariello erano date dal fatto che, consegnata tutta la merce pattuita e/o richiesta, il venditore passava a riscuotere di mese in mese le contenute rate in cui veniva suddiviso il prezzo stabilito, permettendo in tal modo anche ai meno abbienti, con piccoli esborsi mensili, di assicurarsi buona merce ( mai il rammariello avrebbe ceduto merce scadente: correva il rischio di perder la clientela e perciò il lavoro ed un sia pure modesto guadagno!). E veniamo all’origine della parola rammariello; come si intuisce si tratta del diminutivo di rammaro che fu il ramaio, cioè il venditore di utensili da cucina che furono di rame (ramma) etimologicamente da ramma (a sua volta da un basso latino (ae)ràmen da aes/aeris=rame,bronzo, con procope d’avvio di ae, raddoppiamento espressivo della m, e cambio di genere) + il suffisso di pertinenza arius→aro. Originariamente ‘o rammaro fu il venditore porta a porta delle stoviglie di rame; quando poi – con l’avvento dell’alluminio - non si vendettero piú pentole e stoviglie (mestoli, schiumarole, cucchiaie e forchettoni) il ramaio fu costretto a cambiar merce e si adattò a vendere biancheria personale ( camicie da notte, sottovesti etc.) e da casa (coperte, lenzuola, asciugamani etc) inventandosi per attirare la clientela (…la nuova mercanzia era piú costosa del pregresso pentolame in rame) la vendita rateale, ed il popolino gli confezionò ipso facto il nome di rammariello che ricordasse l’antico mestiere di ramaio ed il nome di rammariello fu usato da tutti coloro che vendevano biancheria a domicilio, anche da quelli che presero a fare tale mestiere pur senza essere stati dapprima ramai. A completamento rammentiamo anche gli etimi di: ‘mpagliasegge (impagliatori di sedie): ‘mpaglia voce verbale 3ª p. sing. ind. pres. di ‘mpaglià= impagliare dal latino attraverso un in illativo + palea(m) + segge = plur. di seggia che è da sedja con dj→gg; a sua volta: sedja= sedia è lettura metatetica di sieda cong. esortativo da un latino sedíre; - ‘mmolafuorfece (arrotini) = ammola + fuorfece: ammola voce verb. 3ª p. sing. ind. pres. di ammulà = arrotare dal latino ad + mola(m) = passare alla mola; fuorfece plurale metafonetico di forfece da un acc. latino forfice(m)= forbici - conciambrelle (chi aggiusta gli ombrelli) da concia o acconcia voce verbale 3ª p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + ‘mbrelle plurale adattato (normalmente dovrebbe esser ‘mbrielle) di ‘mbrello = ombrello da un basso latino umbrella maschilizzato. - conciatiane (chi ripare le pentole) da un concia o acconcia vedi sopra + tiane plurale di tiana da un basso latino tejana femminile di un tejano che fu dal greco tégano collaterale di tàghenon= pentola, padella. Esaurito l’argomento rammariello, qui di sèguito illustro alcuni altri vecchi e desueti mestieri napoletani, principio perciò con il parlare del vrennajuolo o (secondo un’antica terminologia del D’Ambra sciuscellaro. Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il mezzo di trasporto piú usato non era certo l'automobile, ma il cavallo. Questo sciuscellaro o vrennajuolo era un venditore che alienava ai suoi numerosi clienti(vatecare provvisti di carretto e cavallo per il trasporto delle merci,titolari di imprese di pompe funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con carrozza padronale) orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna),e carrube(in napoletano sciuscelle), tutti elementi necessari nella gestione dei cavalli. Ò parlato di tardo ottocento,ma rammento bene che,negli anni ’50 del 1900 quand'ero ragazzo, c'era ancóra forse l’ultimo negozio di vrennajuolo alla fine di Via Foria,proprio all’angolo con la chiesa di S.Antonio Abate dove oggi, se non erro, mi pare che ci sia (in quel medesimo locale) un venditore di ferramenta cioè di assortimento di minuterie ed oggetti metallici per uso domestico ed artigianale;rammento che lí in quella bottega di vrennajuolo, benché mia madre mi vietasse di farlo, con qualche soldarello avuto in dono e che potevo gestire compravo (prelevate da sacchi polverosi e – devo riconoscere – poco igienici) delle carrube o sciuscelle che mangiavo voracemente.Prima di soffermarci sulle parole incontrate ricordo che il piú importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta camorrista don Ciccio Cappuccio, successore del famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo; costui era nato nel 1816, appartenente ad una famiglia di saltimbanchi molto conosciuta ed apprezzata nella zona di Porta Capuana. Ma, la vita del circo, non gli si confaceva; ad appena 14 anni infatti entrò a far parte della Bella Società Riformata ed a soli 33 divenne capo indiscusso della stessa, gridando: “Ò trentatré anni, l'età di Cristo. E se a trentatré anni Cristo salí al cielo, "Tore 'e Criscienzo" può ben diventare un capintesta “;fu per lungo tempo la massima autorità cittadina in fatto di camorra contrastato da un altro celebre guappo quel Totonno ‘e Porta Massa che finí i suoi giorni assassinato per ordine della Gran Mamma il 3 ottobre del 1862,ed alla sua morte Tore 'e Criscienzo, vecchio e stanco si ritirò dando campo libero a don Ciccio Cappuccio che soprannominato ‘o signurino per i suoi modi eleganti ed educati, aveva avuto come scuola l’Imbrecciata ‘e san Francisco, violenta zona nel cuore della Vicaria, dove il padre aveva una bettola. Ciccio Cappuccio conobbe presto il carcere della Vicaria ed ivi nacque la leggenda intorno al suo personaggio, quando, circondato (come era in uso) - dai camorristi che gli chiedevano l’ “olio per la lampada”, ovvero che lo sottoponevano ad estorsione, Ciccio si rifiutò di pagare e da solo lottò contro dodici carcerati. In seguito fu mandato a Ventotene. Al ritorno lasciò la zona della Vicaria per trasferirsi in Piazza S. Ferdinando, e lí come copertura della sua attività camorristica aprí, nei locali dove oggi c'è un negozio di oggetti in pelle, un negozio di crusca e carrube, mercato strategico che gli permetteva di avere il controllo della compravendita dei cavalli e dell’attività dei cocchieri, gruppo, quest’ultimo, sul quale 'o signurino aveva un ascendente fortissimo e sul quale aveva il monopolio delle tangenti. Devotissimo alla Madonna di Montevergine, Ciccio morí di malattia il 6 dicembre del 1892. vrennajuolo s.vo m.le = venditore di crusca,biada ed affini voce denominale di vrenna (da un lat. med. brinna,)con l’aggiunta del suffisso aiolo/aiuolo/ajuolo suffisso costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo, vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo). sciuscellaro s.vo m.le = venditore di carrube, crusca,biada ed affini; voce denominale di sciuscella (e mi dilungo a seguire)con l’aggiunta del suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; sciuscella= carruba La voce femminile sciuscella (plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con derivazione dall’arabo harruba ) carruba cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam. Leguminose) ed un tempo vennero usati come passatempo goloso per bambini ; mentre come termine gergale la voce carruba vale carabiniere (per il colore nero della divisa, che richiama appunto quello bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però non solo come foraggio per cavalli e buoi, o – un tempo - come passatempo dolcissimo per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali. Nell’idioma napoletano la voce femminile sciuscella conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare qualsiasi oggetto che sia di poca consistenza e/o resistenza con riferimento semantico alla cedevolezza del frutto del carrubo, frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad esempio di un mobile che non sia di stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di compensato assemblati a caldo con collanti chimici s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente! Alla medesima maniera ci si esprime nei riguardi di ogni altro oggetto privo di consistenza e/o resistenza. Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che nell’idioma napoletano vi fu un tempo una voce maschile (o neutra) ora del tutto desueta che suonò sciusciello voce che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu, il salentino sciuscille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono, nelle rammentate parlate regionali, l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc. E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe. Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la voce sciuscella , a ciò che nel suo conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed accoglie solo sciuscella in ordine alla quale però sceglie pilatescamente di trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né – stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive! Mi pare invece che sia correttamente perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali, per la voce sciusciello, rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto. Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che per sciuscella si possa correttemente pensare ad un derivato neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi; quel neutro plurale fu poi inteso femminile. Semanticamente forse la faccenda si spiega (a mio avviso) con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e bevande medicinali che posson far forse pensare a dei brodini. E passiamo ora al/alla paternustraro/a mestiere antico ma protrattosi fino a tutto il 1950 quando ancóra lo esercitava in via Martiri d’Otranto adiacenze Benedetto Cairoli una portiera détta ‘a sié Curdella; Curdella non era il suo cognome, ma un soprannome probabilmente in relazione ai cordini che usava per fabbricare corone del santo Rosario; in effetti il/la paternustraro/a era colui o piú spesso colei che,con pazienza certosina, fabbricava corone del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi delle carrubbe (sciuscelle), bucati all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei forellini il filo ed i semi venivano poi fermati in posizione con successivi minuscoli nodi. La voce paternustraro/a deriva dall’agglutinazione delle voci latine pater noster→paternustr addizionate del consueto suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; monosillabo che è usato per indicare la voce signora; si tratta di sié monosillabo che è usato per indicare la voce signora;per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." invece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa. E passo ora a dire de ‘o zarellaro (molto più spesso però , 'a zarellara), mestiere antico, ma ancóra in uso quantunque ridimensionato per ciò che riguarda numero e tipo di mercanzia smerciata. Un tempo fino a tutto il 1950 ‘o/’a zarellaro/a aveva una bottega dove si poteva trovava di tutto, una sorta di emporio ante litteram dove si smerciava ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni, spugne marine, spugnette metalliche ,sapone per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze pe lavà 'nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di competenza dei cartolai o dei supermarkets: quaderni, blocchi di fogli per il disegno, matite e penne comuni con relativi pennini,boccette d’inchiostro, gomme per cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne, nettapenne, pastelli e portapastelli; non mancavano piccoli giocattoli come cavallucci in legno o di cartapesta, bilancine e bamboline o bambolotti,nonché scopini (scupilli) per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia (spingule 'e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe, lucido per pulirle (‘a crumatina) e relative spazzole, siringhe ed aghi per iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della Festa di piedigrotta sciosciamosche, mazzarielle, cuppulune, cappielle ‘e carta e carta crespata, carta velina, carta oleata e cartoncino per la fabbricazione dei vestitini di carta, ed infine finanche "pappagalli" e "pale" per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro, ovviamente senza averne la licenza, vendeva anche paparelle 'e zuccaro, caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.Dopo il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia, bottoni automatici e chiusure zip e per tutto il resto fu giocoforza servirsi dei magazzini STANDA ed UPIM. zarellaro/a, zagrellaro/a, zagarellaro/a = merciaioa son voci derivate da zagarella/ zarella/ziarella che etimologicamente nella triplice morfologia (la seconda e terza voce son solo delle semplificazioni d’uso popolare della prima voce)sono adattamenti collaterali di zaganella diminutivo di zàgana s.vo f.le che è voce region., di area umbro-laziale, dove indica una sottile treccia di lana o di seta per rifinitura di abiti femminili;quanto all’etimo di questa zàgana da cui àn preso derivazione zaganella nonché le voci in esame che – ripeto – ne son collaterali, atteso che zàgana è voce affine a sagola di cui pare addirittura un metaplasmo regionale, si può sospettare un adattamento della voce portoghese soga (fune, corda) secondo il percorso soga→sogana →sagana→zagana sempre che la voce zàgana non sia un adattamento dell’arabo zahara ( chiaro,splendente) poi che in origine la zàgana (nastro, fettuccia) fu esclusivamente bianco usato per agghindare il capo delle fanciulle in abito bianco da prima comunione). E veniamo a parlare de ‘o sanzaro s.vo m.le e solo m.le è rarissimo l’ uso di un adattato al femminile ‘a sanzara; indicò in primis il mediatore, l’intermediario per la compravendita di prodotti agricoli e di bestiame; in seguito la mediazione si estese ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare (intermediario marittimo, mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel campo dei traffici marittimi. sanzaro ‘e terra (intermediario per la compravendita o affitto di case e/o terreni). Da ultimo con significato. ancora piú ampio: sanzaro ‘e matremmonie (procacciatore di matrimonî.) poteva essere il mediatore per fittare case o anche quello che procurava matrimoni.Costui s’ebbe il nomignolo di cauzette rosse in quanto per una sorta di identificazione alla strega dei cosidetti paglietti (cfr. ultra)che indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per farsi distinguere, indossava calze di color rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.Ancóra oggi,nella città bassa, quando qualcuno cerca di procurare occasioni d'incontro affiché due ragazzi si fidanzino per giungere al matrimonio s’usa accreditarlo di aver indossato cauzette rosse. etimologicamente la voce sanzaro è dall'ar. simsar, che è dal persiano sapsar. E passiamo ora a dire del mestiere dei pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta che di per sé è femminile ed al plurale va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro; ancóra oggi il mestiere del paglietta resiste ed è esercitato da quei giovani e quindi inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere. (segue) R.Bracale

CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO

CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO dosi per 6 persone: per la pasta: 6 etti di farina 12 uova freschissime due cucchiai d’olio d’oliva e.v.p.s. a f. un pizzico abbondante di sale fino. per il ripieno: 6 -8 rocchi di salsiccia di grana finissima, al finocchietto, 1 bicchiere di vino bianco secco, 4 etti di ricotta di pecora, 1 tazzina di cognac o brandy, 1 cucchiaio di sugna, ½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f. ½ etto di pecorino grattugiato, pepe nero q.s. , per il condimento: 500 gr di pomidoro freschi, lavati, sbollentati, pelati e ridotti in grossi pezzi, o pari peso di pomidoro pelati in iscatola, Aglio mondato e tritato q.s., 2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro, ½ bicchiere d’olio d’oliva e.v. ½ etto di pecorino grattugiato, pepe nero q.s., cannella in polvere – mezzo cucchiaino da caffè, abbondante olio per friggere (semi varii, arachidi, mais, girasole) procedimento Si comincia spellando e sbriciolando le salsicce e ponendole a rosolare lentamente(occorrerà un’ora di cottura) in un tegame con olio e sugna, bagnandole dapprima con il vino, da fare evaporare e poi con una ciotola d’acqua bollente; si appronta súbito dopo il condimento versando un bicchiere d’ olio in un tegame e facendovi rosolare un battutino di aglio; aggiungere poi il concentrato ed i pezzi di pomidoro precedentemente scottati e pelati, fare cuocere fino a raggiungere il bollore; tenere in caldo. Approntare allora l’impasto, ponendo sulla spianatoia la farina a fontana, aprendovi dentro undici uova, un pizzico di sale e due cucchiai d’olio; impastare fino ad ottenere una palla di pasta elastica e consistente da far riposare a temperatura ambiente per circa mezz’ora in una terrina cosparsa di farina asciutta e coperta con un canevaccio affinché la pasta non secchi. Passata la mezz’ora dividere l’impasto in varî pezzi da cui ottenere con l’ausilio del matterello e tirandole sulla spianatoia cosparsa di farina asciutta, otto sfoglie dello spessore di circa ½ cm. e della dimensione di 30 x 20 cm.; nel frattempo stemperare in una terrina la ricotta di pecora con il cognac o brandy , aggiungere le salsicce rosolate assieme al fondo di cottura, il pecorino grattugiato ed il pepe ed amalgamare il tutto; a questo punto distendere sulla spianatoia quattro sfoglie ed aiutandosi con un cucchiaio a punta depositare su ogni sfoglia, a distanza regolare, otto mucchietti di ripieno; sbattere l’ultimo uovo e servendosi di un pennellino bagnarne il perimetro dei mucchietti; distendere su ogni sfoglia un’altra sfoglia e pressare con l’indice sul perimetro dei singoli mucchietti per modo che l’uovo ivi distribuito facendo da collante, sigilli il ripieno ed unisca la sfoglia inferiore con la superiore; sempre seguendo il perimetro dei mucchietti ottenere da ogni accoppiata di sfoglie con l’ausilio di un coltello affilatissimo o una rotellina dentata, otto calconzelli in modo di avere alla fine trentadue calzoncelli che vanno súbito fritti in olio bollente e profondo fino a che siano ben dorati; una volta fritti, prelevarli con una schiumarola, sgrondandoli accuratamente e metterli in una pirofila da forno, irrorandoli con tutto il sugo di pomodoro, cospargendoli con il pecorino, un poco di pepe nero e la cannella in polvere.Evitare di rimestare, per non fare aprire i calzoncelli e passare la pirofila in forno preriscaldato a 180° fino a gratinatura dorata. Servire caldissimi in ragione di quattro calzoncelli a porzione. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente. Mangia Napoli, bbona salute! raffaele bracale

CAPUNATELLA CU ‘O PURPO

CAPUNATELLA CU ‘O PURPO Dosi per 5 o 6 persone 1 grosso polpo di circa 1 chilogrammo, 2 abbondanti coste di sedano bianco, 4 etti di fave fresche, 3 etti di piccoli pomidoro ciliegia, 2 spicchi d’aglio mondati tritati finemente assieme ad 1 ciuffo di prezzemolo, sale grosso q.s. pepe bianco q.s. 6 freselle di grano duro, 1 tazzina d’aceto bianco, 1 confezione di ortaggi a julienne sottoaceto 1 tazza di mayonnaise, 1 bicchiere d’ olio d’oliva e.v.p.s.a f. Procedimento Spezzettare le freselle e porle in un’insalatiera bagnandole d’acqua fredda e tenerle fino a che non si ammorbidiscano (circa 1 ora); frattanto lavare e pulire bene il polpo, arrovesciando la testa e togliendo via occhi e becco; batterlo con decisione su di una superficie di marmo e porlo a lessare per circa un’ora dal primo bollore dell’acqua, a fuoco basso in una pentola con molta acqua fredda salata; a cottura ultimata prelevare il polpo e tagliarlo súbito in tocchetti di circa 3 cm. cadauno; tenerlo da parte cosí tagliato e nella medesima acqua dove à bollito il polpo lessare velocemente le fave fresche sgusciate ed i gambi di sedano tagliati in pezzi di circa 1,5 cm. a cottura ultimata prelevare le verdurine con una schiumarola forata e porle in acqua con ghiaccio, affinché si raffreddino senza perdere il loro colore vivo; prelevare i pezzi di freselle oramai ammollati e porli sul fondo di un’ altra insalatiera aggiungendovi via via i pezzi di polpo, i pomidoro lavati e tagliati in quattro o piú parti, le verdurine raffreddate e la confezione di ortaggi a julienne sottoaceto sgrondata del liquido di conserva ;irrorare con l’olio e la tazzina d’aceto aggiustare di sale grosso e pepe, rimestare completando con l’aglio, il prezzemolo tritato e ciuffi di mayonnaise; far transitare in frigo per circa 30’ e poi servire. Gustosissimo antipasto o rompidigiuno. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie! raffaele bracale

BRUSCHETTE AL CACIO CON FUNGHI PORCINI

BRUSCHETTE AL CACIO CON FUNGHI PORCINI Gustosissimo antipasto da servire caldo. ingredienti e dosi per 4 persone 16 sottili fettine (spessore 4 mm.) di pane casareccio private della scorza e fritte in padella in istrutto bollente, 3 grossi funghi porcini freschi o surgelati, 3 etti di provolone piccante in fettine (spessore di 3 mm.), 2 cucchiai di strutto per friggere le fettine di pane, ½ bicchiere di olio d’ oliva e.v. p. s. a f., sale fino e pepe decorticato q.s., 2 spicchi di aglio mondati e tritati finemente, 1 gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente. Preparazione In una padella di ferro nero fare sciogliere, a fuoco vivo, lo strutto, mandarlo a temperatura e friggervi, un minuto per faccia le fettine di pane; mantenerle in caldo. A seguire pulire i porcini con una pezzuolina umida ed un affilatissimo coltellino, ridurli a lamelle e trifolarli in un’ altra padella, a fuoco medio,in mezzo bicchiere di olio d’ oliva e.v. p. s. a f., , sale, pepe ed il trito di aglio fatto dorare. Accomodare a croce quattro fettine di pane fritto in ogni singolo piatto (che possa passare dal forno alla tavola); su di ogni fettina porre due fettine di provolone ed al centro porre un paio di cucchiaiate di funghi porcini trifolati e passare tutto al grill soltanto per il tempo necessario a fondere il formaggio;cospargere di prezzemolo tritato e servire immediatamente in tavola, ben caldo. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve! raffaele bracale

mercoledì 27 febbraio 2013

BOCCONCINI DI MELANZANE

BOCCONCINI DI MELANZANE Ingredienti e dosi per 6 persone 1200 g. Melanzane violette napoletane grigliate - 100 g. Uvetta Sultanina - 300 g. Formaggio Provolone piccante in cubetti da ½ cm. di spigolo, - 4 Tuorli D'uovo – Pangrattato 6 cucchiai - Farina 6 cucchiai - 1 Pizzico Origano - Noce Moscata q.s. - Olio Di Semi q.s. - Sale fino e Pepe decorticato q.s. - Per La Pastella: - 300 g. Farina - 3 Uova - 1 Albume D'uovo – 2 Cucchiai di Olio D'oliva e.v.p. s. a f. Preparazione Mettere in ammollo l'uvetta in acqua tiepida. Tagliare via la buccia alle melanzane, tritarle finemente o passarle in un tritaverdure a buchi grossi e raccoglierle in una terrina con l'uvetta strizzata ed asciugata, i 4 tuorli, l'origano, una grattugiata di noce moscata, sale fino e pepe. Quindi aggiungere tanto pangrattato quanto basti per ottenere un composto consistente, ma morbido. Diluire la farina con il cucchiaio di olio e poi con mezzo bicchiere d'acqua fredda. Incorporare 3 uova intere sbattute ed a seguire l'albume montato alla fiocca. Salare poco e lasciare riposare. Intanto con il composto di melanzana formare tante palline grosse quanto una noce,farcirle con un paio di cubetti di provolone, infarinarle e passarle a mano a mano nella pastella. Friggere i bocconcini pochi alla volta in abbondante olio di semi bollente e profondo , per circa 5 minuti. Sgocciolarli quando siano dorati, passarli su carta assorbente da cucina, salare ancóra se occorresse e servirli caldi come antipasto o come contorno gustoso. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! raffaele bracale

ANTIPASTO TIEPIDO DI GAMBERI

ANTIPASTO TIEPIDO DI GAMBERI Ingredienti e dosi per 6 persone: Cavolo cappuccio, 500 g 12 Gamberi, 6 uova sode, cipolla bianca, q.s. 1 aglio mondato e schiacciato sugna, q.s. Cognac o Brandy,q.s. Vino bianco secco, q.s. Olio extravergine d'oliva p.s. a f. , q.s. Sale grosso alle erbette, pepe bianco,q.s. sale fino 2 cucchiai Preparazione: 1. Tagliate a julienne il cavolo cappuccio. Cospargete di sale fino e fategli rilasciare l'acqua. Staccate ai gamberi le teste, eliminate il budellino nero e sgusciateli accuratamente. 2. Sbollentate i gamberi per 3 min. in acqua bollente con aggiunta di sale grosso alle erbette, pepe bianco, mezza cipolla tritata ed un goccio di vino bianco secco. Fate saltare a fuoco vivace per 5 minuti in un padellino le teste dei gamberi assieme ai gusci con un cucchiaio di sugna ed uno spicchio d’aglio mondato e schiacciato; fatevi insaporire per tre minuti, a fiamma dolce, i gamberi lessati; 3. Bagnate con del cognac o brandy e fate fiammeggiare. Fate svanire l'alcool ed unite un po’ d’acqua calda.Continuate la cottura fino a quando l'acqua non si sarà ristretta. Levate i gamberi tenendoli da parte e filtrate il tutto. 4. Prendetene cira 100 g. Sciacquate la julienne di cavolo dal sale. Strizzatela e fatela cuocere a vapore per 2 min. Passate le uova sode ad uno staccio a trama grossa ed unitele con il brodetto tenuto da parte. Aggiungete del pepe e dell'olio. 5. Sistemate le listarelle di cavolo nei piatti di portata. Sistematevi sopra i gamberi insaporiti. Nappate con la salsa ottenuta. Servite. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo. Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve! raffaele bracale

ANTIPASTO DI SEDANO

ANTIPASTO DI SEDANO Ingredienti e dosi per 4 persone: Sedano, 2 gambi pecorino laticauda grattugiato,q. s. Latte ½ bicchiere, Cognac o brandy, 2 cucchiai Caciocavallo dolce grattugiato finemente 200 g Sale e pepe, q.s. Preparazione: 1. Sciacquate e pulite il sedano eliminando le foglie e filamenti delle coste. Tagliate il sedano a pezzi di uguali dimensioni di 6 cm. circa. Metteteli su un vassoio. 2. Lavorate con mezzo bicchiere di latte il caciocavallo con il pecorino . Allungate la crema con 1 cucchiaio di cognac o brandy, pepate ed eventualmente salate. Ponete la crema in una tasca da pasticcere e mettetela a riposo per 1 ora in frigo. Utilizzate delle bocchette rigate e riempite le scanalature dei pezzi di sedano con la crema e servite. brak

SCIÚSCIA ED ALTRE VOC

SCIÚSCIA ED ALTRE VOCI Premesso il noto adagio: omnia munda, mundis dirò che un impertinente frequentatore (di cui, nel timore di incorrere in un reato contro la riservatezza, indico solo le iniziali: A.G.) del sito messo su dall’amico prof. R. Andria, sito cui indegnamente collaborai nel passato per informazioni circa la parlata napoletana,mi chiede proditoriamente (pensando di pormi in difficoltà) ch’io gli illustri e gli indichi oltre che il significato, un probabile, o certo etimo della voce in epigrafe. Non è mio costume farmi mettere in difficoltà con argomenti intesi scabrosi ed esimermi dal trattarli , per cui, attrezzatomi alla bisogna, raccolgo la sfida/provocazione ed entro súbito in medias res e comincerò col dire che il termine sciúscia, voce domestica,epperò intesa quasi volgare (ma - come vedremo – non penso lo sia ) è uno dei numerosi, icastici sinonimi con i quali, con linguaggio piú o meno colorito e volta a volta mutuato da riferimenti storici o da osservazioni visivo-gastronomiche, si è soliti indicare la vulva della donna, l’organo femminile esterno della riproduzione. Tra i piú usati di détti sinonimi, rammento: fessa, fresella, purchiacca/pucchiacca,quatturana, carcioffola,carusella, ficusecca, mulignana, patana,pummarola, vòngola, còzzeca, scarola, ‘ntacca, bbuatta,caccavella cestúnia,cardogna,ciaccara/ciaccarella,senga, sesca,sarcenella/sarchiella, pesecchia/pesocchia, pettenessa, furnacella, tabbacchera etc. e qui di sèguito li illustrerò uno alla volta. Procediamo ordunque ordinatamente: féssa= fessura, apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano; fresella di per sé, letteralmente la fresella è un tipico biscotto (pane biscottato) usato in un po’ tutto il meridione, variamente condito con diversi ingredienti(in massima parte vegetali) per un gustoso asciolvere; la voce fresella è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il significato traslato di fresella usata per indicare la vulva non nasce dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma; infatti la fresella-biscotto può avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva; purchiacca o pucchiacca = letteralmente, fodero di fuoco, faretra infuocata e genericamente vulva, vagina; premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti io stesso penso di poterne proporre per lo meno un paio dei quali opterei comunque per il primo; 1 -la prima ipotesi è che la voce a margine potrebbe risultar derivata dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca (femminilizzazione del maschile acco/accio suffisso che continua il lat. -aceu(m), usato per formare sostantivi e aggettivi alterati con valore peggiorativo . ),secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca porta a cljaca→chiaca e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→ puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto proposto da altri quali l’Altamura, il D’Ascoli, e tutti coloro che vi attingono, che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→ pucchiacca (erba porcellana); l’idea non m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto, corretto napoletano la voce usata per indicare l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee sempre in unione con un’altra erba/insalata detta arucola (rughetta), la voce dicevo è purchiacchiello (diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la porcacchia/porcellana è pianta erbacea commestibile, con fusto ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o da prodotti ittici), cosa possa avere in comune con l’ organo femminile esterno della riproduzione; 2 - l’altra mia ipotesi circa l’etimo di pucchiacca fa riferimento ad una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre infatti partire da una radice porc ( del latino porca=maiale/scrofa; tale voce (sostituendo il classico sus, nel latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa, anche la sua vulva ) radice addizionata del suffisso diminutivo- spregiativo (cfr. Rohlfs) acchia: da porcacchia→purcacchia e pucchiacca con il medesimo significato di porca=vulva della scrofa ed estensivamente vulva in genere; - quatturana letteralmente quattro grani; il grano fu vilissima moneta in uso nel Napoletano (Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13° sec.). Al proposito rammenterò, per incidens, che l'unità del Regno delle due Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282. La Sicilia era divisa fra Aragonesi ed Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto. Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi. Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò. Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi. Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno. Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono. Torniamo al grano che, dicevo,fu vilissima moneta corrispondente all’incirca al valore di 60 centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a 2,40 euro, cioè a quasi 5000 delle vecchie lire. e questa somma, secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto, le meretrici di infimo ordine che prestavano la loro opera lungo la c.d. ‘mbricciata ‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san Francesco)malfamata strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta Capuana, nei pressi di quell’edificio che fu in origine il monastero dei cosiddetti monaci di sant’Anna (in quanto ebbero come loro cappela la chiesa di sant’Anna posta all’imboccatura del Borgo sant’Antonio abate), poi sede delle Carceri san Francesco ed infine sino ad or non è guari sede degli uffici della Pretura ; secondo altra teoria, che reputo piú esatta, la somma di quattro grani fu quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si pretese dalle meretrici a mo’ di tassa sulle singole prestazioni; ora sia che fosse una tassa, sia che si trattasse del prezzo da pagare alla meretrice, la voce quatturana (quattro grani)finí per indicare lo strumento di lavoro della prostituta, e con estensione volgare, l’organo riproduttivo esterno di ogni altra donna soprattutto di basso ceto; - ‘ntacca = fessura, apertura, scanalatura, contrassegno con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka 'segno'; - bbuatta s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale barattolo, contenitore cilindrico in banda stagnata usato per commercializzare generi alimentari dalla frutta sciroppata ai pomidoro, alle melanzane, ai peperoni, al caffè; il traslato semantico è di facile comprensione; l’etimo è dal francese boite; -caccavella s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale pentolina ,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti; per traslato e figuratamente valse anche grosso cappello da donna sempre per traslato come la precedente buatta indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se non particolarmente avvenente e di forme sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine (etimologicamente dal lat. tardo caccabella femminilizzazione di caccabulus diminutivo di caccabus = paiolo,pentolone, dal greco kàkabos) per traslato sarcastico si indicò una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa derivò dalla felice posizione (sessio = sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove veniva prodotto vasellame in terracotta, d’uso quotidiano; -chitarra (dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. che normalmente indica un noto strumento musicale a corde,provvisto di cassa armonica formata da due tavole (di cui la superiore con foro centrale, détto rosa) unite da una fascia, di paletta con meccanica per tender le corde) è usata per indicare furbescamente la vulva femminile, semanticamente richiamata dalla rosa/foro centrale, ed inteso quale strumento di piacere ; in tale medesima accezione la voce chitarra la si ritrova nella smorfia napoletana che al numero 67 fa corrispondere l’espressione ‘o totaro dint’ â chitarra letteralmente: il totano nella chitarra, e ci si trova davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: totaro deriv. del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro. - senga propriamente si tratta di una fessura, una screpolatura una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in legno (porte, antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta fenditura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga si fa concordemente risalire al lat. signum quale lettura metatetica poi femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il femminile metafonetico senga; - sesca propriamente si tratta di una ferita,il piú delle volte da taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la femminilizzazione metafonetica del maschile sisco= fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio. Ora rammento che anche in lingua italiana, per furbesco traslato, con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con la corrispondente voce di fischio e cioè sisco soprattutto nel linguaggio colloquiale, si intende il membro maschile; e dunque non meraviglia se per analogia con il femm. di sisco e cioè con sesca si è finito per indicare il corrispondente organo femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio. sarcenella/sarchiella s.vi f.li di carattere marcatamente furbesco atteso che con il termine sarcenella, ma anche con sarchiella(quantunque quest’ultima voce non trova riscontro alcuno, se non declinato al plurale ‘e ddoje sarchielle a commento del numero 66 del giuoco della tombola, e sia solo una patente corruzione della precedente sarcenella), si intende riferirsi all’organo sessuale femminile, e segnatamente a quello di una donna che per essere ancora nubile, sebbene abbastanza anziana l’abbia ispido e ben serrato a guisa di una piccola fascina (...buona solo per essere arsa!); il termine sàrcena ed il diminutivo sarcenèlla, nonché la corruzione sarchiella valse appunto in primis fascina, fardello di sterpi e poi – come ò spiegato - ebbe il significato traslato è voce derivata dal lat. sarcina(m), propr. 'bagaglio avvolto in una tela cucita', deriv. di sarcire 'cucire'; - pesecchia/pesocchia propriamente fessurina, piccola apertura atteso che con le voci a margine si indicano alternativamente la vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute; l’etimo è da una voce onomatopeica ps→pes (dello zampillo) addizionata di suffissi ecchia (diminutivo) o occhia (accrescitivo). - cestunia letteralmente è tartaruga che, nell’inteso comune partenopeo, è uno degli animali domestici piú longevi, che però mostrano tutti i segni del tempo trascorso sulla pelle raggrinzita e rugosa che copre capo, collo e zampe di questo piccolo rettile acquatico e/o terrestre, appartenente all'ordine dei Cheloni; esso rettile à corpo racchiuso in un robusto scudo corneo dal quale sporgono capo, zampe e coda; proprio dette rugosità e grinzosità della pelle, à fatto assegnare dai napoletani il nome di cestunia, alla raggrinzita e non piú rigogliosa vulva di una donna che passata ‘e cuttura e/o ‘e coveta cioè ormai anziana (quasi troppo cotta o raccolta tardi), sia ancóra illibata ed intonsa; l’etimo della voce cestunia si fa concordamente risalire ad un latino parlato testunia per il class. testudo; la voce napoletana à comportato la dissimilazione t-t→c-t. Prima di illustrare le voci mutuate dall’àmbito orticolo o ittico, rammento le due voci ricavate dall’àmbito dolciario; e sono brioscia e sfogliatella; brioscia s.vo f.le – 1 in primis piccolo dolce, soffice, leggero e saporito, a base di farina, burro, latte, zucchero e lievito di birra (la cosiddetta pasta brioche),d’uso segnatamente francese che viene cotto in forno in varie forme, di cui la piú tradizionale è quella di una mezza sfera sormontata da una mezza sfera più piccola, mentre in Italia è piú comune quella a mezzaluna, chiamata anche cornetto, spesso farcito di crema e/o marmellata. 2 per traslato d’uso volgare nel senso che ci occupa sesso femminile, vulva; il collegamento semantico si coglie tenendo presente che nell’inteso popolare non v’à nulla di più dolce del sesso femminile e dell’atto sessuale ch’essa permette di compiere. Voce adattamento del francese brioche; rammento che il terminein esame, nel significato sub 2, è presente in una icastica anche se becera espressione popolaresca nata nella città bassa ed improntata al piú sfrenato edonismo ed al materialismo pessimistico,espressione nella quale si afferma, giocando con numerose assonanze:’A vita, bbella mia, è ‘na brioscia, n’araputa ‘e cosce,’na ‘nfilata ‘e pesce, ‘na chiusura ‘e cascia e ttutto fernesce! Non mette conto tradurla atteso che è di facilissimo intendimento. Mette invece conto rammentare il nome di un altro gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) che viene usato per traslato furbesco per indicare appunto la vulva, il sesso femminile sfogliatella = sfogliatella s.vo f.le 1piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella. 2 per traslato, ma non d’uso volgare, quanto affettuoso nel senso che ci occupa sesso femminile, vulva; la sfogliatella riccia appunto per la sua forma triangolare, a conchiglia, (vagamente rococò) oltre che per la sua dolcezza ben superiore a quella della brioche→brioscia è semanticamente accostata alla vulva femminile. E passiamo ora a tutte le voci mutuate dall’àmbito orticolo o ittico; abbiamo: - carcioffola s.vo f.le = carciofo con riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto piú vero se si pensa che di una donna che non sia piú giovane e che per tanto si pensa abbia già avuto piú o meno numerosi rapporti coniugali, s’usa dire ironicamente che tene ‘a carcioffola sfrunnata=à il carciofo sfrondato id est:la vulva deflorata; l’etimo della voce carcioffola risulta derivato dall’arabo harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus); sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione progressiva nd→nn; - carusella s.vo f.le =1(in primis e di per sé) finocchiella, varietà selvatica di finocchio; 2(per traslato giocoso) organo femminile di donna matura, glabro e/o canuto come ad un dipresso il finocchio selvatico; nell’accezione sub 2 la voce a margine è d’uso provinciale e d’àmbito rurale, adoperato quale contraltare di rafaniello = ravanello, voce che nel medesimo àmbito indica l’organo maschile della riproduzione, cui è semanticamente accostato per la forma oblunga.Etimologicamente trattasi di voce deverbale di carusà (tosare) che è da una rad. greca *kar- [cfr. karēnai inf. aor.pass. di keìrō di analogo significato]. - cardogna s.vo f.le = s.vo f.le = cardo pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili affine al carciofo con riferimento all’ irsuto organo stretto e serrato di una di una donna matura, ma ancóra illibata; voce derivata dal lat.volg. cardunĭa marcato sul greco kardonía.La voce a margine è usata in una icastica espressione esclamativa che suona s’è ‘nfucata ‘a cardogna! (si è accalorato il cardo spinoso!), con riferimento all’innalzarsi della temperatura atmosferica durante il periodo dell’anno (primavera/estate)quando la pianta è piú rigogliosa; ma usata anche furbescamente per commentare gli improvvisi bollori d’una donna non sposata e non piú giovane, cui repentinamente si risveglino i sensi. - ciaccara s.vo f.le ed il suo diminutivo ciaccarella voci domestiche, mai intese volgari (anzi il diminutivo è pensato ipocoristico e quasi affettuoso) è uno dei numerosi, icastici sinonimi con i quali, con linguaggio piú o meno colorito e volta a volta mutuato da riferimenti storici o da osservazioni che investono i piú vari campi dalla gastronomia,alla botanica, alla fauna ittica etc. si è soliti indicare la vulva della donna adulta , l’organo femminile esterno della riproduzione, mentre con il diminutivo ci si riferisce alla vulva di una bambina; per quanto riguarda la semantica e l’etimologia della voce in esame,a mio avviso non penso si debba sbrigativamente parlare di voce onomatopeica (cosa mai dovrebbe fare ciacc ?)cosí come invece, pur senza chiarire, ipotizzò F.sco D’Ascoli e l’ Altamura che lo saccheggiò...Penso invece che la voce ciaccara sia stata costruita partendo dal s.vo ciacco (suino, maiale voce adattamento del greco sýbax-sýbakos→siacco→ciacco) addizionato del suffisso di competenza ara f.le di aro che continua il lat. arius; semanticamente come vedremo affrontando l’etimo di sciuscia ci troviamo a ragionare di parola (ciacco) che usata al maschile indicò il maiale,mentre usata al femminile(ciacca) sia pure solo nel parlato della città bassa indicò la scrofa e per metonimia la sua vulva; nulla osta poi che per traslato giocoso la voce passasse ad indicare anche la vulva della donna adulta e con il diminutivo poi quella di una bambina. - ficusecca s.vo f.le con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio metaplasmatico s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile. usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva. - patana, s.vo f.le= patata; il noto tubero edule è preso semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento dallo sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana); - pummarola s.vo f.le = pomodoro il frutto rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come l’altrove usato fica, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi ultimi à il suo interno rosso ; l’etimo di pummarola è, come per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro con il passaggio in sillaba d’avvio di ō ad u (cfr. notte→nuttata), raddoppiamento espressivo popolare della labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do), alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l e cambio di genere per cui pummororo→pummarola; - vongola, s.vo f.le= noto mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano, ripete quello a margine, voce di origine napoletana trasmigrata come molte altre (guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri ) nel lessico nazione; la voce vongola, come la successiva còzzeca è presa a modello per indicar la vulva, in quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo di vongola (voce che indica oltre che il mollusco e la vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove è detta anche fesseria con evidente riferimento alla prima voce di questa elencazione) l’etimo dicevo di vongola è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m) da cui vongula→vongola con normale passaggio di g→v (vedi gulío/vulío – golpe/volpe etc.); - cozzeca, s.vo f.le= cozza, mitilo bivalve che aperto, come la precedente vongola ricorda quasi la forma dell’organo femminile; in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista di bisso, ben si presta a rappresentare il fronzuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di cozzeca è, quasi certamente, da una forma ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca; e veniamo ai riferimenti orticoli cominciando da - scarola s.vo f.le = scarola letteralmente scariola, varietà di indivia; anche, in alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola e segnatamente la specialità detta riccia per essere in cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di scarola è dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca; - mulignana s.vo f.le letteralmente melanzana; siamo sempre nell’ambito orticolo ed essendo la mulignana = melanzana una pianta erbacea largamente coltivata per i frutti commestibili di forma oblunga o ovoidale, con buccia violacea lucente e polpa amarognola (fam. Solanacee), proprio per questa sua buccia liscia e lucente, viola scuro, quasi nera si presta a rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma liscia vulva d’una giovane donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian, di orig. persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la melanzana fosse frutto che inducesse alla pazzia. - pettenessa s.vo f.le ultima(anni ‘950) voce entrata nel lessico popolare partenopeo per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga, a denti lunghi e sottili, disadorno o ornato di piccoli orpelli spesso semipreziosi, grosso pettine usato dalle donne per sorreggere la crocchia dei capelli; atteso che in lingua napoletana, per indicare il pube ( in ispecie)femminile si à la voce pettenale (derivato da un acc.vo lat. pectinale(m) da pecten= pettine), come del resto in lingua nazionale si à, per indicare la medesima cosa, la voce pettignone (derivato da un acc.vo lat. volg. *pectinione(m), dim. del class. pecten -tinis 'pettine'con riferimento (sia per l’italiano che per il napoletano) alla lunghezza dei peli del pube che ricordano i denti dei pettini,sia la forma a m’ di conchiglia di ambedue: del pube e del grosso pettine, ecco che in senso traslato la voce pettenessa= grosso pettine (dal class. lat. pecten con suff. femminilizzante essa secondo il criterio che una voce femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del corrispondente maschile (cfr. pennellessa piú grande di penniello, tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro, tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto, etc., ma per eccezione caccavo piú grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben si prestò ad indicar la vulva ubicata all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine. - tabbacchèra s.vo f.le letteralmente tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato, provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto; per traslato furbesco sesso femminile; il traslato semantico è dovuto probabilmente al fatto che come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa, serve a conservare il tabacco da fiuto con tutto il suo aroma, cosí il sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere e conservare la virtú femminile. La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo spagnolo tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era; normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente al significato trasòato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera e fa riferimento ai comportamenti che si auspica tengano tra di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di ridere e giocare,evitando di oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero pesantemente il sesso. - furnacella s.vo f.le soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata quale epiteto rivolto ad una donnaccola; nella fattispecie con la voce fornacella non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la vulva di colei cui è diretto l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una meretrice abbondantemente conosciuta in senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come ò già riferito, tra le piú comuni voci per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr +k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò che l’etimologia è dall’acc. lat. volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in luogo dell’atteso furnacula(m) dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata, rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà = sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano (cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce sguessa/sguessera, s.vo f.le = mento pronunciato e sfuggente, ma non è in alcun modo chiaro quale possa essere il passaggio semantico che conduca a parlare della vulva come di una sguessa/sguessera; in effetti nelle parlate meridionali il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898 – † Roma, 15 aprile 1967),), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta, impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti sviamento e pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; infine da sguessa→sguessera. Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad ipotizzare il perché del passaggio semantico da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale errato riferimento protrattosi nell’uso popolare. Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di brasciola s.vo f.le( che, vedi alibi, di per sé indica un grosso involto di carne imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla ed in quanto tale è un s.f. derivato dal tardo latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.furbescamente, come ò détto, in talune province con tale voce viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli dove sono in uso numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata. Esaurita la spiegazione delle voci elencate a monte, veniamo finalmente a trattare la voce proditoriamente propostami dal sig. A.G. Parliamo cioè della sciuscia. - sciuscia s.vo f.le. Come ò già detto è voce generica che vale vulva, vagina, organo riproduttivo esterno della donna il tutto senza particolari specificazioni concernenti l’età o la destinazione d’uso, ed è voce colloquiale privata in uso tra contraenti (sposi, amanti, fidanzati etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto sociale. Per la verità dico súbito che solo tre calepini della parlata napoletana ( l’antico D’Ambra,ed i piú vicini Altamura e D’Ascoli che vi attingono spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto consultare, prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che tali vocabolaristi àbbiano il merito di considerare la voce, per ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un l’altro optano,ma a mio avviso, maldestramente, per un inconferente generico idiotismo (.s. m. (ling.) locuzione, voce o costrutto caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio! Personalmente penso di poter proporre altri due etimi di cui il primo, pur essendo perseguibile quanto alla morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio avviso si potrebbe morfologicamente pensare al solito latino ad un part. pass. femm. fluxa dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl evolve sempre nel napoletano sci (vedi alibi flumen→sciummo, flos→sciore etc.) e ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia; ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia termina con il suff. latino/greco di appartenenza ia e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo presente che la sibilante s anche scempia seguíta da vocale evolve, come la precedente doppia ss in napoletano nel gruppo palatale sci, ecco che da un origianario sus addizionato del suffisso d’appartenenza ia si è potuto avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione che il suffisso latino ia comporta la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è il corrispondente ía greco che sposta l’accento sul suffisso come si ricava osservando la voce filosofia che in lat. è philosòphia(m), mentre in greco è philosophía; e posta l’ipotesi in questi termini, possiamo dire che anche la semantica (ramo della linguistica e, piú in generale, della teoria dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti e, nel caso delle lingue, studia il significato delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati) possa esser contentata cosí come m’auguro sia soddisfatto il provocatorio sig. A.G. e chiunque altro fosse interessato all'argomento. Satis est. Raffaele Bracale