venerdì 25 luglio 2014

VARIE 4075

1. Tené 'e fruvole dint'ô mazzo. Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle. 2. RUMMANÉ Â PREVETINA O COMME A DON PAULINO. Rimanere alla maniera dei preti o come don Paolino. Id est: Rimanere in condizioni economiche molto precarie addirittura come un mitico don Paolino, sacerdote nolano che, non avendo di che comprare ceri per celebrar messa, si doveva accontentare di tizzoni accesi. 3. TANTO VA 'A LANCELLA ABBASCIO Ô PUZZO, CA CE RUMMANE 'A MANECA. Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico. Il proverbio con altra raffigurazione, molto piú icastica, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella è una brocca o un vaso di creta, quella della locuzione è propriamente un secchio atto a contenere acqua o ad attingerne dal pozzo; in tal caso è un secchio in terraglia o provvisto di doghe lignee e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.la voce lancella/langella è dal lat. lanx-lancis e dai suoi diminutivi lancula e lancella 4. SIGNORE MIO SCANZA A MME E A CCHI COGLIE. Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. E' la locuzione invocazione rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da perizia. 5. ESSERE 'NA GUALLERA CU 'E FILOSCE. Letteralmente: essere un'ernia corredata di frittate d'uova. Icastica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova. 6. Mettere a uno 'ncopp' a 'nu puorco. Letteralmente: mettere uno a cavallo di un porco. Id est: sparlar di uno, spettegolarne, additarlo al ludibrio degli altri, come avveniva anticamente quando al popolino era consentito condurre alla gogna il condannato trasportandolo a dorso di maiale – animale di cui la città di Napoli brulicava essendo detta bestia allevata da chiunque e dovunque – affinché il condannato venisse notato da tutti e fatto segno di ingiurie e contumelie. 7. Oramaje à appiso 'e fierre a sant' Aloja. Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...)Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare. Da questa consuetudine, nacque il proverbio ammiccante nei confronti degli anziani. 8. Si me metto a ffà cappielle, nascéno criature senza capa. Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica. 9. A - Nun fa pérete a chi tène culo. B - Nun dà ponie a chi tène mane. I due proverbi in epigrafe, in fondo con parole diverse mirano allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salve di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salve. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani. 10. 'A sciorta 'e Cazzetta: iette a piscià e se ne cadette. Letteralmente: la cattiva fortuna di Cazzetta che si dispose a mingere e perse per caduta l'organo deputato alla bisogna. Iperbolica locuzione costruita dal popolo napoletano intorno ad un fantomatico Cazzetta ritenuto cosí sfortunato da non potersi permettere le piú elementari funzioni fisiologiche senza incorrere in danni incommensurabii. La locuzione è l'amaro commento fatto da chi veda le proprie opere non produrre gli sperati risultati positivi, ma al contrario negatività non prevedibili. 11. Quanno chiovono passe e ficusecche. Letteralmente: quando cadono dal cielo uva passita e fichi secchi. Id est: mai. La locuzione viene usata quale risposta dispettosa a chi chiedesse quando si potrebbe verificare un accadimento ritenuto invece dalla maggioranza irrealizzabile. 12. 'O culo 'e mal'assietto nun trova maje arricietto. Letteralmente: il sedere che siede malvolentieri non trova mai tregua. Per solito, con la frase in epigrafe si fa riferimento al continuo dimenarsi anche da seduti che fanno i ragazzi incapaci di porre un freno alla loro voglia di muoversi. 13. Fatte 'e cazze tuoje e vide chi t''e fa fà... Letteramente:Fatti i peni tuoi e vedi chi te li fa fare. Id est: impicciati dei casi tuoi e procura di trovare qualcuno che ti aiuti in tal senso.Il mondo è pieno, purtroppo di gente incapace di restare nel proprio ambito che gode ad intromettersi negli affari altrui dispensando consigli non richiesti che il piú delle volte procurano ulteriori affanni, invece di lenire la situazione di coloro a cui vengon rivolti i sullodati consigli. L'invito dell'epigrafe è perentorio e non ammette repliche. 14. Essere all'abblativo. Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine. 15. Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria. Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco. 16. Cu 'o tiempo e c 'a paglia... s’ammaturano ‘e nespole Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti. 17. Sî arrivato alla monaca ‘e lignammo. Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. 18. Stammo all'evera. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi. 19. Hê sciupato ‘nu Sangradale. Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri. 20. Fatte capitano e magne galline. Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici. 21. Chi nasce tunno nun pò murí quatro. Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio. 22. A chi parla areto, 'o culo le risponne. Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti. 23. A craje a craje comme â curnacchia. Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare . 24. Chello ca nun se fa nun se sape. Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo. 76 'O pesce gruosso, magna 'o piccerillo. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande. 77 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce. 78 Jí mettenno 'a fune 'e notte. Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. 79 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuò. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative. 80 Parla quanno piscia ía gallina! Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre. 81 Puozze passà p''a Loggia. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei diretti al Camposanto. 82 Core cuntento â Loggia. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi. 83 Farne una cchiú 'e Catuccio. Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi. 84 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura. Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare. 85 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vò ll'anema. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta. 86 E' gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa. Letteralmente: è finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia! 87 Doppo muorto, buzzarato. Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere morto. 88 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne. Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione. 89 Nun c'è prereca senza sant' Austino. Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate. 90 'A malanova ll'accumpagna 'o viento. Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento. 91 E bravo ô fesso! Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende da saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentia nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu! 92 Quanno 'o mellone jesce russo, ogneduno ne vò 'na fella. Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore... 93 Si 'o Signore me pruvvede, m'aggi' 'a fà 'nu quacchero luongo 'nfino a 'e piede. Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero nel senso di cappotto è modellata sul termine quaccheri, rammentando i lunghi costumi indossati da costoro. 94 Ll'abbate Taccarella. Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; il nome Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti. 95 T' hê pigliato 'e ccient' ove. Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova. Id est: sei diventato pazzo. La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di seguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo. 96 Frijenno, magnanno. Letteralmente: friggendo e mangiando. L'uso, tutto napoletano, di mettere in fila due gerundi, senza un apparente modo finito reggente, sta ad indicare che le due azioni debbono essere eseguite quasi contemporaneamente, senza soluzione di continuità, e - nella fattispecie - il cibo una volta fritto deve essere subito consumato, senza indugio, con immediatezza e rapidità. Il cibo, sottinteso nella locuzione, è rappresentato dalle famosissime paste cresciute, dai tittoli, dai fiori di zucca in pastella e da tutte quelle numerose verdure, fette di ricotta, uova sode, animelle etc. che concorrono a formare quello che erroneamente si dice fritto all'italiana e che sarebbe piú consono dire fritto alla napoletana, giacchè in Napoli fu ideato questo tipo di preparazione culinaria da consumarsi velocemente all'impiedi davanti ai banchi delle friggitorie (antenate delle moderne pizzerie) esercizi dove detto fritto veniva preparato ed offerto seduta stante all'avventore anche frettoloso. 97 Fatte 'na bbona annummenata e va'scassanno chiesie. Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese. Id est: ciò che conta nella vita è di godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che gode di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma. 98 Ammacca e sala, aulive 'e Gaeta. Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo - usata dai venditori di olive e con essa si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare. 99 Cca 'e ppezze e cca 'o ssapone. Letteralmente: di qui le pezze e di là il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il des sono contemporanei. Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti "SAPUNARI" che offrivano in cambio di abiti dismessi un tot di sapone quale merce di scambio. 100 M''o ssento 'e scennere pe dereto a 'e rine. Letteralmente: me lo sento colare lungo il filo della schiena. L'espressione viene usata con senso di rammarico se non di timore, quando si voglia comunicare a terzi di avvertire su se stessi la sensazione di un prossimo imminente disastro e/o pericolo e di non potervi porre riparo. 101 Se so' 'ncuntrate 'o sango e 'a capa. Letteralmente: si sono uniti il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarii al conserguimento di un quid. Anche in senso marcatamente dispregiativo per sottolineare l'incontro di due poco di buono dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo détto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue. 102 Essere d''o bettone. Letteralmente: essere del bottone Id est: appartenere ad un medesima consorteria, ad una stessa associazione e perciò essere nella condizione di poter chiedere e ricevere aiuto ed assistenza dai propri sodali. Il bottone della locuzione è, senza dubbio, il distintivo, cioè il segno esteriore della appartenenza ad un determinato consesso, ma è inesatto ritenere il distintivo della locuzione quello fascista, perché l'espressione, a Napoli, era nota e si usava fin dall'epoca dei Borbone. 103 I' faccio pertose e tu gaveglie. Letteralmente: Io faccio buchi e tu cavicchi. Id est: mi remi contro. La locuzione la si usa quando si voglia redarguire qualcuno che proditoriamente e senza apparenti motivi, anzi quasi per dispetto, si adopera per vanificare l'opera di chi si sta affannando in un'azione di senso contrario come nella locuzione capita a chi si sta adoperando a fare buchi e trova chi invece si dà da fare per confezionare cavicchi atti a turare detti buchi. 104 Quanno scioscia viento 'e terra, 'o pesce nun zompa dint' â tiella. Letteralmente: quando spira il maerstrale il pesce non salta in padella. Id est: i giorni spazzati dal vento maestrale sono i meno adatti per la pesca. Piú in generale il proverbio sta a significare che per ottenere buoni risultati occorre attendere il momento propizio e non bisogna avventurarsi in alcuna opera quando spiri vento avverso. 105 Tre songo 'e putiente: 'o papa 'o rre e chi nun tène niente. Letteralmente: Tre sono i potenti: il papa il re e chi non possiede nulla. E' facile capire il perché della locuzione. Il Papa non à concorrenti, per cui nel suo ambito è da ritenersi veramente un potente; idem valga per il re inteso come despota. E non meravigli che sia considerato un potente il nullatenente, che basa proprio sulla sua penuria di mezzi la propria forza, potendosi infischiare di tutti, non temendo assalti da parte di nessuno, giacchè a nessuno verrebbe in mente di attaccare qualcuno a cui in caso di vittoria non si avrebbe che cosa sottrarre. 106 Signore 'e unu cannelotto. Letteralmente: signore da un solo candelotto. Cosí a Napoli viene appellato chi pretende di avere nobili ascendenti, ed invece risulta essere di nessuna nobiltà. La locuzione risale al tempo in cui l'illuminazione dei palchi del teatro san Carlo, massimo teatro lirico della città partenopea, era assicurata da alcuni candelabri che venivano noleggiati dalla direzione del teatro agli spettatori che ne facessero richiesta. Il prezzo del noleggio variava con il numero dei candelabri richiesti e questo dalle possibilità economiche dello spettatore. Va da sè che minore era il numero di candele, minore era la possibilità economica dimostrata e conseguenzialmente minore il grado di nobiltà; per cui un signore da un candelotto era da ritenersi proprio all'infimo gradino della scala sociale. 107 Carta vène e giucatore s'avanta. Letteralmente: carta (vincente) viene e giocatore (vittorioso) si vanta. La locuzione prendendo spunto dal giuoco delle carte stigmatizza il comportamento ridicolo e pretestuosamento presuntuoso - tipico peraltro di coloro che ànno scarse capacità intellettive - di chi tenti di farsi merito di successi ottenuti non per propria capacità, intelligenza e valore, ma per mera fortuna che lo abbia condotto al primato, come avviene in taluni giuochi di carte dove basta il possesso di determinate carte vincenti a procurare la vittoria e conta veramente poco il modo di giocare le predette carte. 108 Chella 'a mana è bbona; è 'a valanza ca vo’ essere accisa! Letteralmente: Quella la mano è buona, è la bilancia che vuole essere uccisa cioè che si comporta in modo tale da meritarsi d'essere ammazzata. La locuzione va riferita a chi proditoriamente tiri a derubare sul peso e tenti di far ricadere la colpa sul tramite ossia sulla bilancia. Per traslato la locuzione la si usa sarcasticamente nei confronti di chiunque, per un motivo o l'altro non si voglia assumere le responsabilità del proprio truffaldino comportamento. 109 Chisto è n'ato d''a pasta fina. Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuta da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa. 110 Fattélle cu cchi è mmeglio 'e te e fance 'e spese. Letteralmente: Intrattieni duraturi rapporti con chi è migliore di te e sopporta le spese che ne derivano.Id est: le proprie amicizie bisogna sceglierle tra chi ti è moralmente superiore , e occorre poi coltivarle anche se per fare ciò bisogna por mano alla tasca anche figurativamente parlando. 111 Addó sperdettero a Giesú Cristo. Letteralmente: dove dispersero Gesú Cristo. Lo si dice di un luogo lontano ed impervio, difficile da raggiungere... La locuzione fa certamente riferimento all'episodio dell'evangelo allorché Maria e Giuseppe persero di vista il Redentore che s'era attardato in Gerusalemme ed impiegarono alcuni giorni prima di ritrovarlo. 112 'A coppa sant' Ermo, pesca 'o purpo a mmare. Letteralmente: Di sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando sull'azione di chi si affanna a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina di sant'Elmo, che è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 250 metri... 113 Va' fà ll'osse ô ponte Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell’avversa fortuna. 114 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela. Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre. 115 - Jí cercanno:’mbruoglio aiutame! Letteralmente: andare alla ricerca di un imbroglio che possa aiutarti. Id est: quando ci si trovi in situazioni o circostanze tali che non lascino intravedere vie d’uscita, l’unico mezzo di trarsi d’impaccio è quello di rifugiarsi in un non meglio identificato ‘mbroglio seu imbroglio,astuzia, inganno, moto di destrezza che in un modo o in un altro consenta di risolver la faccenda. La locuzione è usata a salace commento delle azioni di chi, per abitudine non è avvezzo ad agire con rettitudine o chiarezza e per àbitus mentale si rifugia nell’imbroglio, pescando nel torbido. RAFFAELE BRACALE

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