martedì 26 agosto 2014

‘A CUCINA NAPULITANA

‘A CUCINA NAPULITANA Questa volta voglio invitare chi mi leggerà, a seguirmi e venir meco in quell’ ampia stanza della mia casa della fanciullezza e giovinezza dove si preparavano e, col favore dell’ampiezza del locale, si ammannivano – su l’apparecchiato desco – i cibi; sto parlando d’ ‘a cucina ( da un tardo latino: cocina(m), variante di coquina(m), deriv. di coquere 'cuocere'); il primo elemento che, entrando in cucina dal passetto pensile (dall’ aggettivo latino: prensile(m) con sincope della erre intesa inutile), saltava agli occhi era ‘o fuculare (dal tardo latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ). Esso non era, come generalmente altrove, la parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco (in casa mia non v’erano camini (latino: caminu(m), dal gr. káminos 'forno, fornello') di sorta, ma una sorta di grosso parallelepipedo di pietra, rivestito di policrome riggiole (da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana; quelle che rivestivano il focolare erano diverse le une dalle altre in quanto non acquistate ad hoc, ma risultate avanzate ad altra primaria destinazione (per solito pavimentazione delle stanze di casa); sulla faccia superiore d’ ‘o fuculare erano ricavati degli ampi fori circolari in piccolissima parte chiusi da una sorta di crocicchio di ghisa saldamente infisso ai bordi dei fori, crocicchio che serviva di appoggio alle pentole e/o tegami usati per la cottura dei cibi; perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno al cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone (attraverso metatesi dal lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare; Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria così lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo ) ), munito di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo bianco: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi non aveva, né à un nome particolare, laddove altrove (Bisaccia) in Campania à il nome di tumpagno ed è di forma circolare, né più, né meno che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura); or ora ò detto che il tagliere non à, né aveva in napoletano un nome preciso; devo correggermi: in realtà per il tagliere, i napoletani usavano il generico termine di laganaturo (che è, come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se più strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo si indicò un tempo ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spianava la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello erano due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Il suddetto tavulo o tavula, qualche più anziano frequentatore di casa (nonni, vecchi zii) si ostinava a dirlo (dallo spagnolo bofeta, ‘a buffetta, ma era poco compreso da noi ragazzi che ritenevamo, sia pure errando, che il nonno o lo zio stesse confondendo, intendendosi riferire con quella loro buffetta non al tavolo, quanto al buffè altro mobile, di cui qui di sèguito parlerò. Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche avevan per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come il suo simile detto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno più pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro)collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (forse da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le più piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle più o meno grandi; esaminiamo da vicino: tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola più grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al più vasto e capace tiano maschile; le tianelle diminutivo del precedente erano le più piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi; ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)us , sincope di un rotulus forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella→piparicella→ paparicella→paparcella→ papaccella,nonché sacicce( = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frìgere); caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline più piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle; concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di più elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraù (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraù: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella > tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta. Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium→ bicarium da un greco bìkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo> vlasco→ flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree senza manico di varia capacità (dai 2 litri al quarto di litro) in cui si versava e talvolta ancóra si versa il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, e non prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, ed atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando invece essere dei cilindrici vasi vitrei (e solamente vitrei) che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso dapprina ad un modesto restringimento del passo e poi a slargarsi in una imboccatura svasata,ecco che quanto all’etimologia, penso che piú che alla forma ci si debba riferire al materiale ed al modo d’apparire d’essi perette che essendo (come ò detto) di terso e scintillante vetro (non esistono, né esistettero perette in coccio o porcellana…) penso ch’essi trassero il loro nome dall’antico alto tedesco perhat= chiaro, splendente, trasparente cosí come i perette furono e sono; carrafe : piú ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere e talora il vino : etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere; giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra. Tutti i recipienti usati nelle bettole e/o osteri, cantine etc, per servire a gli avventori il vino o altre bevande furono détti onnicomprensivamente ‘o bbrito letteralmente il vetro ma per metonimia bicchieri, caraffe,ed ogni altro contenitore usato per la mescita; la voce brito etimologicamente è una lettura metatetica con tipica alternanza partenopea v/b (cfr. bocca/vocca- varca/barca etc.) del lat.vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito. ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. così chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire… Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo: piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio; schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl> chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena; accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità. Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò: ‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici più o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo; ‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro; ‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m); e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due: ‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i più o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlìas = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia. Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad hoc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – più spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ più grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa. ‘a cucina – aggiunta Ò dimenticato di parlarvi di alcuni oggetti/utensili usati in cucina e conservati, accanto a quelli menzionati, nel bbuffè o nel contrabbuffè; provvedo ora col dirvene: cepugno intraducibile ad litteram che fu un antico vaso oleario in terracotta della capacità di piú litri, che derivò il suo nome con ogni probabilità per esser di forma simile ad una grossa cipolla (cepa o coepa) con collo stretto in tutto simile a quello della cipolla che panciutella nel corpo si restringe verso l’alto a mo’ di collo. In detto cepugno veniva conservato l’olio che una volta era acquistato senza lesinare sulle quantitatà; in prosieguo di tempo il cepugno fu sostituito con lo ziro ( dall’arabo zihr= orcio) anch’esso vaso oleario di gran capacità che poteva essere di terracotta come il cepugno ma piú spesso di banda stagnata. Avvicinandosi ai nostri dí anche nelle case piú facoltose son venuti meno e il cepugno e lo ziro sostituiti con micragnose bottiglie(butteglie) tra le quali appunto la unta e bisunta butteglia ‘e ll’uoglio da cui si preleva o meglio prelevava il prezioso condimento per il tramite di un minuscolo mesuriello ‘e ll’uoglio = misurino dalla contenuta capienza di circa 1,5 decilitri :almeno cosí ricordo; etimologie: butteglia = bottiglia : dal latino bu(t)ticula diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille, piú che uno spagnolo botilla uoglio: = olio: da un latino oleu(m) cfr. greco: élaion; il classico oleu(m) diede il volgare òliu(m) con li→gli donde oglio → uoglio; mesuriello= misurino graduato in alluminio, diminutivo del francese mésure che è dal latino mensura dal part. pass. mensus del verbo metìri= misurare; buccacce = congrui contenitori vitrei più larghi che alti dall’ampia bocca, turata da adeguati tappi ‘e suvero = sughero dal latino: subere(m) cfr. il greco: sýphar= pelle rugosa; in detti bbuccacce (il cui nome penso derivi dal fatto che fossero vasi, come detto, dall’ampia bocca e non, come qualcuno ritiene, dal latino baucale(m) che aveva dato il napoletano bucale in origine boccale per bere e poi sorta di portafiore ) erano opportunamente riposte paste secche dai minuscoli formati, (quali stelletelle, anellette, acene ‘e pepe, semmenze ‘e mellone, sturtine,rosamarina cosí chiamata in quanto formato di pasta avente la medesima forma degli aghi delle pianta di rosmarino etc.), nonché altri alimenti quali: ‘o zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar, ‘a farina dall’omonimo latino farina =farina che è da far = farro, grano janca = bianca dall’ ant. ted. blanch; detta farina bianca era detta anche ‘o sciore dal latino flos con consuento cambio fl→sci usando il medesimo termine che rende in napoletano il fiore (sciore) atteso che la farina bianca rapprenta appunto il fior fiore della macinazione dei cereali, ‘a farenella gialla = farina gialla di granturco (quella usata al nord per preparare polente) usata nella preparazione dei migliacci carnascialeschi che ebbero questo nome poi che in origine furono preparati usando una farina di miglio brillato (miglio in latino fu: mìlium donde l’aggettivo miliaceus da cui migliaccio, in bbuccacce più contenuti era conservato ‘o ccafè = il caffè, rigorosamente in chicchi che venivano , secondo l’occorrenza, frantumati e ridotti in polvere con un apposito utensile detto maceniello = maneggevole macinino meccanico, etimologicamente deverbale del latino machinare che è da machina = macìna; talora il caffè era acquistato senza che fosse tostato, ma ancòra verde e la tostatura necessaria prima di procedere alla macinazione, occorreva farla in cucina con l’apposito abbrustulaturo cilindrico utensile di ferro nero provvisto di manovella, di un vano in cui si immetteva il caffè da abbrustolire, protetto da uno sportellino con nottolino di chiusura, alloggiamento inferiore per porvi le braci di combusta carbonella; l’utensile derivava il suo nome da un basso latino: ambustulare frequentativo di amburere = bruciare ai lati; ancòra in altri più minuscoli bbuccaccielle (diminutivo dei pregressi bbuccacce) trovavano posto le spezie secche o in polvere, quali il pepe nero in grani che veniva ridotto in polvere con un altro deputato piccolo maceniello ovviamente diverso da quello usato per il caffè, ‘a cannella, la noce moscata, ‘e fenucchielle = semi di finocchio, ‘e chiuvetielle ‘e carofano (dal greco karyòphillon che dette prima carofalo e poi per dissimilazione l-r→ r-n carofano )= chiodini di garofano che venivano buoni per qualche noioso mal di denti, arecheta (= origano ) forse dal latino: origanon incrociato con nepeta, gli aghi di rosamarina (=rosmarino) dal latino: ros (rugiada)+ marina(marina) così detto per i fiori cerulei della pianta; ricorderò infine conservata in un suo bbuccacciello a chiusura ermetica ‘a póvera ‘e cacavo ( dallo spagnolo cacao con epentesi eufonica della v) = polvere di cacao che veniva usato poche volte all’anno per preparare calde, saporite tazze di cioccolata in occasioni dei genetliaci dei componenti la famiglia; in un ultimo capace bbuccaccio era conservato il sale che veniva acquistato rigorosamente grosso, venduto non in tabaccheria, ma in talune remote drogherie e prelevato dal droghiere, da bianchi sacchetti, marchiati col simbolo del monopolio di stato, con una sassuolina, prima di pesarlo in una dondolante stadera (lat. statìra(m), dal gr. statêra, acc. di statér -êros 'statere', denominazione di un peso e di una moneta) e consegnarlo all’acquirente, rinchiuso in un cuoppo (= cartoccetto conico di carta doppia per lo più di color grigio chiaro) etimologicamente dalla già vista cuppa(m)← cupa(m) latina; il sale grosso così acquistato veniva usato al naturale per salare l’acqua in cui si lessava la pasta; per tutte le altre preparazioni (salvo talvolta per condire pesce e/o verdure (ed allora era addizionato di un congruo numero di erbette secche e/o spezie)) occorreva raffinarlo, renderlo cioè fino; tale operazione poteva avvenire in due maniere: una artigianale ed una più crismatica; quella artigianale consisteva in: prelevare dal bbuccaccio di pertinenza il quantitativo di sale grosso che si intendeva raffinare, ammonticchiarlo sul tavolo di marmo ben netto, riempire di acqua una bottiglia di vetro doppio, tapparla benissimo, asciugarla accuratamente e con questa sorta di agevole randello, frangere il sale grosso, passando e ripassandovi sopra a lungo finché non lo si fosse raffinato a sufficienza, il sale fino così ottenuto veniva raccolto con un cucchiaio e sistemato in un’ampia salera (dal latino sal attraverso l’aggettivo salaria ) di coccio, provvista, per tentare di combattere la naturale igroscopicità del minerale, di un cupierchio (dal latino coperculum) da non confondere con ‘o cummuoglio che è la copertura non dei piccoli utensili, ma di più ampie entità quali ad es. una scatola per le scarpe o altro, o anche la lignea copertura di macchine domestiche, come quella per cucire; cummuoglio (deverbale da un basso latino: cum+volvjare→cumvoljare→cummoljare→cummuljare→cummiglià fino a dare il nostro cummuoglio; torniamo alla salèra (che come altri utensili di cucina fu inizialmente in terracotta) ed al suo coperchio su cui a mo’ di pomello o maniglia si ergeva una caricaturale statuina riproducente un ridanciano omino: ll’ommo ‘ncopp’â salèra un omuncolo cioè simile ad un tal Tom Pouce, viaggiatore inglese, o secondo altra tesi: nanetto inglese che si esibiva in spettacoli circensi, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo; fosse un viaggiatore o un pagliaccio, fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono per molti anni a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione paré ll’ommo ‘ncopp’â salèra venne riferita da allora, con tono di scherno, verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto. La maniera più crismatica di raffinare in casa il sale grosso era quella che prevedeva l’uso d’ ‘o murtale (= mortaio dal latino mortariu(m) con dissimilazione r –l ampio vaso concavo di legno o ferro o ghisa, ma più spesso di marmo, dalle spesse pareti in cui si frantumano erbe o spezie e qui il sale grosso da raffinare, usando quel che in toscano è detto pestello ed in napoletano pesaturo con evidente sincope di una t di un originario pestaturo deverbale di pestare ( tardo latino pistare iterativo di pínsere con aggiunta del suffisso di scopo turo o alibi tore ). Voglio rammentare – tra gli utensili conservati nel bbuffè o contrabbuffè – per ultimi, ma non ultimi ‘e vasette (dal latino vas con aggiunta del diminutivo etto)contenitori cilindrici in terracotta smaltata o invetriata, di diverse dimensioni, usati per conservare varî alimenti; detti vasi erano sempre privi di coperchio; una volta che fossero stati pieni, la copertura veniva assicurata da uno o più fogli di carta oleata o paraffinata, fogli poggiati sull’imboccatura, fatti debordare gli angoli con misura e trattenuti con uno o più giri di spago; per i vasetti più piccoli in luogo dello spago erano usati dei cedevoli elastici; avevamo ordunque ‘o vasetto d’’a ‘nzogna(= il vaso per la sugna, il gustosissimo condimento che per talune preparazioni veniva usato con o in sostituzione dell’olio; Preciso súbito che la voce napoletana a margine (‘nzogna) che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto. Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns>nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso. Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o più vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con i consueti fogli di carta oleata; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso. Procediamo. In altri vasetti più piccoli si conservavano sotto olio: filetti di alici salate opportunamente dissalati, eviscerati, lavati, ed asciugati superficialmente;in vasetti un po’ piú grandi, ugualmente sotto olio, ma previa bollitura in aceto aromatizzato, si conservavano fette di melanzane condite con aglio affettato sottilmente, origano, pezzetti di peperoncino piccante; con il medesimo condimento e previa identica bollitura in aceto, sempre sotto olio, in un abbastanza grande vasetto si conservava la c.d. cumposta (dal latino: composita p.p. femm. dal verbo componere: mettere insieme, unire) gustosissima miscellanea di piccole falde di peperoni, tocchetti di melanzane,carote tagliate a rondelle, ciuffi di cavolfiore, olive bianche e nere ed altri ortaggi come pezzetti di sedano, in napoletano accio (dal latino: apiu-m con il medesimo evolversi morfologico che à dato il napoletano saccio (so) dal latino: sapio. Tale cumposta prelevata, secondo le necessità con una piccola schiumarola bucata, per manter costante il livello dell’olio nel vasetto, era usata o da sola come stimolante contorno a pietanze di carne o pesce, o come gustoso arricchimento di fresche insalate verdi! E qui penso di poter far punto, non sovvenendomi altro da raccontarvi. Raffaele Bracale

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