domenica 20 settembre 2015

VARIE 15/664

1.E BBRAVO Ô FESSO! Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende, da saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria supposta valentía nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri ed in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie transeunti ragioni. Per meglio chiarire, occorre che mi spieghi con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia perciò difficoltà ad ascendere una scala. Si presenta lo sciocco arrogante di turno che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta (volendo fare intendere che l’infortunato è incapace di fare cose semplici non perché infortunato, ma perché inetto di costituzione), commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: “Sei cosí stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu!” A margine di tutto rammento che spesso autori sedicenti napoletani, ma colpevolmente a digiuno di semantica e/o sintassi e grammatica della parlata partenopea rendono l’espressione in epigrafe non cosí come riportato E bbravo ô fesso! (Bravo allo sciocco!) con un inesatto ossimoro E bravo ‘o fesso! (Bravo lo sciocco!) che non riproduce l’esatto pensiero dell’autentico napoletano che mentalmente articola appunto Bravo allo sciocco! e non Bravo lo sciocco!, contraddice le statuizioni della grammatica e sintassi del napoletano dove un complemento oggetto d’una proposizione transitiva o l’oggetto delle esclamative non è mai introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il)/’a(la)/ ‘e (le o gli) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalle prep. articolate ô = a+ ‘o(allo) oppure â(= a + ‘a= alla ) o ê (=a +’e = a gli – alle) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti di proposizioni transitive o esclamative (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a ppàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) esige una a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina, come ò già détto, una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle). bravo agg.vo m.le o f.le talora sostantivo: 1 che è abile ed esperto in ciò che fa, spec. nell'esercizio di un mestiere, di una professione o negli studi; valente 2 onesto, dabbene; generoso, di buon cuore: ‘nu bravo ggiovane(un bravo giovane) brav'ommo, , formule di cortesia con cui un tempo ci si rivolgeva a uno sconosciuto; oggi sono usate per lo più in tono scherzoso o ironico 3 (non com.) coraggioso, pieno di ardimento, di baldanza; 4 (fam.) può essere usato con funzione rafforzativa o espressiva, unito all'agg. possessivo e riferito a cosa: 5 (ant.) non addomesticato, brado come s. m. (st.) soldato mercenario, sgherro al servizio di un signore Etimologicamente non dal lat. barbaru(m) 'barbaro, selvaggio',ma da pravu(m) 'pravo, malvagio', usato talora anche con sign. positivo o ironico. Fesso agg. e s. m. [f. -a] (detto spec. di persona) esattamente lo sciocco balordo, senza una sua consistenza fisica e/o morale, lo stupido, , lo stolto, il deficiente, l’imbecille, lo scimunito e, talora (cfr. far fesso), l’ingannato, il tradito in tutto in linea con il suo etimo dal latino fissus part. pass. del verbo findere =spaccare, dividere; far fesso qualcuno, ingannarlo, imbrogliarlo. 2. TENÉ 'E FRUVOLE DINT'Ô MAZZO. Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole ( lettura metatetica del latino fulgor con rotacizzazione della L e metaplasmo della G in V come vallina/vallo per gallina/gallo , gulio/vulio, vappa→guappo etc.) sono i fulmini, le folgori. 3. RUMMANÉ Â PREVETINA O COMME A DON PAULINO. Rimanere alla maniera dei preti o come don Paolino. Id est: Rimanere in condizioni economiche molto precarie addirittura come un mitico don Paolino, sacerdote nolano che,potendo contare per il suo sostentamendo ed ogni altro bisogno d’una sola prevetina quotidiana (la prevetina era una vilissima moneta che a far tempo dal1850 e ss.)valeva 13 grani corrispondenti a 56,745 lire italiane; s’ebbe quel nome perché con essa si pagava la celebrazione d’ una messa piana e fu quindi moneta di pertinenza quasi esclusiva dei preti); non avendo di che comprare ceri per celebrar messa, si doveva accontentare di tizzoni accesi. 4. TANTO VA 'A LANCELLA ABBASCIO Ô PUZZO, CA CE RUMMANE 'A MANECA. Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico. Il proverbio con altra raffigurazione, molto piú icastica, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella è una brocca o un vaso di creta, quella della locuzione è propriamente un secchio atto a contenere acqua o ad attingerne dal pozzo; in tal caso è un secchio in terraglia o provvisto di doghe lignee e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.la voce lancella/langella è dal lat. lanx-lancis e dai suoi diminutivi lancula e lancella 5. SIGNORE MIO SCANZA A MME E A CCHI CÒGLIE. Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. E' la locuzione invocazione rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da perizia. 6. ESSERE 'NA GUALLERA CU 'E FILOSCE. Letteralmente: essere un'ernia corredata di frittate d'uova. Icastica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro, delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova. 7. METTERE A UNO 'NCOPP' A 'NU PUORCO. Letteralmente: mettere uno a cavallo di un porco. Id est: sparlar di uno, spettegolarne, additarlo al ludibrio degli altri, come avveniva anticamente quando in Napoli al popolino era consentito condurre alla gogna il condannato trasportandolo a dorso di maiale – animale di cui la città di Napoli brulicava essendo détta bestia allevata da chiunque e dovunque – affinché il condannato venisse notato da tutti e fatto segno di ingiurie e contumelie.A Roma il condannato alla gogna vi era menato a dorso d’asino. 8. ORAMAJE À APPISO 'E FIERRE A SANT' ALOJA. Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...)Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare. Da questa consuetudine, nacque il proverbio ammiccante nei confronti degli anziani. 9. SI ME METTO A FFÀ CAPPIELLE, NASCÉNO CRIATURE SENZA CAPA. Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica. 10. A - NUN FÀ PÉRETE A CCHI TÈNE CULO. B - NUN DÀ PONIE A CCHI TÈNE MANE. I due proverbi in epigrafe, in fondo con parole diverse mirano allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salve di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salve. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani. 11. QUANNO CHIOVONO PASSE E FICUSECCHE. Letteralmente: quando cadono dal cielo uva passita e fichi secchi. Id est: mai. La locuzione viene usata quale risposta dispettosa a chi chiedesse quando si potrebbe verificare un accadimento ritenuto invece dalla maggioranza irrealizzabile. 12. 'O CULO 'E MAL'ASSIETTO NUN TROVA MAJE ARRICIETTO. Letteralmente: il sedere di chi siede malvolentieri non trova mai tregua. Per solito, con la frase in epigrafe si fa riferimento al continuo dimenarsi, anche da seduti, che fanno i ragazzi incapaci di porre un freno alla loro voglia di muoversi. Assietto s.m. = assetto, seduta, sistemazione, modo di sedere;quanto all’etimo è un deverbale dal lat. volg. *asseditare, frequent. di sedíre 'star seduto' arricietto sost. masch. = tregua, calma, riposo ma pure sistemazione derivato del basso lat. *ad-receptu(m)→arrecettu(m)→ arricietto. 13. FATTE 'E CAZZE TUOJE E VIDE CHI T''E FA FÀ... Letteramente: impicciati dei casi tuoi e procura di trovare qualcuno che ti aiuti in tal senso.Il mondo è pieno, purtroppo di gente incapace di restare nel proprio ambito, pieno di gente che gode ad intromettersi negli affari altrui dispensando consigli non richiesti che il piú delle volte procurano ulteriori affanni, invece di lenire la situazione di coloro a cui vengon rivolti i sullodati consigli. Tanto basta a giustificare l'invito dell'epigrafe che è perentorio e non ammette repliche. 14. ESSERE A LL'ABBLATIVO. Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine. 15. ESSERE MURO E MMURO CU 'A VICARIA. Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco. 16. CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA... S’AMMATURANO ‘E NESPOLE Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti. 17. SÎ ARRIVATO ALLA MONACA ‘E LIGNAMMO. Letteralmente: Sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. 18. STAMMO A LL'EVERA. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi. 19. HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE. Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri. 20. FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE. Letteralmente: diventa (oppure fa’ le viste d’essere) capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici. 21. CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MMURÍ QUATRO. Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio. 22. A CCHI PARLA ARETO, 'O CULO LE RISPONNE. Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti. 23. CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE. Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo. 24. 'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande. 25. 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce. 26. JÍ METTENNO 'A FUNE 'E NOTTE. Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. 27. SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative. 28. PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA! Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre. 29. CESSO A VVIENTO! Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti sia in alto che in basso, per consentire un agevole ricambio d'aria e favorirne una rapida pulizia con l’uso di pompe idrauliche, pulizia che però era svolta una sola volta al giorno per cui normalmente tali vespasiani risultavano lerci e maleolenti, cosí come lercio e/o maleolente, in senso fisico o morale, è ritenuto colui cui l’offesa viene rivolta! 30. PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei diretti al Camposanto. 31. CORE CUNTENTO Â LOGGIA. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi. 32. FARNE UNA CCHIÚ 'E CATUCCIO. Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon (La Courtille, Belleville, 1693 -† Parigi 1721).Costui, figlio d'un bottaio, lasciò gli studi intrapresi presso i gesuiti, per darsi alla malavita e divenne protagonista, durante una dozzina d'anni, di furti e avventure d'ogni sorta, che resero la sua biografia popolare in tutta Europa . Questo celebre brigante venne soprannominato Cartouche, nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. Arrestato, fu giustiziato nella piazza di Grève. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi. 33. ESSERE PASSATA 'E CÓVETA O 'E CUTTURA. Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè molle o bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare o lessare eccessivamente. 34. QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta. 35. È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO I 'E MACCARUNE 'A COPPA. Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. Locuzione usata per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici, esatti e codificati. In effetti, logica vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia! 36. DOPPO MUORTO, BUZZARATO. Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere morto. buzzarato voce verbale part. pass. dell’infinito buzzarà =1 (ant. , volg.) sodomizzare 2 (per estensione region. pop.come nel caso in esame) percuotere, vilipendere 3 (region. pop.) imbrogliare, ingannare. etimologicamente metaplasmo dal lat. tardo Bugarus per Bulgarus 'bulgaro'; nel medioevo, dopo che questo popolo ebbe abbracciato l'eresia patarina, il suo nome significò anche 'eretici' e quindi (forse per l'identità della pena) 'sodomiti. 37. TROPPI VALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNE. Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione. 38. NUN C'È PRERECA SENZA SANT' AUSTINO. Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate. 39. 'A MALANOVA LL'ACCUMPAGNA 'O VIENTO. Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento. 40. QUANNO 'O MELLONE JESCE RUSSO, OGNEDUNO NE VO’ 'NA FELLA. Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione è usata quando si voglia accusare il pessimo comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore... 41. SI 'O SIGNORE ME PRUVVEDE, M'AGGI' 'A FÀ 'NU QUACCHERO LUONGO NFI’ Ê PIEDE. Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero che di per sé indica un seguace di un movimento religioso protestante (Società degli amici) sorto in Inghilterra nel sec. XVII e diffusosi negli Stati Uniti, qui è usato nel senso di cappotto, rammentando i lunghi costumi indossati dai détti seguaci. Etimologicamente è un adattamento dall'ingl. quaker, propr. 'tremolante', deriv. di to quake 'tremare'; nome attribuito per scherno, nel 1650, ai seguaci del movimento, perché il fondatore aveva ammonito i presenti (ad una delle prime riunioni della setta) a tremare davanti alla parola di Dio. 42. LL'ABBATE TACCARELLA. Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome [che fu anche il nome di un sapido, pettegolo personaggio d’una commedia di F.sco Cerlone(Napoli, 1730 ca. – † Napoli, 1812 circa) librettista e drammaturgo partenopeo, ritenuto l’emulo di Carlo Goldoni(Venezia, 25 febbraio 1707 – †Parigi, 6 febbraio 1793)] viene bollato, a Napoli,il/la pettegolo/a, la malalingua, chi per abitudine ami sparlare, colui/colei che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; il s.vo f.le taccarella [diminutivo di tacca] inteso poi nome proprio maschile Taccarella è chiaramente un deverbale desunto dal verbo taccarià che quale denominale di tacca= scheggia, pezzo (dal ted. taikka→ta(i)kka→tacca) significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti. 43. T' HÊ PIGLIATO 'E CCIENT' OVE. Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova. Id est: sei diventato pazzo. La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di seguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo. 44. FRIJENNO, MAGNANNO. Letteralmente: friggendo e mangiando. L'uso, tutto napoletano, di mettere in fila due gerundi, senza un apparente modo finito reggente, sta ad indicare che le due azioni debbono essere eseguite quasi contemporaneamente, senza soluzione di continuità, e - nella fattispecie - il cibo una volta fritto deve essere subito consumato, senza indugio, con immediatezza e rapidità. Il cibo, sottinteso nella locuzione, è rappresentato dalle famosissime paste cresciute, dai tittoli, dai fiori di zucca in pastella e da tutte quelle numerose verdure, fette di ricotta, uova sode, animelle etc. che concorrono a formare quello che erroneamente si dice fritto all'italiana e che sarebbe piú consono dire fritto alla napoletana, giacchè in Napoli fu ideato questo tipo di preparazione culinaria da consumarsi velocemente all'impiedi davanti ai banchi delle friggitorie (antenate delle moderne pizzerie) esercizi dove detto fritto veniva preparato ed offerto seduta stante all'avventore anche frettoloso. 45. FATTE 'NA BBONA ANNUMMENATA E VA'SCASSANNO CHIESIE. Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese. Id est: ciò che conta nella vita è di godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che gode di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma. 46. AMMACCA E SSALA, AULIVE 'E GAETA. Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo - usata dai venditori di olive e con essa si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare. 47. CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SAPONE. Letteralmente: di qui le pezze e di là il sapone. E' il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il des sono contemporanei. Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti "sapunari" perché offrivano in cambio di abiti dismessi un tot di sapone artigianale quale merce di scambio. 48. M''O SSENTO 'E SCENNERE PE DERETO Ê RINE. Letteralmente: me lo sento colare lungo il filo della schiena. L'espressione viene usata con senso di rammarico se non di timore, quando si voglia comunicare a terzi di avvertire su se stessi la sensazione di un prossimo imminente disastro e/o pericolo e di non potervi porre riparo. 49. SE SO' 'NCUNTRATE 'O SANGO E 'A CAPA. Letteralmente: si sono uniti il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarii al conserguimento di un quid. Anche in senso marcatamente dispregiativo per sottolineare l'incontro di due poco di buono dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo détto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue. 50. ESSERE D''O BETTONE. Letteralmente: essere del bottone Id est: Appartenere ad un medesima consorteria, ad una stessa associazione e perciò essere nella condizione di poter chiedere e ricevere aiuto ed assistenza dai propri sodali. Il bottone della locuzione è, senza dubbio, il distintivo, cioè il segno esteriore della appartenenza ad un determinato consesso, ma è inesatto ritenere il distintivo della locuzione quello fascista, perché l'espressione, a Napoli, era nota e si usava fin dall'epoca dei Borbone. Brak

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