giovedì 1 ottobre 2015

VARIE 15/710

1.STÀ CU ‘E PPACCHE DINT’ A LL’ACQUA Ad litteram: Star con le natiche nell’acqua. Espressione usata, impropriamente, per significare di essere molto poveri e/o trovarsi in gran miseria. In realtà l’espressione piú acconciamente dovrebbe essere usata solo per indicare di star molto e faticosamente lavorando e ciò perché l’espressione in origine trasse dall’osservazione del comportamento dei pescatori addetti al governo della sciabica [nap. sciaveca] la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena. Successivamente nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo, l’espressione venne (ed è ancóra) usata per indicare di essere molto poveri e/o trovarsi in gran miseria. Etimologicamente la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è derivata al napoletano (attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da cui anche il portoghese jabeca/ga. Pacche s.vo f.le pl. del sg. pacca= natica e per traslato ognuna delle piú parti in cui si può dividere longitudinalmente una mela o una pera; etimologicamente la voce è dal lat. med. pacca marcato sul long. pakka. 2. SPACCA E MMETTE Ô SOLE L’espressione in epigrafe è riferita a chi faccia le vista di menar vanto di inesistenti e non conclamate ricchezze e/o meriti posseduti e se ne glori a sproposito;l'espressione originariamente faceva riferimento ai contadini che usano tagliare (cioè spaccare) pomidoro e/o fichi ed esporli al sole per l'essiccazione; va da sé che maggiore era la quantità di pomidoro e/o fichi seccati e messi al sole maggiore era la ricchezza del contadino e maggiore il vanto che ne derivava.Successivamente l'espressione, per traslato,fu riferita a chiunque menasse, a torto o a ragione, vanto di propri averi materiali e/o morali e piú spesso la si usò a dileggio di chi si gloriasse a sproposito. 3. CANTÀ LL’ACCIO L’espressione in epigrafe che ad litteram vale: Cantare il sedano è da intendersi nel senso di: smascherare l’imbroglione. Si tratta di un’ espressione del tutto gergale, usata soprattutto in provincia in zone rurali. Per essere bene intesa occorre ricordare che il verbo cantare [ voce dal lat. cantare, intensivo di canĕre «cantare»] in uno dei suoi significati estensivi vale: confidare cose che dovrebbero restar segrete, fare la spia e nella fattispecie smascherare e segnatamente si smaschera l’accio cioé il sedano una delle tre verdure (le altre due sono: finocchio e ravanello) capaci di far apparire migliore di quel che in realtà siano alcune bevande (vino) o carni (insaccati) di talché si può affermare che il sedano (in napoletano accio [voce dal latino apiu-m con normale esito del gruppo latino PI in CCI come in saccio←sapio, seccia←sepia etc.]) si comporti da imbroglione ed appunto nel gergo dei malavitosi son détti acce gli imbroglioni; tanto premesso quando in provincia e segnatamente nelle zone rurali qualcuno si adoperi per smascherare un imbroglione si dice che canta ll’accio; talora però l’espressione in epigrafe è intesa nel senso di aspettare molto tempo e ciò probabilmente perché, soprattutto nell’àmbito malavitoso, prima che qualcuno si decida a fare la spia smascherando un imbroglione occorre aspettare lungo tempo. 4. MA CHE TTENGO ‘A CUCINA ‘E COPPOLA ROSSA?! La locuzione fa riferimento all’inopia dei mezzi di sostentazione che costringeva le indigenti mamme di famiglia a rimbrottare i propri congiunti con il dire loro all’incirca: Vi dovete contentare di ciò che vi ammannisco; in particolare è inutile che insistiate a chiedermi pietanze di carne, non ò i mezzi per fornirvene; vi dovete accontentare di pasta, verdure, legumi (che sopperiscono alle proteine della carne) uova,rconomico pesce azzurro e /o latticini... la mia non la cucina di Gennarino Sbisà détto Coppola Rossa! Costui in origine era un camorrista, un macellaio, commerciante in carni operante tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900, famoso per l'uso del coltello nelle zumpate (duelli rusticani), il quale che aprí una bettola/taverna nella zona del porto e vi serviva, in omaggio alla sua antica occupazione, soprattutto pietanze a base di carni. Le sue geste di camorrista furono cantate dal poeta Ferdinando Russo, mentre Libero Bovio lo encomiò in un suo sonetto . 5. FELEPPINA Il termine in epigrafe è attestato in doppio significato; in primis feleppina s.vo f.le vale vento secco di tramontana, spiffero freddo e pungente; in tale accezione il s.vo in esame è un prestito lucano (Tursi piccolo comune montano della provincia di Matera) con riferimento al vento particolarmente pungente che spira colà nel rione della Chiesa di san Filippo Neri; esiste poi una seconda accezione di feleppina accezione con cui si intende una fame intensa e smodata; in tale accezione però il sostantivo non è originario ma è etimologicamente l’adattamento corruttivo di falupina→faluppina→feleppina e falupina sta per (cfr. D.E.I.) fa(me)lupina= fame da lupo. 6. TENÉ ‘A CORA ‘E PAGLIA Ad litteram: Avere la coda di paglia (essere in sospetto di non avere la coscienza pulita, allarmarsi alla prima allusione sfavorevole, discolparsi senza essere stati accusati quindi reagire velocemente a critiche o osservazioni, "prendere velocemente fuoco", come la paglia). S i tratta d’un’espressione nata in àmbito contadino: un'antica favola racconta che una giovane volpe cadde disgraziatamente in una tagliola; riuscì a fuggire ma gran parte della coda rimase nella tagliola. Si sa che la bellezza delle volpi è tutta nella coda, e la poveretta si vergognava di farsi vedere con quel brutto mozzicone. Gli animali che la conoscevano ebbero pietà e le costruirono una coda di paglia. Tutti mantennero il segreto tranne un galletto che disse la cosa in confidenza a qualcuno e, di confidenza in confidenza, la cosa fu saputa dai contadini, padroni dei pollai, i quali accesero un po' di fuoco davanti ad ogni stia. La volpe, per paura di bruciarsi la coda, evitò di avvicinarsi alle stie. Si dice che uno à la coda di paglia quando chi à commesso qualche birbonata abbia paura di essere scoperto e si comporti conseguentemente allarmarmandosi alla prima allusione sfavorevole, discolpandosi senza essere stati accusati, reagendo con eccessiva rapidità alle piú piccole critiche o osservazioni, insomma "prendendo rapidamente fuoco", come la paglia. 7. MANNAGGIA BBUBBÀ! Chiarisco qui significato e portata dell’ espressione esclamativa nonché origine di quell’oscuro (a prima vista) bbubbà.Comincio perciò con il dire l’espressione in epigrafe andrebbe correttamente scritta in napoletano non mannaggia bbubbà (come la corruzione del parlato ci costrinse e talora ancóra ci costringe ad ascoltare)ma: mannaggia ô bbubbà, dove la ô è una crasi che sta per a +lo / a + il= al atteso che l’espressione va tradotta come male ne abbia il bbubbà e nella parlata napoletana, come ebbi a dire alibi, il complemento oggetto allorché sia persona o soggetto animato (o inteso tale) va introdotto da una A segnacaso che è residuo di un latino parlato ( ad es.: aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre oppure aggiu ‘ntiso ô cane= ò sentito il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere.) Ciò precisato entriamo in medias res e diciamo che nel significato corrente, la voce mannaggia non risulta essere una corruzione di madonnaccia, come qualcuno erroneamente pensa, ché se così fosse mannaggia sostanzierebbe una gravissima bestemmia, laddove essa risulta essere invece solo una contenuta esclamazione di rabbia e/o stizza o imprecazione rivolta contro qualcuno (mannaggia a tte!) o qualcosa (mannaggia â morte!) e sta per accidenti a, perbacco!, maledizione a..., ovvero "male ne abbia colui o la cosa contro cui è diretto il mannaggia. Etimologicamente il termine mannaggia è appunto una deformazione ( per una sorta di sincope e fusione interna con raddoppiamento espressivo della nasale n) della frase: ma(le)+ n(e)= malanno aggia→mannaggia= male ne abbia. In origine malanno aggia fu dal lat. malum + habeat. E veniamo demum a dire di quell’oscuro bbubbà che poi tanto oscuro non è trattandosi della contrazione/corruzione del s.vo m.le be-a-bà→bbiabbà→bbubbà ; con tale antico e desueto s.vo m.le be-a-bà (stranamente assente nel D’Ambra e nel P.P.Volpi, ma presente nel datato R.Andreoli e nel piú recente F.D’Ascoli) si indicò 1 in primis il sillabario, il libro sul quale si impara a leggere e a scrivere, l’abbecedario; 2 per ampliamento semantico i primi rudimenti, l'insieme dei princpiî e delle nozioni elementari di una disciplina, di una tecnica, l’abbiccí d’ un quid; la voce fu ricavata per bisticcio e metatesi dalle prime lettere dell’alfabeto a,bi lètte a,be donde be- a – bà→bbiabbà→bbubbà.Chiariti origine ed etimo della voce mettiamo a ffuoco l’interessante semantica dell’espressione che – come dicevo – s’era soliti cogliere sulle labbra di persone avanti negli anni per esprimere generico, ma contenuto disappunto,dispiacere, rammarico, contrarietà, stizza,delusione, rincrescimento davanti ad avvenimenti fastidiosi od imprevisti, ma ineludibili; in effetti l’espressione non era un maledire il sillabario o l’abbiccí d’ un quid; sostanziava al contrario una maledizione diretta contro l’ignoranza in presenza della quale occorreva assoggettarsi a far ricorso al sillabario o l’abbiccí d’ un quid.In coda rammento che anche Eduardo De Filippo nella versione a stampa del suo Chi è cchiú felice ‘e me?! usò l’espressione “Mannaggia ô bbi-a-bbà”mentre nella messa in iscena televisiva, forse in ossequio al piú comune parlato corrente la mutò in “Mannaggia bbubbà”. 8. SCIASCINA E DINTORNI. Chiarisco qui significato e portata della desueta voce in epigrafe. sciascina s.vo f.le papalina, berretto alla turca di lana, basso copricapo a tronco di cono , senza tesa, corredato o meno di una nappina penzolante, portato soprattutto in casa, nel passato, dagli uomini anziani a protezione della calvizie o per tener calda la testa,; etimologicamente voce dall’arabo shashiyya. A margine tammento che la sciascina non va confusa con la coppola o con la scazzetta coppola = berretto basso con visiera, usato spec. in Sicilia ed un po’ tutto il meridione; l’etimo risulta derivato dal tardo latino *cuppola diminutivo (vedi suff. ola) di cuppa(m) per il classico cupa(m) che indicò oltre che la botte, il barile etc. anche qualsiasi oggetto che avesse forma concava o ondeggiante e persino la nuca, quella stessa su cui si porta ben calcato il berretto a margine, mentre la visiera vien tirata sugli occhi quasi a protezione o per nascondersi. scazzetta è un s.vo f.le che indica genericamente un copricapo maschile e piú precisamente indica 1 uno zucchetto usato dal clero,un copricapo di forma semisferica molto aderente alla nuca costituito da quattro spicchi (in forma di triangoli isosceli) di tessuto foderato, spicchi cuciti in modo da far convergere i vertici dei triangoli al centro del copricapo cosí da creare una forma sapientemente semisferica che aderisca benissimo al capo e segnatamente alla nuca.Tale zucchetto è di vario colore a seconda di chi lo indossi: nero per il clero basso , nero profilato di rosso cremisi per monsignori e canonici, violaceo per i vescovi, rosso per i cardinali e bianco per il papa, ma una sola è la funzione comune per tutti, quella di proteggere la zona della tonsura e temo che tale copricapo sia stato usato nella chiesa cattolica ad imitazione del kippah quel copricapo cioè usato correntemente dagli Ebrei osservanti maschi principalmente all'interno dei luoghi di culto, anche se i piú religiosi lo indossano anche durante la vita quotidiana; 2 papalina, piccolo copricapo tondo e rigido, copricapo d’uso domestico, berretto di lana tondo e senza tesa,foderato, per lo piú con una nappina laterale o alla sommità, che un tempo portavano in casa gli uomini anziani. 3 berretto da notte, copricapo di lana foderato in foggia di cono con una nappa sulla punta del vertice, usato dagli uomini anziani durante la notte per protezione del capo; tale copricapo è détto esattamente scazzetta p’ ‘a notte. Circa l’etimologia della voce alcuni si trincerano su di un etimo sconosciuto, cosa che mi dà l’orticaria, molti azzardano varie ipotesi; insomma non ci sono identità di vedute sull’ etimologia della voce in esame; non tengo in alcun conto chi sbrigativamente parla di onomatopèia, ma non precisa poi donde provenga e quale possa essere la fonte di questa onomatopèia; non mi convince neppure chi fantasiosamente parla, per la forma del berretto di un denominale di cazza (lat. tardo cattia(m), dal gr. ky/athos 'coppa, tazza'); non mi convince neppure chi fantasiosamente parla di un deverbale di un non attestato *scazzare usato in taluni lessici meridionali come correlativo di schiacciare; non mi convince infine neppure chi farraginosamente parla di un deverbale di scamazzare→sca(ma)zzare = schiacciare;per il vero queste ultime due ipotesi semanticamente sembrerebbero corrette atteso che in effetti la scazzetta insiste sul capo pigiandolo, ma – morfologicamente - m’appaiono ipotesi lontano dal vero. Non mi resta che far mia l’idea del prof. Giarrizzo che legge in scazzetta un denominale del greco s + kottis – kottidos = testa, capo. Brak

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