giovedì 4 febbraio 2016

MO


MO

Nel napoletano (vuoi  nei testi scritti, che nel comune parlare) si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata  con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente  definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta  connota il cittadino e  se è pronunciato con la  o chiusa connota il provinciale.

 --mo (è possibile trovarlo anche come  mo' o ancóra) avv. - Ora, adesso; poco fa  Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi  mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.

nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo  con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo

Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?

Il problema non è di facilissima soluzione posto che  non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse  da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;

vi sono infatti parecchi  scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato  dall’apposizione di un segno diacritico ().

Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox =  ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice  e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.

È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine,  per motivi etimologici, perde una sola o piú  consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale),  non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;

ecco dunque che  ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum   per  pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia  consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è  là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono   ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là  dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’  che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3° pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st)  comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può.

Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,

 E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)  

Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare  da mox in quanto, pare, che una doppia consonante  come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica  come la d di modo.

Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale  re  che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x ,  anche ammettendo  che il napoletano mo discenda da modo e non da mox  non si capisce perché  esso mo  andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di  un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.

Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).

Raffaele Bracale

 

 

 

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