domenica 30 ottobre 2016

A LA SANFRASÒN oppure SANFASÒN E DINTORNI

A LA SANFRASÒN oppure SANFASÒN E DINTORNI Ad litteram: alla carlona; détto di tutto ciò che venga fatto alla meno peggio, senza attenzione e misura, in modo sciatto e volutamente disattento, con superficialità e senza criterio.L’espressione è formata con le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento espressivo della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc. Fare qualcosa alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn vale dunque come ò accennato – operare in maniera colpevolmente distratta, sconsiderata, trascurata, negligente, superficiale, svogliata, approssimativa; dal che si evince che l’espressione à un valore, un’accezione,un senso, un significato,una nuance, una sfumatura, un tono, un carattere marcatamente negativi per cui l’espressione non può esser confusa o usata al posto di quell’altra che recita fà ‘na cosa sciué sciué id est: fare una cosa in maniera semplice, spoglia, disadorna, sobria, essenziale ma non raffazzonata come càpita quando una cosa sia fatta alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn; l’espressione sciué sciué è usata quasi come aggettivazione per indicare qualsiasi cosa venga fatta con superficialità, alla buona, senza eccessivo impegno, insomma in maniera fluente, scorrevole, con semplicità. Per ciò che attiene all’etimologia, una scuola di pensiero reputa che l’espressione provenga dal francese e precisamente dalla voce: échoué participio passato dal verbo échouer che significa: non riuscire,andare a vuoto. Orbene, è vero che la voce échoué suona, nella lettura esciué, in maniera molto simile allo sciué napoletano, ma la locuzione partenopea non indica mai qualcosa di non riuscito o di andato a vuoto, mancato, ma sempre qualcosa di condotto a termine sia pure in maniera semplice, scorrevolmente, senza porsi problemi. Penso perciò che questa ipotesi non sia percorribile. Altra ipotesi proposta è quella che collega la locuzione napoletana in epigrafe all’ arabo shoué shoué.; ipotesi affascinante alla luce delle numerose invasioni arabe che dal 1000 in poi tormentarono Napoli ed il suo reame, e le numerose parole che il napoletano à mutuato dall’arabo, ma l’ipotesi penso sia da scartare in quanto l’espressione araba non significa: velocemente, alla buona, ma – al contrario - piano piano. Reputo – a questo punto - molto piú vicina al vero l’ipotesi che fa derivare dall’immarcescibile latino la locuzione napoletana sciué sciué. Infatti morfologicamente e semanticamente si può pervenire a sciué sciué, partendo da un reiterato fluens part. presente di fluere=scorrere, insomma fluens fluens che tradotto suona fluente, scorrevole con il medesimo significato di sciué sciué. A favore di questa ipotesi oltre il medesimo significato, gioca il fatto che il gruppo FL latino trasmigrato nel napoletano diviene sempre SCI, come nel caso di flos (fiore) divenuto: sciore o flumen(fiume) diventato sciummo. Torno all’espressione donde ci siamo mossi e cioé alla sanfrasòn/zanfrasòn = alla carlona, e vi torno per rammentare che esiste nell’usato popolare una simpaticissima locuzione, non volgare ma – nella sua icasticità – un tantino greve, locuzione che riferendosi ad un soggetto che agisca con colpevole approssimazione, senza attenzione e/o precisione, in maniera mprecisa, sciatta, incoerente e spesso illogica, lo definisce argutamente masto a uocchio, masto ‘e capocchia! che ad litteram è : maestro (che agisce) ad occhio (è) un maestro del glande! In effetti chi agisce ad occhio cioè senza la dovuta precisione quasi certamente non può raggiungere l’esatto fine dell’attività intrapresa per cui non merita d’esser definito vero maestro, ma solo un maestro della parte terminale del pene e per ovvia sineddoche dell’intero membro. masto s.vo m.le = mastro, maestro, artigiano specializzato o di grande esperienza che spesso à alle dipendenze degli apprendisti. voce dall’acc.vo lat. magistre(m) con sincope della sillaba gi e semplificazione di stre→ste→sto donde magistre(m)→ma(gi)st(r)e(m)→maste→masto; capocchia s.vo f.le = 1 in primis e come nel caso che ci occupaglande, parte terminale del pene, di forma conoide, costituita da un rigonfiamento del corpo cavernoso dell'uretra 2 per ampiamento semantico parte terminale di qualunque oggetto oblungo; voce dal lat.volg. *capa per il class. caput addizionato del suff. occhia f.le di occhio suffisso diminutivo di sostantivi che continua il lat. uculum→uclum→ uclu(m)→occhio;per cl→chi cfr. clausum→chiuso, ecclesia→chiesa, clavum→chiuovo etc. In coda di tutto quanto détto rammento un’espressione analogarelativa ad azione sconsiderata, trascurata, negligente, superficiale, svogliata, approssimativa,di carattere marcatamente negativo. Dico cioè di quella locuzione che suona FÀ ‘NA COSA A SCAMPULE ‘E MELE COTTE che ad litteram è: fare una cosa a mo’ di rimanenza di mele cotte (invendute), id est operare negligentemente , superficialmente, svogliatamente, con la medesima approssimazione posta nel vendere un residuo,una rimanenza di merce scadente , venduta sottocosto tal quale delle residuali mele cotte che, scartate dai primi acquirenti perché ritenute dozzinali, mediocri, modeste al confronto con altre, sul finire del mercato vengono cedute ad un prezzo modestissimo pur di disfarsene. Rammento infine la locuzione icasticamente becera che suona FÀ ‘NA COSA A CCAZZE 'E CANE SPIERTO che è: fare una cosa a membro di cane randagio cioè alla men peggio contendasi di ciò che capita e di ciò che si ottiene, a guisa di un cane randagio che non è monogamo, ma copula con chi càpita, dove càpiti senza alcuna remora, né si perita dei risultati. Raffaele Bracale

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