martedì 28 febbraio 2017

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1.SUNNARSE 'O TRAMME ELETTRICO Ad litteram: sognare il tram (a motore) elettrico id est: fantasticare, fare castelli in aria illudendosi di poter raggiungere un improbabile traguardo. Locuzione nata quando ancora le vetture tramviarie erano mosse dai cavalli e la sperata elettrificazione del motore era di là da venire. 2.T' AGGI’ ‘A VEDÉ 'NCOPP’ Ê GGRARE 'E 'NA CCHIESIA CU 'A MANA SCHIJATA Letteralmente: Devo vederti sui gradini d’una chiesa con la mano aperta. Id est: devo avere la soddisfazione di vederti ridotto in miseria, tanto da esser costretto ad elemosinare innanzi ad una chiesa. Maliziosa, cattiva, malevola, malvagia, velenosa, acida, perfida espressione ancóra in uso che si suole rivolgere molto poco caritatevolmente a persona verso la quale si nutra tanto astio, acrimonia, avversione, odio, ostilità, inimicizia, malevolenza, livore, rancore da desiderarne ed augurargli tutto il male possibile e cioé quello di esser ridotto alla estrema povertà, cosa che dopo la perdita della salute è quanto di peggio possa capitare ad un essere vivente! T' aggi’ ‘a espressione verbale che letteralmente è Ti ò da etc. ed è il modo napoletano di rendere il verbo dovere; in effetti con aggi’ ‘a seguíto da un verbo all’infinito si raffigura l’espressione italiana devo da o anche semplicemente devo; nell’espressione in esame ad es. T' aggi’ ‘a vedé va tradotta Ò da vederti ossia Devo da vederti oppure piú semplicemente Devo vederti; altrove con l’espressione aggi’ ‘a (=ò da) si rende in napoletano l’idea di un’ azione futura; ad es.: Dimane aggi’ ‘a jí a pavà ‘e ttasse (Domani andrò a pagare le tasse) e ciò perché nel napoletano il verbo dovere manca ed è supplito dalla costruzione con il verbo avere seguito dalla preposizione ‘a (da) e dall’infinito connotante l’azione dovuta: ad es. aggio ‘a purtà ‘sta lettera (devo portare questa lettera), hê ‘a cammenà cchiú chiano! (devi camminare piú lentamente!); la medesima costruzione è usata pure, come ò anticipato in funzione di futuro che benché sia un tempo esistente nelle coniugazioni dei verbi napoletani è pochissimo usato, per cui ad es. la frase dell’italiano: domani andrò dal barbiere è resa in napoletano con dimane aggi’’a jí a d’’o barbiere piuttosto che con dimane jarraggio a d’’o barbiere e talvolta altrove con il presente in funzione di futuro dimane vaco a d’’o barbiere. 'ncopp’ ê locuzione prepositiva articolata = sulle Rammento qui che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. grare s.vo f.le pl.del sg. m.le graro = gradoni,brevi, ma ampi ripiani costruiti o scavati per superare un dislivello; rammento che nel napoletano il s.vo m.le sg. graro→(g)raro indica il gradino cioè un breve e contenuto ripiano atto a far superare un dislivello; l’esistenza di due plurali: grare/’rare ( che però non si usa e ci si serve del solo sg graro= gradino semplice) e grare( di cui non esiste il sg. f.le ed è usato al pl. per indicare un complesso di gradoni) uno maschile ed uno femminile per indicare quasi la medesima cosa si spiega con il fatto che in napoletano un oggetto (o una cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella ; va da sé che nella fattispecie la voce femminile ‘e ggrare (i gradoni) indichi un tipo di scalino piú ampio da quello rappresentato dalla corrispondente voce maschile ‘e grare/‘rare (i gradini) ; etimologicamente la voce graro→(g)raro con i suoi plurali derivano dal lat. gradu(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea D→R 'passo, gradino, grado', dalla stessa radice di gradi 'muovere il passo, camminare'; chiesia s.vo f.le = chiesa, basilica, Luogo di culto la chiesa intesa cioè non come comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane: chiesa cattolica, ortodossa, anglicana, LLUterana, calvinista ma piú semplicemente come l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane, quell’edificio detto casa del Signore accostato di solito da un campanile dal quale squillanti campane chiamano a raccolta i fedeli, quell’edificio intorno al quale, soprattutto nei giorni festivi, gravitano una pletora di poverelli che a mano aperta e tesa son soliti chiedere l’elemosina a fedeli impietositi che si recano ad assistere alle funzioni religiose. . Etimologicamente la parola chiesia/chiesa è dal lat. ecclesia(m)→(ec)clesia(m)→chiesia/chiesa,che è dal gr. ekklísía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'; tipica l’evoluzione del nesso cl in chi (cfr. clausu(m)→chiuso, clavu(m)→chiuovo etc.). schijata = aperta, tesa, allargata part. pass. f.le agg.vato dell’infinito schijare = aprire, tendere, allargare, distendere, allungare; etimologicamente dal lat. explicare; tipica l’evoluzione del nesso pl in chi (cfr.plica(m)→chieja, platea(m)→chiazza etc.). 3.T' HÊ PIGLIATO 'E CCIENT' OVE? Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova? Id est: sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI e di cui ò detto antea sub SÎ ARRIVATO Â MONACA ‘E LIGNAMMO. 4.T’ÀGGI’ ‘A FÀ ‘A CAPA VROGNOLE VROGNOLE E N’ASTECO ARRETE Ê RINE! Ad litteram: Devo farti una testa (piena di molti)bitorzoli ed un solaio dietro le spalle. Id est : Devo picchiarti tanto violentemente da lasciarti sulla testa numerosi e dolorosi piccoli rigonfiamenti o protuberanze e da conciarti le spalle come se ci fossero stati compattati a suon di mazzuolo i lapilli usati un tempo per rendere impermeabili i solai. Per comprendere appieno la portata di queste gravi minacce contenute nella locuzione in esame , occorre sapere che con il s.vo f.le vrognole pl. di vrognola (da un acc.vo lat. (píllulla(m)) ebúrnea(m)=pallina biancastra;da eburnea→(e)burnea e per metatesi brunea con il diminutivo *brunéola donde il lat. volg. *bruniola→brunjola→vrognola con risoluzione di nj→gn come in cumpagno←cumpanio/cumpanjo e ritrazione dell’accento tonico oltreché l’alternanza tipica b/v (cfr. bocca→vocca – botte→votta – basiu(m)→vaso etc.)si intende piccoli rigonfiamenti o protuberanze, bernoccoli,procurati da colpi o percosse, mentre per asteco (dal greco óstrakon = coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con cocci di anfore e/o abbondante lapillo vulcanico ammassati all'uopo e poi violentemente percossi con appositi martelli al fine di grandemente compattarli e renderli impermeabili alle infiltrazioni di acqua piovana.Va da sé che il termine vrognole=bernoccoli è da intendersi in senso reale quale risultato di proditorie percosse dirette alla testa, l’asteco/solaio è da intendersi in senso figurato come risultato di violenti percosse indirizzate sulle spalle o la schiena in genere. 5.T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA. Ad litteram: Te la fai con le uova la trippa Cosí, con ironia e sarcasmo , si usa rivolgersi a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua ingrata necessità di adoperarsi per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato; come se si volesse consigliare chi fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, a renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova. BRAK

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1.T''A FAJE FRITTA CU 'A MENTA Ad litteram: te la fai fritta con la menta Cosí ironicamente si suole dire di tutte le cose ritenute inutili e di cui, conseguenzialmente non si sa cosa farsene.Semanticamente l’espressione si spiega col fatto che la frittura addizionata di menta è riservata a taluni ortaggi ( zucca e zucchine) di per sé senza molto sapore, quasi inutili. 2.T'AGGI' 'A FÀ ABBALLÀ 'NCOPP’Ô CERASIELLO Letteralmente: Devo farti ballare su di una (pianta di) peperoncino. Id est: devo costringerti all’impossibile, e ciò perché la pianta del peperoncino è bassa,di poca o nulla consistenza e flessibile al segno di non consentire che qualcuno vi possa montarvi sopra e ballarci sostenuto dai rami della pianta di montarvici su per potervi ballare. L’espressione antica, ma ancóra in uso à all’incirca la medesima valenza della precedente utilizzata come è sulla bocca di genitrici di figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. a mo’ di iperbolica minaccia repressiva, minaccia consistente nella costrizione a suon di percosse, a fare qualcosa di palesemente impossibile. L’espressione viene usata, sempre a mo’ di iperbolica, ma divertita minaccia pure nei confronti di chiunque, anche adulto, si mostri restio a fare il proprio dovere. T'aggi' 'a cfr. antea fà = fare Comincerò con il precisare che nel napoletano l’infinito dell’italiano fare è fà/ffà infinito che io, contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’), preferisco rendere con la à accentata (fà/ffà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in Luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba: l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico. Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé! Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in Luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà in Luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. abballà =ballare,per estensione semantica dimenarsi, per traslato vacillare ; etimologicamente dal tardo lat. ad +ballare→abballare ; 'ncopp ô = sul/sullo vedi antea sub 14. cerasiello s.vo neutro (pianta e frutto del) peperoncino piccante dalla tipica forma sferica simile a quella di una ciliegia (in nap. cerasa); etimologicamente voce dal tardo lat. cerasia, neutro pl. di cerasium 'ciliegia' con suffisso diminutivo maschile iello. 3.T'AGGI' 'A FÀ CACÀ OPPURE PISCIÀ DINT' A 'N 'AGLIARO Letteramente: Ti devo far defecare oppure mingere nel bricco dell’olio. Id est Ti devo costringere all’impossibile (vessandoti o facendoti violenza). Questa iperbolica icastica espressione desueta, un tempo fu in uso nel linguaggio del popolo basso soprattutto sulla bocca di mamme a mo’ di minaccia per ridurli all’obbedienza verso i proprî figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. figliuoli che per ridurre alla ragione occorreva minacciare di cosí tante e violente percosse tali da levigare ed affinare il fondoschiena ed altre parti del corpo al segno che il figliolo destinatario della minaccia in epigrafe non avesse piú necessità, per le sue funzioni defecatorie,o alternativamente per la minzione di servirsi di unalto e vasto càntaro, ma gli bastasse, iperbolicamente, il bricco dell’olio (agliaro) contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare oppure ovale ampia, collo stretto e bocca appena appena svasata atta a far defLuire l’olio; va da sé che nella realtà, nessuno (per quanto fisicamente minuto o ... levigato dalle percosse) potrebbe usare un bricco dell’olio per espletare le proprie funzioni fisiologiche, ma si sa e non fa meraviglia che l’iperbole la fa da padrona nell’eloquio popolare partenopeo ed i ragazzi minacciati cosí come in epigrafe, prendendo per vere le parole usate, spesso recedevano dal loro comportamento irrequieto. cacà/cacare = defecare dritto per dritto dal lat. cacare pisciare = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare; càntaro = alto vaso cilindrico di comodo, pitale derivato dal lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos; da non confondere con la voce cantàro voce derivata dall’arabo qintar= quintale agliàro s.m. = contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare o ovale ampia, collo stretto e bocca (con coperchietto incernierato) appena appena svasata atta a far defluire l’olio; ne esiste anche un tipo con coperchio ad incastro e cannello erogatore; tale tipo però non è d’uso domestico, ma viene usato per solito dai pizzaiuoli che devono stare attenti a non eccedere nel consumo d’olio ed il cannello a beccuccio si presta meglio della bocca svasata a contenere l’erogazione dell’olio; l’etimo della voce a margine è dal lat. oleariu(m)→*uogliaro→ogliaro→agliaro. 4.TAGLIÀ 'A RECCHIA A MMARCO Ad litteram: tagliare l'orecchio a Marco. Si dice che sia adatto a tagliare l'orecchio a Marco quel coltello che avendo perduto il filo del taglio non è piú adatto alla bisogna; per estensione la locuzione è usata ironicamente in riferimento ad ogni oggetto che abbia perduto la sua capacità iniziale di esatta, determinata destinazione. Il Marco dell'epigrafe in realtà è corruzione del nome Malco servo del sommo sacerdote cui san Pietro, nell'orto degli ulivi, intervenendo in difesa di Cristo, recise un orecchio, che però il Signore immediatamente risanò; tradizione vuole che da quel momento il coltello usato da san Pietro non fu piú in grado di tagliare alcunché. 5.TAGLIÀ 'E PANNE 'NCUOLLO Ad litteram: recidere i panni addosso id est: sparlare di qualcuno, e farlo protervamente e lungamente quasi metaforicamente mettendolo a nudo con il taglio degli abiti da colui indossati BRAK

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1.'STU VENTARIELLO CA A TTE T'ARRECREA, A MME ME VA 'NCULO! Letteralmente: quel venticello che ti soddisfa, frega me. Non sempre da un'identica situazione scaturisce un medesimo effetto per chiunque. Nella fattispecie, un soffio di vento che magari è piacevole per uno, può essere deleterio per un altro, che per esempio è cagionevole di salute. 2.STUORTO O MUORTO Ad litteram: storto o morto Modo di dire riferito ad una azione condotta in porto alla bell'e meglio o alla meno peggio sia pure con impegno e sacrificio. 3.SULO ‘A MORTE È CCERTA, PO TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO. Solo l’evenienza della morte è un fatto certo, poi tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. Ciò è ancóra vero anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri né dell’ineluttabilità della morte, né del fatto che l’uomo possa restare incinto... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, oltre la morte solo una cosa impossibile. 4.SUNÀ 'O PIANEFFORTE Ad litteram: suonare il pianoforte ma il riferimento del modo di dire non riguarda lo strumento musicale; attiene invece alla leggerezza di mano dei borseggiatori che le usano con lieve maestria simile a quella dei suonatori di piano. 5.SUNNARSE E PPISCIÀ DINT’Ô LIETTO = Letteralmente; sognare e mingere nel letto; id est: dar credito ai sogni, spaventarsene al segno di mingere tra le coltri, reputar vere le ombre, prender per sostanza le apparenze, scambiar sogni e realtà. sunnarse = sognarsi trattasi del verbo sunnà =sognare addizionato come frequentente accade della particella pronominale se = si in funzione riflessiva, intensiva e/o espressiva] 1 vedere, immaginare in sogno: sunnà(sognare),sunnarse ‘nu cane a ddoje cape( sognarsi un cane a due teste); sognare, sunnarse ‘e vulà(sognarsi di volare); me songo sunnato ca ire partuto(ò sognato che eri partito); 2 raffigurare nella fantasia come reale; desiderare con viva immaginazione; vagheggiare: sunnarse ‘na bbella casa(sognarsi una bella casa);sunnarse ‘e addivintà ricco (sognarsi di diventare ricco) | con riferimento al carattere irreale dei sogni: nun m’ ‘’o ssonno nemmeno!( non me lo sogno neanche!), non ci penso neanche, non lo farei mai, oppure non posso nemmeno sperarlo; nun mme ll’aggiu sunnato!(non me lo sono mica sognato), è vero, è accaduto realmente; ‘a villa ô mare s’ ‘a sonna, s’ ‘a po’ sunnà!(la villa al mare se la sogna, se la può sognare!), non l'avrà mai; nun sunnarte d’ ‘o ffà(non sognarti di farlo), non farlo assolutamente, non pensarci neanche | con riferimento al carattere divinatorio attribuito ai sogni: nun putevo sunnarmelo(non potevo sognarmelo), non potevo saperlo; chi s’ ‘o ffósse sunnato?(chi se lo sarebbe sognato?) chi poteva prevederlo? ||| v. intr. [ pure in napoletano come accade per l’italiano il sognare(quale intr.) vuole l’aus. avere, mentre se costruito con la particella pron.,vuole l’aus. essere, ] fare sogni: sonna tutte ‘e nnotte(sogna tutte le notti);aggiu sunnato ‘e mamma mia (ò sognato di mia madre); me so’ sunnato d’ ‘e tiempe passate(mi sono sognato dei tempi passati) | me pare ‘e sunna(mi sembra di sognare), si dice di fronte a cosa straordinaria, imprevista o meravigliosa 'sunnà a uocchie apierte ( sognare a occhi aperti), fantasticare. Voce dal lat. somniare→sonniare→sunnà, deriv. di somnium 'sogno'. dint’ô corrisponde all’italiano nel/nello. Al proposito rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle; dinto è dal lat. dí intro→d(í)int(r)o→dinto 'da dentro'. BRAK

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1.STANNO CAZZA E CCUCCHIARA. Stanno (uniti come) secchio della calcina e cazzuola/mestola; cioè: vanno di pari passo, stanno sempre insieme. Détto di tutti coloro che sceltisi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo, andando sempre di pari passo, stando sempre insieme come càpita appunto per il secchio della calcina e la cazzuola che vengono usate dal muratore di concerto durante il lavoro giornaliero ed anche quando questo sia terminato il muratore, nettati i ferri del mestiere è solito conservarli insieme ponendo la cazzuola nel secchio della calcina per modo che l’indomani possa facilmente ritrovarli ed usarli alla ripresa del lavoro. La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. ky/athos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'. Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande etc. con le sole eccezioni di caccavella piú piccola – caccavo piú grande e di tiana piú piccola – tiano piú grande );ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè), al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola). Qualcuno, mi ripeto, meno esperto della tradizione e/o della parlata napoletane riferisce erroneamente il modo di dire con l’espressione: Pàrono oppure stanno tazza e cucchiaro: sembrano oppure stanno (come) tazza e cucchiaio, espressione inesatta come ò spiegato ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani, consci di quel che dicono comporta giustamente la presenza della cucchiara arnese tipico dei muratori; il medesimo concetto di continua salda unione si esprime con le locuzioni: 2.STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLL’Ô VOJO! Letteralmente: buonanotte!la vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare. 3.STORTA VA, DERITTA VÈNE Ad litteram: va storto, ma viene dritto id est: parte negativamente, ma si conclude positivamente; locuzione emblematica di una filosofia ottimistica con cui si afferma la certezza, o almeno la speranza, che le cose principiate in modo errato o che sembrano procedere distortamente, si concluderanno in maniera esatta e conferente. 4.STREGNE CCHIÚ ‘A CAMMISA CA ‘O JEPPONE Ad litteram: Stringe piú la camicia che la giubba. Espressione che icasticamente vale: Procura piú danno un parente prossimo che un vicino, un amico, un sodale fortuito. L’espressione parte dalla considerazione che la camicia è l’indumento che, indossandosi a pelle, è quello che piú costringe il corpo e può risultare fastidioso, al contrario d’altri indumenti,come la giubba, che indossati sulla camicia non devono essere necessariamente costrittivi e fastidiosi;alla camicia son paragonati i parenti prossimi che, in quanto tali stanno quasi a contatto a pelle viva con una persona e possono arrecarle fastidio o danno, quelli che un vicino, un amico, un sodale fortuito essendo meno congiunti direttamente ed avendo, con ogni probabilità, minori rapporti e/o occasioni di coesistenza, è meno probabile che le possano nuocere o la possano danneggiare al pari di una giubba che è meno a contatto con la pelle dell’individuo; va da sé che nel novero dei parenti stretti siano da considerarsi quegli amici e/o vicini che si comportino da parenti stretti, essendo continuatamene a contatto di una persona. cammisa s.vo f.le camicia indumento maschile e/o femminile di tessuto generalmente leggero, abbottonato sul davanti, con colletto e maniche lunghe o corte, che ricopre la parte superiore del corpo indossato il piú delle volte a pelle nuda. voce dal lat. tardo camisia(m)→cammisia(m)→ cammisa(m) con raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale (M); Jeppone s.vo m.le giubba,giaccone, soprabito; voce dall’arabo ğubba→juppa→jeppa addizionato del suff. accrescitivo one. 5.STRUJERE 'E PPRETE Ad litteram: consumare le pietre Riferito al comportamento di chi tenga diuturnamente a piedi sempre il medesimo percorso e ne consumi quasi le pietre; per traslato e sarcasticamente riferito a chi perda accidiosamente il suo tempo, inutilmente bighellonando per istrada. Tale comportamento viene altresí indicato con la locuzione: JÍ 'NCASANNO 'E VASULE (andar pestando le pietre di copertura della strada). BRAK

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1.SPARTERSE 'A CAMMISA 'E CRISTO. Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore. 2.STÀ 'NCAPPELLA. Letteralmente: stare in cappella Id est: essere male in arnese, stare mal combinati, anzi stare alla fine della vita , al punto di aver necessità degli ultimi sacramenti. La locuzione fa riferimento ai condannati al patibolo della fine del 1600, che, a Napoli, prima dell'esecuzione venivano condotti in una cappella della Chiesa del Carmine Maggiore, adiacente la piazza Mercato, dove era innalzato il patibolo e nella cappella ricevevano l'estremo conforto religioso. 3.STÀ SEMPE 'NTRIRICE. Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo, e poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che viene fuori l'espressione con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti... 4.STAMMO A LL'EVERA. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi. 5.STAMMO ASSECCANNO 'O MARE CU 'NA CUCCIULELLA... Stiamo prosciugando il mare con una conchiglia - Cioè: ci siamo imbarcati in un'impresa impossibile...e che non approderà a nulla BRAK

lunedì 27 febbraio 2017

VARIE 17/255

1.SIGNORE 'E UNU CANNELOTTO. Letteralmente: signore da un solo candelotto. Cosí a Napoli viene appellato chi pretende di avere nobili ascendenti, ed invece risulta essere di nessuna nobiltà. La locuzione risale al tempo in cui l'illuminazione dei palchi del teatro san Carlo, massimo teatro lirico della città partenopea, era assicurata da alcuni candelabri che venivano noleggiati dalla direzione del teatro agli spettatori che ne facessero richiesta. Il prezzo del noleggio variava con il numero dei candelabri richiesti e questo dalle possibilità economiche dello spettatore. Va da sè che minore era il numero di candele, minore era la possibilità economica dimostrata e conseguenzialmente minore il grado di nobiltà; per cui un signore da un candelotto era da ritenersi proprio all'infimo gradino della scala sociale. 2.SIGNORE MIO SCANZA A MME E A CCHI COGLIE. Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. È la locuzione invocazione che a mo’ di scongiuro viene rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da accertata perizia. Scanza voce verbale qui 2° pers.sg. dell’imperativo,altrove anche 3° pers sg.ind. pres. dell’infinito scanzà/are= scansare, evitare con etimo da un cansare→canzare con protesi di una s intensiva; cansare→canzare collaterale di campsare= doppiare,piegare, girare intorno è voce marinaresca. 3.SO' GGHIUTE 'E PRIEVETE 'NCOPP'Ô CAMPO Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile: temporibus illis i preti erano costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco determinando un procedere caotico. L’icastica espressione è usata a commento di situazioni in cui regnino disordine, baraonda, scompiglio, soqquadro. 4.SONA CA PIGLIE QUAGLIE Ad litteram: suona ché prenderai quaglie. Locuzione ironica da intendersi in senso antifrastico, usata per mettere a tacere gli importuni saccenti ai quali si vuol dire: state perdendo il vostro tempo e state inutilmente dando fiato alla bocca: non riuscirete a nulla di ciò che pensate, né con le vostre chiacchiere riuscirete ad irretire qualcuno, che (come le quaglie che non si lasciano attirare da alcun richiamo) resisterà ad ogni vostra insistenza e/o miraggio ancorché petulanti. 5.SPARÀ A VVRENNA. Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava. Vrenna s.f. = crusca, residuo della macinazione dei cereali costituito dagli involucri dei semi; è usato soprattutto come alimento per il bestiame | (pop.) lentiggini. La voce napoletana vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska. BRAK

VARIE 17/254

1.SI PISCE CHIARO, FFA’ ‘E FFICHE Ô MIEDECO Letteralmente: Se mingi chiaro fa’pure gli scongiuri alla vista d’un medico o scherniscilo (perché non ne avrai bisogno); fa’ ‘e ffiche! =fai le fiche!;fà ‘e ffiche= far le fiche è un gesto internazionale di scongiuro e/o di scherno, dileggio che à una tradizione millenaria ed appartiene ad un po’ tutto il mondo;tale gesto consiste nell’introdurre il dito pollice della mano destra serrata a pugno,tra l' indice ed il medio e tenerlo ben dritto accompagnando il gesto con l’agitar la mano con un movimento ripetuto dal basso in alto nell’intento di mimare il coito in atto; rammento in proposito che trattasi di gesto che è diffusissimo ed addirittura nei paesi dell’America meridionale (Brasile in testa) si è soliti produrre delle minuscole statuine apotropaiche in legno di bosso riproducenti il gesto che è stato ovunque abbondantemente studiato e commentato;qui mi limito a rammentare che un tempo in origine il gesto non ebbe significato di scherno o scaramantico, ma fu un palese invito all’atto sessuale rivolto da un uomo alla sua donna o ad un’occasionale conoscenza; va da sé che (linguisticamente parlando) ‘e ffiche è il pl. di ‘a fica che in napoletano è sí il s.vo f.le usato per indicare il frutto del fico, ma è altresí il s.vo f.le volg. che è uno dei numerosi sinonimi(cfr. alibi) sia del napoletano che dell’italiano dell’insieme degli organi genitali esterni femminili: 1 vulva;semanticamente la fica= frutto del fico frutto rosso e carnoso è preso a riferimento per indicar la vulva , cosí come l’altrove usato pummarola = pomodoro, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché sia la vulva che il pomidoro o il frutto del fico ànno il loro interno rosso vivo; | 2 (estens.) donna bella e desiderabile. Etimologicamente è voce dal lat. tardo fīca per fīcus «fico, frutto del fico»; il sign. fig. era già nel gr. σῦκον «fico». 2.SÎ PPROPETO STRITTO ‘E PIETTO Sei proprio di petto stretto Détto sarcasticamente di chi sia tanto avaro, taccagno, spilorcio da lesinare persino sull’ampiezza dei vestiti ed indossarne di striminziti piccoli, miseri, cuciti addosso, tali da fare apparire la figura sottile, mingherlina, snella, minuta, delicata, debole come di colui che avesse un petto privo di forme, rinsecchito e smagrito ; va da sé che l’espressione è estensivamente applicabile a chi la propria avarizia e taccagneria la faccia pesare anche in senso morale lesinando non solo gli aiuti materiali (danaro, provvidenze), ma anche quelli spirituali e/o morali(consigli, parole buone, suggerimenti, pareri, avvertimenti, esortazioni, incitamenti. 3.SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... – ACCUSSÍ À DDA JÍ! “ Signor prete, il cappello va storto” “Cosí deve andare!”. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio. Faccio notare che ò riportato l’espressione nella sua morfologia esatta ed originaria ,mentre spesso altri riportano un’errata forma che suona: ZI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... – ACCUSSÍ À DDA JÍ!Nell’errata morfologia è impropriamente usato il termine Zi’ (apocope di zio che è dal basso lat. thíus modellato sul greco theîos)corruzione del parlato dell’originale Si’ che è l’esatta apocope di si(gnore) derivato dal francese seigneur a sua volta marcato sul lat. seniore(m) comparativo di senex. Solo in prosieguo di tempo per corruzione popolare l’originaria Si' pre' 'o cappiello va stuorto... fu letta da taluno Zi' pre' 'o cappiello va stuorto...etc. Ò preferito però riportare la corretta ed originaria forma che semanticamente è la piú corretta, atteso che ad un sacerdote si dà del “signore” e non dello “zio”! 4.SÍ, SÍ QUANNO CURRE E 'MPIZZE... Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi. 5.SICCO, PELIENTO E OSSA Ad litteram: magro, pallido e ossuto Cosí viene divertentemente apostrofato chi sia estremamente magro,pallido: latinamente pallente(m)→ (peliento) e cosí poco in carne da potergli contar le ossa. BRAK

VARIE 17253

1.SI 'O CIUCCIO NUN VO' VEVERE, AJE VOGLIA D''O SISCÀ... Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice: ’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua… 2.SI 'O VALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA. Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.Va da sé che nella fattispecie dell’espressione in esame non vi sia, né possa esservi alcun nesso di relazione tra il fatto che se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto ; e ciò perché chi sia sia o fosse fosse quel non meglio identificato Cocò, la sua vita non può dipedere dalle funzioni fisiologiche di un gallo a meno che quel Cocò non fosse il nome del gallo medesimo affetto da una pericolosa stipsi. Ma in queste icastiche espressioni non v’è mai una razionalità tanto stringata ! 3.SI 'O SIGNORE ME PRUVVERE, M'AGGI' 'A FÀ 'NU QUACCHERO LUONGO NFI’ Ê PIERE. Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero nel senso di cappotto è modellata sul termine quaccheri, rammentando i lunghi costumi indossati da costoro. 4.SI 'O SIGNORE NUN PERDONA A 77, 78 E 79, LLA 'NCOPPA NCE APPENNE 'E PUMMAROLE. Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) ed ai ladri(79), lassú (id est: in Paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è popolato esclusivamente da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in Paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverà con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori. 5.SI PISCE CHIARO FUTTETENNE oppure FRUCULEATENNE D’ ‘O MIEDECO Se mingi chiaro impípitane del medico (perché mai ne avrai bisogno); futtetenne e fruculeatenne Queste in esame sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2ª pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m.le e f.le , sg. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pronomo atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne. BRAK

VARIE 17/252

1.SI COMME TIENE 'A VOCCA, TENISSE 'O CULO, FACÍSSE CIENTO PERETE E NNUN TE N'ADDUNASSE. Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati. 2.SI 'E CCORNE FOSSENO PURTUALLE, 'A CAPA TOJA FÓSSE PALERMO. Ad litteram: Se le corna fossero arance, la tua testa(che ne è molto fornita) sarebbe la città di Palermo.Icastica e colorita offesa con la quale a Napoli si suole rammentare a taluno i continui tradimenti operati dalla di Lui consorte, al segno che qualora le corna fossero arance, la testa del malcapitato cui è diretta l'offesa, sarebbe la città di Palermo, zona in cui si producono estesamente saporitissime e grosse arance. 3.SI LL'AUCIELLE CANUSCESSENO 'O GGRANO, NUN NE LASSASSENO MANCO N' ACENO! Se gli uccelli conoscessero il grano, non ne lascerebbero un chicco! - Cioè: se gli uomini fossero a conoscenza di tutti i benefici che la vita offre, ne approfitterebbero sempre. 4.SI ME MECCO A FFÀ CAPPIELLE, NASCÉNO CRIATURE SENZA CAPA. Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica. 5.SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CCHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna. BRAK

VARIE 17/251

1.SI 'A FATICA FÓSSE BBONA, 'A FACESSENO 'E PRIEVETE. Se il lavoro fosse una cosa buona lo farebbero i preti(che per solito non fanno niente. Nella considerazione popolare il ministero sacerdotale è ritenuto cosa che non implica lavoro. 2.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CCHI STA 'NNANZE. Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi. 3.SI 'A RENA È RROSSA, NUN CE METTERE NASSE. Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati. 4.SI 'A TAVERNARA È BBELLA E BBONA, 'O CUNTO È SSEMPE CARO. Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva... 5SÎ ARRIVATO Â MONACA ‘E LIGNAMMO. Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia, prossimo ad esser ricoverato all’Ospedale Incurabili Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di follía o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Détta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite adiacente l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali e dove prestava la sua opera un famosissimo medico dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo, détto Masto Giorgio - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti; détto medico usava cure coercitive come quella che imponeva al folle l’assunzione di ben cento uova crude di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, far girare la noria di un pozzo. BRAK

domenica 26 febbraio 2017

NAPOLI - ATALANTA (25/02/17) 0 A 2 ‘A VEDETTE ACCUSSÍ

NAPOLI - ATALANTA (25/02/17) 0 A 2 ‘A VEDETTE ACCUSSÍ Tengo ‘o bbeleno nfi’ a ‘mponte ô musso, guagliú! Niente, nun me faccio capace ca cu ‘sta cacchio ‘e scuatra asseneja (satellite) d’’a vecchia zoccola nce à cacato ‘o cane niro; ce vattette a ll’addabba (andata) e ‘o ffacette pure ajere, ‘mmerze ê sseje ô san Paolo quanno ‘o Napule se alantiarraje (suicidò) jucanno ‘na mubbara (partita) senza capo nè ccora, assaje cumbattuta sí, ma senza zuco nè ccunnimma cu n’Atalanta, ca nun se facette ‘mpressiunà dâ pupulazziona d’’o san Paolo [quase quarantamila mila masciadde (spettatori)] e gghiette cu ssette parme ‘e cacchie ‘ncopp’ô tturrento pesante addó ca ‘e nuoste cu ‘o tulattio (trio) liggiero miso ‘ncampo dô pprincipio ‘a Sarri jetteno ‘int’ê chiavette i ‘a fora ‘e ‘nu paro d’afachie (traverse) sfurtunate schiggiate dê nuoste ‘int’ê primme minute, nun ne sapetteno caccià e nnun ne ricavajeno niente lassanno campo libbero ô contrattacco (contropiede) ‘e ll’Atalanta ca ggià ô 28’ ‘int’ô bburdello ‘e uno d’’e tante tire ‘e squina (corner) ce ‘o mettette a ppitoffio cu cCaldara e nunn' avastaje tutt’’o riesto d’’o sibbacco (match) p’adderezzà ‘a varca, anze arrivate ô 70’ Caldara truvaje ‘a pareglia (raddoppio) e cce dètte ‘o dispiacere ca nchiudette ‘a mubbara (partita) e ccu ‘e tre ppunte perze ajere putimmo dicere ca oramaje dô campiunato nun tenimmo nient’ato ‘a sperà e nce aspetta sulo ‘e sputà lacreme e ssanco pe ttentà ‘e difennere ‘o terzo posto, ma ‘a veco difficile assaje! Passammo ê ppaggelle ch’è mmeglio! REINA 5,5 Miezu zifo (voto) mancante pecché si fove sicuro ‘ncopp’ô tiro ‘e Petagna [lassato libbero ‘a Maksimoviccio] e nun ce putette fà niente ‘ncopp’â primma addaffa (rete) ‘e Caldara,êsse avut’’a fà coccosa ‘e cchiú ‘ncopp’â siconna e nnunn' ‘o ffacette, mustrannose, purtroppo, poco tafullo (reattivo). HYSAJ 4 E ‘o sto’ trattanno! ‘A peggia atalossa (prestazione) d’’a meza cucchiara albanese ca pe ttutto ‘o primmo ajone (tempo) vedette ‘e surice vierde cu gGomezzo e soprattutto cu Spinazzola ca facette chello ca vulette; nun migliuraje manco a ll’arrancua (ripresa) e sse facette zumpà, comme a ‘nu fesso dô cucchiaro ‘e Spinazzola ‘nnaccasione d’’a pareglia (raddoppio) ‘e Caldara. Sarri, ca nun ll’êsse avuto proprio fà jucà ‘o cagnaje troppo tarde! [Dô 79' MAGGIO sv] MAKSIMOVIC 4 Mumallo (disattento), ‘mpriciso e ddebbule, Petagna s’’o magnaje e mmenu male pe nnuje ca Reina ne fermaje ‘o tiro doppo d’’a strunzata ‘e ll’ècchese turinese ca lle lassaje campo libbero.E ddicere ca a cchisto dela e socie lle songo state appriesso pe dduje, tre anne e ppo ll’ànnu pavato salato comme si fósse stato ‘nu campione e nno ‘na pastacrisciuta scarza ‘e sale! ALBIOL 5.5: Miezu zifo (voto) mancante pecché si nun cummettette fessarie grosse, pur’isso restaje a gguardà senza fà niente quanno Caldara facette 'a pareglia. GHOULAM 5: ‘E bbuono ca mettette ‘mmezo quacche ppallone ‘nteressante comme a cchillo ca Peppe ‘a ‘nguente nun riuscette a mmettere dinto, ma tenette ‘ncopp’â cuscienza ‘a primma addaffa (rete) ‘e Caldara quanno restaje a gguardà comme ‘o pastore d’’a meraviglia ‘a cabbesera (colpo di testa) d’’o madaffio (difensore) atalantese, senza mnanco ustacularlo. E cche saciccio! ZIELINSKI 5.5: Miezu zifo (voto) mancante pecché allimmeno ce pruvaje , soprattutto cu ‘nu tiro ‘a fora e ffove uno ‘e ll’uurdeme a arrennerse, ma nun facette tutto chello ca me fósse aspettato. Peccato! DIAWARA 5:. Nun urtizzaje (verticalizzò) maje, s’accuntentaje ‘e cuntènere, pigliato ‘mmiezo e ffenette affannanno doppo d’avé curruto a vvacante. HAMSIK 4,5 Nun fove isso! ‘O capitano, appaurato, se facette súbbeto piglià ‘mmiezo ‘nfra Kessié e Kurticcio e nnun riuscette nè a ffarese vedé sotto porta, nè a mmentà coccosa p’’e suoje. Forze cu ‘nu campo accussí e ccu cchilli accunte fósse stato meglio nun farelo jucà e mmetere ‘ncampo a rRog(go) ca tene cegna (grinta), forza e ssanco ‘int’ê vvene e nun se fósse miso paura d’’e profuche ‘e chella faccia ‘e cestunia ‘e gasperini! Però chi nce ‘o ddice a sSarri? [Dô 59' MILIK 5,5 Trasette e ccu ‘o fisico suojo se mettette a ddisposizzione d’’e suoje ‘mpignanno ‘e centrale atalantise, ma Sarri nunn’avvisaje ‘e cumpagne ca se ne scurdajeno o nun se n’addunajeno e nnun lle detteno manco ‘nu pallone ‘a jucà. E cche ccacchio!]. CALLEJON (Peppe ‘a ‘nguenta) 4 Nun capette ‘e taglie nè ‘e Lorenzigno,nè ‘e Ciruzzo, mantenennose cumpletamente fora d’’o sibbacco (match). Nun turnaje maje arreto ‘ncuollo a Spinazzola, ca dô lato suojo steva dànno tanti prubbleme a cchillu puveriello d' Hysaj. ‘E cchiú se magnaje n’addaffa retissante (rete clamorosa), ch’ êsse pututo arapí n’ata vota ‘a mubbara. MERTENS (Ciruzzo) 5,5 Uno d’’e poche a ttentà ‘a jucata. Periculuso doje vote durante ô primmo ajone (tempo), primma cu ‘nu tiro ‘e dritto, piazzato e ppo cu ‘nu tiro ‘e timmurria (punizione). A ll’arrancua (nella ripresa) però sparette pur’isso! INSIGNE (Lorenzigno)5 Schiggiaje ll’afachia (traversa) ô pprincipio; ma fove ll’unicu tallisso (guizzo) d’’a mubbara (partita) soja. Troppo poco! [Dô 79' PAVOLETTI 4 Inutile, dètte cchiú ‘mpiccio ca ato!] all. SARRI 4,5 Sbagliaje cumpletamente furmazziona mettenno ‘ncampo a Hysaj,’mmece ‘e Maggio, a mMaksimovic,’mmece d’’o Vampiro(Chiriches(se)[ca pure cu una coscia è mmeglio d’’a pastacrisciuta i ‘o porta appiso a ll’urdemu buttone d’’a vrachetta...] a mMarechiaro(Hamsik), ‘mmece ‘e Rog(go); facette a mmeno dô pprincipio d’’e centimetri e dd’’o piso ‘e Milicco ca fósse servuto certamente ‘e cchiú ‘int’a ‘na mubbara cundizziunata dô maletiempo e ccu ‘o tturreno pesante e ca, se sapeva nun avesse favurito ‘o juoco tassuso (veloce) d’’e nuoste ca ajere nun se vedette.Aggio paura ca Sarri à rotto ‘e ggiarretelle cu ddela e sta facenno ‘e tutto p’essere licenziato senza perdere ‘e pesielle! Arb. CELI 4 Grossi ffetenzie nun ce ne facette, ma ‘o frate scemo ‘e Schettino cunzentette a ll’atalantise ‘e perdere tiempo i ausaje dduje pise e ddoje misure, nutizzianno súbbeto ‘e nuoste ô primmo carí (fallo) comme facette cu Hysaj,ca rummanette cundizziunato e nchiudette ll’uocchie ‘ncopp’a cchille ‘e ll’atalantise e soprattutto ‘ncopp’a cchille ‘e Spinazzola ca durante ‘e primme quatte minute facette tre ttrasute â disgrazziata ‘ncuollo a pPeppe ‘a ‘nguenta e êsse avuto essere jettato fora, mmece nun fove manco nutizziato i aspettaje ‘o 66’ pe gghiettà fora a cKessié ca ggià ‘a paricchio steva rumpenno ‘o pasticciotto a mMarekiaro. E ffermammoce cca. Ve saluto e si dDi’ vo’ ve donco appuntamento a mmiercurí ca vene doppo d’ ‘a nacchèlla (trasferta) a tTurino contro â vecchia zoccola p’’a mubbara (partita) ‘e coppa italglia. E nnun faccio prunuostice. R.Bracale Brak

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1.SFILÀ 'A CURONA Ad litteram: sfilare la corona Id est: dar la stura ad una lunga sequela di ingurie e contumelie dirette a chi se le meriti, ingiurie reiteratamente ripetitive quasi alla stregua di grani di una corona che però per la verità, viene usata per reiterare preghiere e non contumelie. La reiterazione delle ingiurie è tanto lunga e violenta da determinare lo sfilarsi dei grani dell’ipotetica corona usata per contare le contumelie. 2.SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E SAN GIUSEPPE Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante. La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi (1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque, in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare e l’infastidire. Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON. 3.SFRUCULIÀ 'O PASTICCIOTTO Ad litteram: sbreccare il dolcino. Id est: annoiare, infastire, molestare qualcuno; locuzione di valenza simile alla precedente, usata anch'essa in tono imperativo preceduta da un canonico NON. Qui, in Luogo della mazzarella, l'oggetto fatto segno di figurate sbreccature è un ipotetico pasticcino, chiaramente usato eufemisticamente al posto di un intuibilissimo sito anatomico maschile. 4.SGUMMÀ/SCUMMÀ 'E SANGO Ad litteram: far perdere la gomma al sangue. Id est: percuotere tanto violentemente qualcuno e segnatamente colpirlo sul volto fino a fargli copiosamente emettere dalle fosse nasali fiotti di sangue divenuto a seguito delle percosse cosí fluido da scorrere liberamente quasi avesse perduto la gomma o l’ipotetico collante che ne determinano la naturale vischiosità perduta a sèguito delle percosse. 5.SÎ ‘NA BBONA SCORZA ‘E CASO MULLESO Sei una grossa scorza di formaggio molle Icastica divertita espressione dalla doppia valenza: a) la si usa in senso antifrastico ed ironico in riferimento a chi sia tanto taccagno ed avaro da non lasciare scalfire neppure la buccia delle proprie sostanze; ò parlato di senso ironico ed antifrastico poi che si sa che i formaggi molli ànno tutti una scorza abbastanza tenera tale da potersi scalfire persino con un’unghia, laddove le sostanze dell’avaro ànno una scorza (protezione) ben piú spessa e dura che non quella tenera d’un formaggio molle. b) usata in senso piú diretto e semanticamente esatto in riferimento a chi sia cosí ammantato di falsità e doppiezza, slealtà, ambiguità che però inutilmente riesce a mascherare atteso che la sua scorza figurata è cosí di poca consistenza da lasciar scorgere facilmente quale sia il suo vero sostrato di individuo finto, ipocrita, inattendibile, infido; delle due valenze, quella che trovo piú confacente alla semantica dell’espressione, è chiaramente quella sub b). BRAK

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1.SENTIRSE 'E PRÓRERE 'E MMANE Ad litteram: Avvertire un prurito alle mani Cosí afferma chi sia in procinto di usare le mani per percuotere qualcuno.E cosí solevano dire, temporibus illis, i genitori quando erano stati inutilmente esperiti tutti i tentativi di convincere i propri piccoli figliuoli a desistere dal far confusione, o dalle loro reiterate marachelle .per avvertire i ragazzi che era prossimo il momento in cui essi genitori sarebbero passati a vie di fatto e avrebbero fatto ricorso alle percosse. 2.SENTIRSE 'E SCENNERE QUACCOSA Ad litteram: avvertire che qualcosa stia per accadere Id est: avere la sensazione che stia per succedere qualcosa, positiva o negativa che sia ed accada quasi calando dall'alto, in modo inatteso ed imprevedibile. Allorché il qualcosa sia negativo la locuzione diventa: Sentirse 'e scennere quaccosa pe dereto ê rine (avvertire che qualcosa stia per accadere dietro le spalle). 3.SENTIRSE 'E TREMMÀ 'O STRUNZO 'NCULO Ad litteram: avvertire di esser prossimi ad evacuare Cosí, in modo sorridente ma becero,si dice che questa sia la situazione di chi lungamente minacciato di violenze e percosse sia assalito da spavento cosí grande da dover precipitarsi a cavalcare la tazza del cesso. 4.SENZA ‘E FESSE NUN CAMPANO 'E DERITTE. Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono i furbi; id est: in tanto i furbi prosperano in quanto vi sono gli sciocchi che consentano loro di prosperare. 5.SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE. Senza denaro non si celebrano messe cantate. Cioé: tutto à il suo prezzo. BRAK

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1.SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti ed i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata a mo’ d’avvertimento quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative. 2.SE SO' STUTATE 'E LLAMPIUNCELLE. Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.Da notare che la parola lampiuncelle è il plurale della voce femminile lampiuncella derivata dal fr. lampe, che è dal lat. lampada; e come tale se preceduta dall’articolo ‘e (le) va correttamente scritta con la geminazione della elle iniziale ‘e llampiuncelle esiste poi una voce simile maschile lampiunciello che al plurale fa lampiuncielle ma che preceduto dall’art. ‘e (i) non comporta geminazione della elle iniziale; pertanto in napoletano ‘e llampiuncelle (voce femminile) sono le luminarie,oggi elettriche ed anticamente a gas e/o petrolio, mentre ‘e lampiuncielle (voce maschile) sono i lampioncini di carta colorata 3.SE SO’ APPARATE ‘E VEPPETE E NN’À AVUTA UNA PE BBEVERE E UNA PE SCIACQUÀ! Ad litteram: Si è provveduto a render pari le bevute e ne à avuto una per bere ed una per sciacquare! Id est: si è impartita una solenne lezione, non lasciando le cose a mezzo, ma redarguendo a fondo ed anche violentemente chi lo meritasse; rammento che nel gergo malavitoso dà ‘na veppeta (dare una bevuta) sta per battere, percuotere, colpire, malmenare, pestare, lisciare con riferimento semantico al cosiddetto giuoco del tuocco/padrone e ssotto o altrove passatella incentrato su bevute collettive di vino che spesso sfociavano in risse con percosse ed accoltellamenti tra i giocatori; la successiva specificazione: una per bere ed una per sciacquare sempre con riferimento a successive percosse fa riferimento ad un’ipotetica situazione in cui sia in atto una deleteria gara di bevute reali tra due persone di cui uno si continua a satollarsi di vino magari accontendandosi di una sciacquatura ossia di vino addizionato d’acqua, o anche di vino puro usato però a mo’ di risciacquo della bocca da una precedente bevuta, e l’altro lo faccia ancóra di piú bevendo senza ritegno come nell’antico giuoco del padrone e sotto (gioco derivato da quello détto tuocco) che si svolgeva nelle bettole tra due giocatori di cui uno – il padrone – poteva imporre o negare all’altro – il sotto – innumerevoli bevute di vino con l’aggravio di dover in ogni caso pagare il vino bevuto. 4.SEDOGNERE L'ASSO OPPURE 'A FALANCA Ad litteram: ungere l'asse oppure la trave. Inveterata necessità che nel corso dei secoli à assunto le piú svariate connotazioni e modi di realizzarsi, ma restando sempre ineludibile nella sua reale funzione di permettere un adeguato movimento degli elementi ruotanti (asse) o assicurare la scorrevolezza della trave(falanca) su cui far scivolar le barche, e per traslato, consentire che una pratica non si intoppi ed anzi proceda speditamente verso la sua realizzazione. Falanca s.f. = trave di supporto per lo scorrimento dei natanti; dal lat. phalanga(m)→phalanca(m)= palo. 5.SEH, SEH QUANNO CURRE E 'MPIZZE!.. Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non potrà avvenire, nè avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi. BRAK

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1.SE NE PARLA A VVINO NUOVO Ad litteram: se ne parla al tempo del vino nuovo Modo di dire che sebbene indichi un preciso momento - quello della nuova vinificazione - non corrisponde ad un tempo certo, ma è usato per significare la volontà di voler rimandare sine die un impegno a cui non si à molto desiderio di applicarsi. 2.SE PAVA NIENTE? E SEDÚGNEME DA CAPA A 'O PÈRE! Letteralmente: Si paga niente? Ed ungimi da capo al piede. Cosí si dice di chi voglia ottenere il massimo da qualsivoglia operazione che sia gratuita ed eccede a quel fine nelle sue richieste come quel cresimando che, saputo che l'unzione sacramentale era gratuita, apostrofò il vescovo con le parole in epigrafe chiedendo di essere unto completamente. 3.SE PIGLIANO CCHIÚ MMOSCHE CU 'NA GOCCIA 'E MÈLE, CA CU 'NA VOTTA 'ACÍTO. Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre. 4.SE SCIÒVONO ‘E CANE SI S’ATTACCANO ‘E PPRETE Ad litteram: Si liberano i cani se si uniscono le pietre. L’espressione sostanzia una sorta di avveduta norma comportamentale e cioè che in caso di necessità occorre premunirsi, ossia provvedersi di ciò che serva di difesa; nella fattispecie, esemplificando, occorrerà sciogliere i cani ché facciano buona guardia tenendo lontano da una casa in costruzione ladri e/o malintenzionati (camorristi e simili adusi a estorcere alle ditte di costruzioni somme di danaro).Va da sé che il consiglio contenuto nell’espressione di sciogliere i cani cioé di fornirsi di adeguati mezzi di protezione o di deterrenza, possa essere applicato in ogni occasione e non soltanto in caso di costruzioni in atto. 5.SE SO' 'NCUNTRATE 'O SANGO I 'A CAPA. Letteralmente: si sono uniti il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarii al conserguimento di un quid. Anche in senso marcatamente dispregiativo per sottolineare l'incontro di due poco di buono dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo détto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue. BRAK

sabato 25 febbraio 2017

VARIE 17/246

1.SCUNTÀ A FFIERRE 'E PUTECA Ad litteram: sdebitarsi con i ferri della bottega Cosí si dice quando - non riuscendo ad ottenere il pagamento di un debito in moneta contante - il creditore si contenta di chiedere al debitore che lo soddisfi mediante l'opera lavorativa servendosi dei propri ferri del mestiere, cioè conferendogli artigianalmente un servizio in cui il debitore sia versato. 2.S'È ARRECCUTO CRISTO CU 'NU PATERNOSTRO. Variante: S'È ARRENNUTO CRISTO CU 'NU PATERNOSTRO. Letteralmente: Si è arricchito Cristo con un pater noster variante Si è arreso Cristo con un pater noster Illudersi di cavarsela con poca fatica e piccolo impegno, come chi volesse arricchire Iddio (di gloria) o ingraziarselo e trarlo dalla propria parte con la semplice recita di un solo pater. 3.S'È AVUTATO 'O MUNNO Ad litteram: à ruotato il mondo Amaro ed indispettito commento pronunciato da chi - specie anziani - si trovi ad essere coinvolto o anche a fare da semplice spettatore ad accadimenti ritenuti paradossali, assurdi ed inattesi che mai si erano verificati, né mai si riteneva si potessero verificare e che solo il capovolgimento del mondo à reso possibili. 4.SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò addirittura piú famosa della consorella,cioè la cosiddetta “riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia. SE FRUSCIA = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella. PANTUSCO inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di dolci non freschissimi. SFUGLIATELLE = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella. JUTE= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire. ACITO= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati. 5.SE MAGNA ‘A FRONNA ‘E LAURO I ‘O FECATIELLO Si mangia (inghiotte) la foglia d’alloro ed il fegatello. Icastica espressione usata per irridire chi ingordo, smodato nel mangiare e bere, ma anche figuratamente bramoso, avido di qualcosa, abbia un atteggiamento vorace, insaziabile o smodatamente assetato, desideroso, cupido al segno che nella fattispecie dell’espressioni divori con il fegatello, anche la foglia d’alloro usata per aromatizzarlo, ma che normalmente, dopo la cottura va scartata! BRAK

VARIE 17/245

1.SCIORTA E CCAUCE 'NCULO, VIATO A CCHI 'E TTÈNE! Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni 2.SCIORTA E MOLE SPONTANO 'NA VOTA SOLA. Letteralmente: la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone 3.SCIÚ, Â FACCIA TOJA! Espressione volgare di schifo e disprezzo, intraducibile ad litteram, che viene pronunciata, accompagnata spesso dal gesto di un finto sputo, all'indirizzo di chi è tanto spregevole da meritarsi di esser raggiunto da uno sputo al volto: infatti la parola sci ú altro non è se non l'onomatopeica riproduzione di uno sputo, che - come precisato nel prosieguo della locuzione – à come destinazione proprio la faccia di colui che si intende disprezzare! Talvolta l’espressione è limitata al solo sciú mantenendo però inalterato il senso di schifo e disprezzo contenuto nell’intera espressione. 4.SCUMMIGLIÀ 'A RAMMA Ad litteram: scoprire il rame Id est : togliere i coperchi alle pentole di rame (per controllarvi il cibo in cottura). Invito che si rivolgeva temporibus illis alle donne di casa addette alla cucina perchè controllassero attentamente la cottura delle pietanze, evitando di distrarsi con chiacchiere inutili. In senso traslato: mettere a nudo i difetti di qualcuno, come nell’espressione che segue. 5.SCUMMIGLIÀ 'E ZZELLE Ad litteram: scoprire le tigne e per traslato scoprir le magagne, le manchevolezze. Id est: mettere a nudo i difetti altrui . Locuzione della medesima portata del senso traslato della precedente. In particolare la zella (da un lat. reg.(capitem) *psilla(m)) è la tigna che veniva coperta con un cappelluccio e veniva così tenuta celata agli occhi indiscreti, fino a che un rompiscatole non strappasse il cappelluccio dalla testa del tignoso, mettendone proditoriamente a nudo i difetti.Per estensione si dice di chiunque si diverta a render note, quali che siano, le manchevolezze altrui battezzate pur sempre: zelle anche se non realmente attinenti alla tigna. BRAK

VARIE 17/244

1.S'À DDA ÒGNERE L'ASSO. Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua, bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti. 2.SAN LUCA NCE S'È SPASSATO... San Luca ci si è divertito...- Lo si dice di una donna cosí bella che sembra dipinta dal pennello di San Luca, che la tradizione vuole pittore autore di bellissime effigi femminili, tra le quali quella della santa Vergine. Espressione però usata anche furbescamente in senso antifrastico quando ci si imbatta in una donna decisamente brutta, quasi volendo significare che il santo pittore abituato a ritrarre donne bellissime, nella fattispecie si sia preso un divertimento (spasso) riproducendo una donna bruttissima. 3.SANTA CHIARA: DOPP'ARRUBBATO, 'E PPORTE 'E FIERRO! Letteralmente - Santa Chiara: dopo aver subíto il furto, (apposero) le porte di ferro. La locuzione è usata per redarguire chi è tardo nel porre rimedi o aspetti di subire un danno per correre ai ripari, mentre sarebbe stato opportuno il prevenire che è sempre meglio del curare; l’espressione ironizza sul correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in Luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti a danno della antica chiesa partenopea. 4.SANT'ANTUONO, SANT' ANTUONO TÈCCOTE 'O VIECCHIO E DDAMME 'O NUOVO E DDAMMILLO FORTE FORTE, COMME Â VARRA 'E ARETO Â PORTA... Sant' Antonio, sant' Antonio eccoti il vecchio e dammi il nuovo, e dammelo forte, forte come la stanga di dietro la porta. La filastrocca veniva recitata dai bambini alla caduta di un dente, anche se erroneamente si invoca il sant' Antonio, che non è il santo predicatore da Padova,[détto Antonio]al quale rivolgersi come competente dei problemi riguardanti la bocca, ma si invoca sant’Antuono che è il santo anacoreta egizio, protettore del fuoco e degli animali domestici. 5.SCARTE FRÚSCIO E PPIGLIE PRIMMERA! Icastica, sarcastica, sardonica, beffarda, canzonatoria, pungente,,caustica locuzione esclamativa partenopea che per apparir piú chiara dovrebbe addizionarsi d’un NUN(non) diventando scarte frúscio e nun piglie primmera! (ma in tal guisa perderebbe tutto il suo gustoso sapore di ironia e sarcasmo e quindi meglio lasciar le cose come sono ed esclamare SCARTE FRÚSCIO E PPIGLIE PRIMMERA! Che è un’ esclamazione intraducibile ad litteram che però si può rendere comunque, lato sensu, con Di male in peggio! oppure Cader dalla padella nella brace! quantunque l’espressione napoletana abbia una sfumatura di malevola soddisfazione (nuance assente nell’espressione italiana) nel constatare la sgradevole situazione di chi – per sua insipienza - abbia scartato un frúscio sperando di avere una primiera e sia rimasto chiaramente a mani vuote, peggiorando cioè la propria situazione,id est cadendo dalla padella nella brace. Ò parlato di espressione intraducibile ad litteram in quanto è assolutamente fuori luogo (come chiarisco qui di sèguito) tentar di renderla con un inconferente: Scarti flusso (fruscio) e raccogli primiera! Infatti la parola napoletana frúscio non può esser tradotta, , (come pure inopinatamente fece Raffaele D’Ambra nel suo dizionario napolitano, e come fanno tutti coloro (Altamura, D’Ascoli etc.) che spudoratamente vi attingono…), non può tradursi flusso, frúscio/fruscío, rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega e simili che indicano cosa del tutto diversa; il napoletano frúscio agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare = frusciare che in primis sta per fare in pezzi, sciupare, consumare ed à poi, nella forma riflessiva frusciarse, il significato di reputare impropriamente e quelli estensivi di vantarsi a torto, gloriarsi, pavoneggiarsi senza motivo) vale cosa floscia,insignificante,di scarso valore, inconsistente, moscia, tutte cose che - come è intuitivo - nulla ànno a che spartire con flusso, frúscio (attestato talora soprattuto di vestiti,o di foglie come fruscío), rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega etc.; il s.vo e solo s.vo italiano frúscio/fruscío à un’etimologia onomatopeica e connota cosa affatto diversa dal frúscio napoletano che è – come ò détto – è un agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare). A questo punto, per parlar fuor de ’l velame de li versi strani, converrà fare un passetto indietro e chiarire cosa siano il frúscio e la primmera dell’epigrafe; chiariti i due concetti, forse si chiarirà tutta la portata dell’espressione in esame. L’espressione attestata già anticamente, è mutuata da un gioco d’azzardo di carte, chiamato appunto primiera (voce derivata da primiero, in quanto la primiera si ottiene possedendo le carte di ogni seme che ànno il punteggio piú alto ( punteggio non facciale, ma prestabilito: i medesimi in uso nel conteggio della primiera nel gioco della scopa e cioè: 7 – 21 punti, 6 – 18 punti ,asso – 16 punti, 5 - 15 punti etc.a decrescere sino alle figure che valgono 10 punti cadauna )); la primiera è dunque un gioco d'azzardo nel quale vince il giocatore che somma il maggior numero di punti con quattro carte di quattro semi diversi; nel medesimo giuoco il fruscio è la somma del maggior numero di punti con quattro carte del medesimo seme; il fruscio è una combinazione secondiara che permette la vincita solo di una posta inferiore a quella destinata alla primiera; ora a chi possieda un fruscio dopo la prima distribuzione di carte, è dato la facoltà di scartarne alcune ( due o tre) e farsele sostituire dal cartaro sperando di riceverne di piú atte a mettere insieme una primiera che dà diritto alla vincita della posta piú alta; va da sé che era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio che comunque dà diritto ad una vincita secondiara, per rincorrere la conquista di una primiera difficilissima da conseguire; era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio perché il piú delle volte non si consegue la primiera e si perde anche il fruscio scartato! Giunti a questo punto si comprende dunque la portata ironica se non sarcastica della locuzione partenopea in epigrafe che viene spesso usata con malevola, ostile, rancorosa soddisfazione per le disgrazie altrui, nei confronti di chi abbia lasciato il certo per l’incerto e prendendosi gioco di costui gli si rinfacci ironicamente (giacché in realtà non è avvenuta l’evenienza migliore…attesa, ma non conseguita) di aver scartato un fruscio e preso una primiera (piú chiaramente: di aver scartato un fruscio e(non) aver preso una primiera) d’aver cioè peggiorata la situazione, cadendo dalla padella nella brace. In coda rammento gli etimi delle voci incontrate e non ancóra esaminate: SCARTE = scarti voce verbale (2ª prs.sg.) ind. pres. dell’infinito scartà = scartare (denominale di carta con protesi d’una esse distrattiva): 1 togliere un oggetto dalla carta che lo avvolge: scartà ‘nu pacco(scartare un pacco) 2 ( ed è il caso che ci occupa) nei giochi di carte, eliminare o sostituire una carta con particolari intendimenti a seconda del gioco; 3 mettere da parte, respingere come dannoso o inutile: scartare una proposta; scartare i libri superflui; scartare qualcuno alla visita di leva, dichiararlo non idoneo al servizio militare; PIGLIE = pigli voce verbale (2ª prs.sg.) ind. pres. dell’infinito piglià = prendere, pigliare ( dal lat. volg. *piliare, dal class. pilare 'rubare, saccheggiare'). BRAK

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1.S’À PIGLIATO ‘E TTÀBBARE Ad litteram: Si è preso le moine; id est: si è lasciato circuire. Détto sarcasticamente di un/una innamorato/a che non à avuto modo di accorgesi d’esser tradito dalla controparte, irretito/a com’era dalle moine e svenevolezze usategli al fine di ingannarlo/a e tenergli/le celato il tradimento. tàbbare s.vo f.le pl. di tàbbara = moina, svenevolezza (dallo spagnolo tàbara= filastrocca). 2.S’È ‘MMARETATA CU ‘NU SCIORE ‘MMOCCA Ad litteram: Si è sposata con un fiore in bocca Id est: à fatto ricorso a nozze riparatrici, nozze celebrate dopo che la donna fosse stata piú o meno consenzientemente violata: insomma nozze celebrate in extremis. L’espressione decisamente irridente è usata per dir male di donna sulla cui onestà prematrimoniale ci sia di che dubitare, prende comunque le mosse da un’antichissima usanza d’epoca viceregnale(XV-XVI sec.) allorché quando decedesse una ragazza in età da marito le veniva posto una rosa fra i denti. Il rapporto semantico tra quest’usanza ed il significato dell’espressione in esame è da cogliersi nel fatto che le nozze celebrate a riparazione sostanziano una sorta di morte morale della donna che vi debba ricorrere; mentre il rapporto semantico ironico si coglie tenendo presente che la rosa posta tra i denti di una ragazza morta indicava ch’ella era in età da marito, mentre un’eventuale rosa posta tra i denti di una donna violata indicherebbe non la sua giovane età, ma la sua scostumatezza! 3.S’È ARAPUTA ‘A PRUFUMMARIA ‘E BERTELLE Si è aperta la profumeria di Bertelli Espressione sarcastica da intendersi un senso antifrastico e cioè per significare che si avverte un gran cattivo odore, espressione usata per commentare negativamente l’apparire di persona (uomo o piú spesso donna) che per mancanza di igiene personale lasci attorno a sé una scia di cattivo odore. In realtà la profumeria di Bertelli fu nel tardo ‘800 – primi ‘900 una rivendita di ottimi profumi prodotti dall’industria di Achille Bertelli(Brescia 1855 -† ivi 1925).Costui fu un i ndustriale e pioniere dell'aeronautica italiano e fondò (1884) la società A. Bertelli e Co., produttrice di profumi e cosmetici. In campo aeronautico, ideò e costruì un tipo di elicottero; con V. Cordero di Montezemolo ideò (1905-06) un aeromobile a sostentazione mista (statica e dinamica), détto aerostave, che non ebbe però sviluppi pratici. Fu nella seconda metà dell’Ottocento -nel 1888- che Achille Bertelli, reduce da un viaggio in America che si era pagato lavorando a bordo della nave che lo trasportava, diede inizio alla sua attività imprenditoriale. Laureato in farmacia, sperimentò e produsse con grande successo un nuovo rivoLLUzionario cerotto medicamentoso che per decenni alleviò i dolori alla schiena di milioni di pazienti in tutto il mondo. Rapido fu il passaggio alla cosmesi, con la produzione di saponi profumati e della crema Venus, nome che venne in sèguito attribuito a tutta una serie di prodotti Bertelli; ma fu il fratello Vittorio a dare impulso alla linea cosmetica, subito dopo la prima guerra mondiale, iniziando la produzione di profumi, ciprie e creme per la donna moderna, e aprendo negozi di profumeria nelle maggiori città italiane per la vendita al minuto di prodotti farmaceutici (il famosissimo cerotto Bertelli antinfiammatorio) e successivamente anche dei prodotti di profumeria e cosmesi. Tra i prodotti di cosmesi e profumeria di maggior successo Bertelli sono da ricordare La Rosa, Asso Di Cuori, Ebbrezza Marina e Come Tu Mi Vuoi,che oltre a vincere un premio all’Esposizione di Parigi del 1937 -fatto piú unico che raro per un profumo italiano, in terra di Francia - aveva come testimonial la famosissima attrice Greta Garbo, nome d'arte dell'attrice cinematografica Greta Louisa Gustafsson (Stoccolma 1905 -† New York 1990).Rammento in coda che l’espressione è usata anche all’approssimarsi di un cattivo soggetto il cui cattivo odore è rappresentato dalle sue malefatte. 4.S’È AUNITO, ‘A FUNICELLA CORTA I ‘O STRUMMOLO A TIRITEPPE… Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione... Tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come ad esempio nel caso di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato. 5.S'À DDA FÀ 'O PIRETO PE CQUANTO È GGRUOSSO 'O CULO. Letteralmente: occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati. BRAK

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1.RUMMANÉ Â PREVETINA COMME A DON PAULINO. Ad litteram: restare alla "prevetina" come don Paolino prete nolano(celebre, altrove, per la sua indigenza cosí grande da non permettergli l'acquisto di ceri per le funzioni religiose, che era costretto a celebrare usando i piú economici tizzoni di carboni ardenti). Id est: ridursi in gran miseria al punto di possedere solo una prevetina, moneta che valeva appena 13 grana, ossia molto poco, e che prendeva questo nome perché con la "prevetina" moneta del valore appunto di 13 grana ci si pagava la celebrazione di una santa Messa piana. Un sacerdote che lucrasse in una giornata una sola prevetina con la quale avrebbe dovuto far fronte a tutte le esigenze quotidiane, non aveva certo di che stare allegro... 2.S' A' DDA JÍ A DD' 'O PATUTO, NO A DD' 'O MIERECO. Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè: la pratica val piú della grammatica. 3.S' È AVUTATO 'O CANISTO Ad litteram: si è invertito il canestro Locuzione che, con amaro senso di dispetto viene pronunciata da chi vede che una situazione che lo riguarda da che era positiva e favorevole, cambia improvvisamente diventando sfavorevole e negativa. Originariamente la locuzione ripeteva la delusione che si ascoltava sulla bocca dei giocatori del lotto che dopo alcune estrazioni favorevoli vedevano sortire numeri che non attendevano ed attribuivano la faccenda al fatto che l'urna (il canestro della locuzione) contenente i bussolotti con i numeri fosse stata - eccessivamente - ruotata. 4.S' È FATTA NOTTE Ô PAGLIARO. Letteralmente: È calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...) 5.S' È 'MBRIACATA 'A USCIOLA! Letteralmente: s'è ubriacata la bussola! E' questo l'amaro commento che si usa profferire davanti a situazioni inopinatamente ingarbugliatesi al punto da non permettere a nessuno di venirne a capo, come sarebbe quasi impossibile ad un marinaio, ritrovare il nord allorché la sua bussola, incappata in una tempesta magnetica non riuscisse piú ad indicare la sicura via, comportandosi quasi da ubriaca. BRAK

venerdì 24 febbraio 2017

VARIE 17/241

1.QUANTO È BBELLO I 'O PATRONE S''O VENNE! Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà. 2.RA COPPA SANT' ERMO, PESCA 'O PURPO A MMARE. Letteralmente: Da sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando sull'azione di chi si affanna a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina di sant'Elmo, che è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 250 metri... 3.RICOTTA, LATTE E NNATTA, D'ORO VAJE VESTUTO, MA SEMPE FIETE ‘E LATTE ! Ricotta latte e panna, di oro ti puoi vestire, ma sempre di latte puzzi!. Con l’espressione ci si riferisce alle umili origini d’un ipotetico popolano che pretendesse di fare il signore con atteggiamenti nobili ed altolocali. Saranno sempre evidenti le origini plebee di un uomo anche se riccamente vestito da gran signore. 4.ROMPERE 'O NCIARMO. Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La parola nciarmo= magia, fascino, incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen ma da un francese n(eufonico) + charme 5.RROBBA 'E MANGIATORIO, NUN SE PORTA A CUNFESSORIO Ad litteram: faccende inerenti il cibarsi, non vanno riferite in confessione. Id est: il peccato di gola... non è da ritenersi un vero peccato da confessare ; a malgrado che la gola sia uno dei vizi capitali, per il popolo napoletano, atavicamente perseguitato dalla fame, non si riesce a comprendere come sia possibile ritenere peccato lo sfamarsi anche lautamente... ed in maniera eccessiva. BRAK

VARIE 17/240

1.QUANNO SCIOSCIA VIENTO 'E TERRA, 'O PESCE NUN ZOMPA DINT' Â TIELLA. Letteralmente: quando spira il maestrale il pesce non salta in padella. Id est: i giorni spazzati dal vento maestrale sono i meno adatti per la pesca. Piú in generale il proverbio sta a significare che per ottenere buoni risultati occorre attendere il momento propizio e non bisogna avventurarsi in alcuna opera quando spiri vento avverso. 2.QUANNO SÎ 'NCUNIA STATTE E QUANNO SÎ MARTIELLO VATTE Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole. 3.QUANNO SIENTE 'O LLATINO DÊ FESSE, STA VENENNO 'A FINE D' 'O MUNNO... Quando senti i fessi parlare in latino, s'approssima la fine del mondo. Cioè: quando gli sciocchi prendono il comando a parole e con i fatti, si preparono tempi grami. 4.QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, APPRIMMA O DOPPO VAJE CU 'O CULO 'NTERRA. Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio 5.QUANNO VIDE 'O FFUOCO Â CASA 'E LL'ATE, CURRE CU LL'ACQUA Â CASA TOJA... Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura. BRAK

VARIE 17/239

1.QUANNO 'O MELLONE JESCE RUSSO, OGNEDUNO NE VO’ 'NA FELLA. Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore... 2.QUANNO 'O PARENTE CORRE, 'O VICINO È GGIÀ CURRUTO. Ad litterram: quando il parente accorre, il vicino lo à già fatto. Id est: bisogna aspettarsi maggior aiuto da un vicino che da un parente, che viene a prestarti aiuto meno sollecitamente di un vicino: questo - almeno - accade in Campania dove esiste ancora la cultura del buon vicinato; per la restante parte d'Italia non so, né mi pare sia dato sapere... 3.QUANNO 'O PIRO È AMMATURO, CADE SENZA TURCETURO. Quando la pera è matura, cade senza il bastone. IL turceturo è un bastone uncinato atto a pigare il ramo al fine di scuoterlo per far cadere il frutto.Id Est: Quando un'azione è compiuta fino alle sue ultime conseguenze queste non si lasciano attendere. senza alcun reddito, persona che pertanto non pagava tasse. 4.QUANNO 'O VINO È DDOCE, SE FA CCHIÚ FORTE ACÌTO. Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti. 5.QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TRUVÀ, QUACCHE CAZZO TE VENE A CCERCÀ. Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa viene a cercarti. Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa. BRAK

VARIE 17/238

1.QUANNO 'E MULINARE FANNO A PPONIE, STRIGNE 'E SACCHE. Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio. 2.QUANNO JESCE 'A STRAZZIONA, OGNE FFESSO È PRUFESSORE... Quando è avvenuta l'estrazione dei numeri del lotto, ogni sciocco diventa professore. la locuzione viene usata per sottolineare lo stupido comportamento di chi,incapace di fare qualsiasi previsione o di dare documentati consigli, s'ergono a profeti e professori, solo quando, verificatosi l'evento de quo, si vestono della pelle dell' orso...volendo lasciar intendere che avevano previsto l'esatto accadimento o le certe conseguenze...di un comportamento. 3.QUANNO 'NA FEMMENA S'ACCONCIA 'O QUARTO 'E COPPA, VO' AFFITTÀ CHILLO 'E SOTTO. Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di un amante che soddisfi le sue voglie sessuali. 4.QUANNO NUN SITE SCARPARE, PECCHÉ RUMPITE 'O CACCHIO Ê SEMMENZELLE? Letteralmente: poiché non siete ciabattino, perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa. 5.QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta. BRAK